Stream of consciousness

Tri(e)ste

Trieste oggi pomeriggio si specchiava in un mare incredibile. Il cielo ancora denso di nubi nere lasciava al sole un unico grande spiraglio, sufficiente per disegnare sull’acqua, fino all’orizzonte, una grande macchia di latte.

La città scendeva in piazza per le sue panchine negate, segate via da un’amministrazione comunale desiderosa di sbarazzarsi dell’ingombro di qualche barbone. Ho ripensato all’omone di colore che incontravo per strada ai tempi dell’università. Chissà perché l’avevo battezzato Joshua, come l’albero degli U2. Forse perché era un albero: 2 metri di carne umana sempre imbacuccata in un piumone grigio, una barba lunghissima e grigia, un berretto di lana e degli stivaloni da pescatore. E una faccia che avrebbe potuto avere un senso solo in qualche galera di un film americano. Galera ingiusta, ovviamente.

Non c’era Joshua, in piazza. C’erano tante facce belle e civili. Così belle e civili da farmi sentire una volta di più – e forte – di “non appartenere” ad alcunché. Di non riuscire – parafrasando Saba, a proposito di Trieste – “a immettere la mia dentro la calda vita di tutti”.

In Piazza Venezia c’erano il prof. universitario e la giovane mamma con la carrozzina, il tranquillo pensionato e lo scrittore premiostrega, l’artista di strada e l’affermato cantautore. C’ero anch’io, ma di passaggio, decisamente più a mio agio nello scompartimento vuoto del treno, con un libro sulle ginocchia, o perso tra le strade di una città di mare e di matti.

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