Imago, Le storie di Scuolamagia

Col cuore in mano

manaIeri a Scuolamagia non c’era soltanto il tema. Alle 11.31, infatti, c’erano i 200 stile libero di Federica Pellegrini ai mondiali d’Australia. La campanella delle 11.30, generalmente, segna il passaggio tra un’ora di educazione fisica e un’ora di italiano. Un breve passaparola, un urletto nel corridoio ed eravamo tutti davanti alla Tv: chi seduto su una sedia, chi per terra, chi sulle ginocchia di un compagno. Anche chi non ne sapeva nulla, degli australi mondiali. Sono i momenti più belli, quelli in cui quel luogo, la mia scuoletta, perde ogni residuo di patina istituzionale e diventa comunità purissima. Il collega ha introdotto con parole efficaci il breve evento cui avremmo assistito, poi ci siamo concentrati sulle concentrazioni delle atlete. La nostra portacolori si è dovuta accontentare del bronzo, e sull’apposita riga del registro – nello spazio: argomento della lezione –  avrei dovuto scrivere “delusione dipinta sul volto”. Ma in acqua c’era comunque anche una strepitosa vincitrice che in fondo in fondo ci ha insegnato un po’… l’amore.  

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Soletta

“Come Mastroianni anni fa…”

 

Antonio Albanese è il più grande attore italiano.

Il suo Epifanio stringe il cuore, i suoi baci volanti sono dolcezza concreta, palpabile. Baci farfalla, pallina da tennis, baci a canestro, baci che escono dalle tasche.

L’industriale Perego è comicità abbagliante: «ero in camera da letto, stavo saldando…».

Poi arriva un personaggio suo classico, con un tratto comune a molte altre sue creature da palcoscenico. Chiede scusa, «veramente scusa», «scusa un bel po’». Sembra stia per confessare un’atroce diversità, un crimine commesso, una mancanza verso tutti…

Abbassa testa e voce…:

«…non ho una password, non ho un blog…»

 

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Stream of consciousness

Ci vediamo al solito posto, al solito incanto

Alla prima persona che mi chiederà per quale ragione io non porti al polso un orologio risponderò con naturalezza dicendo che ore, minuti e secondi non sono l’unico modo per misurare il tempo.

E che si può misurarlo anche attraverso il tempo degli incanti.

(…poi, se la persona avrà visto Ermanno Olmi da Fazio, inevitabilmente mi “sgamerà”, ma val la pena di correrlo, questo rischio…)

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Imago, Soletta

Stellata

«Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla domanda: – Perché la costruzione di Tecla continua così a lungo? – gli abitanti senza smettere d’issare secchi, di calare fili a piombo, di muovere in su e in giù lunghi pennelli. – Perché non cominci la distruzione, – rispondono. E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce: – Non soltanto la città.

Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l’occhio alla fessura d’una staccionata, vede gru che tirano altre gru, incastellature che rivestono altre incastellature, travi che puntellano altre travi. – Che senso ha il vostro costruire? – domanda. – Qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto?

– Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere, – rispondono.

Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono.»

 

Italo Calvino, Le città invisibili

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Stream of consciousness

Cliò c’est moi

Poi un giorno ho cominciato a scrivere un altro romanzo da cassetto. Era la storia di un uomo della mia età di allora (25?) che è costretto a trovarsi un lavoro per continuare e ultimare i suoi studi (lettere? filosofia? non ricordo). Si fa quindi assumere presso una cooperativa cui vengono appaltate le pulizie di un grande ospedale cittadino e proprio nel nosocomio in cui passa quotidianamente lo straccio una mattina incontra Cliò (altro vago riferimento narcisistico-autobiografico). Cliò è una ragazza di nemmeno vent’anni. Qui il romanziere senza romanzo aveva svolto un ottimo lavoro propedeutico, tutto cerebrale, se è vero che la fanciulla è come se ce l’avessi qui davanti, ora, con le sue lentiggini spruzzate sotto gli occhi. È Cliò a fare il primo passo, chiedendo con modi furtivi al protagonista… una sigaretta. Il nostro in evidente imbarazzo risponde che forse in un ospedale non è proprio il caso e… insomma… dalla bocca gli escono incontrollate e insensate parole salutiste. Cliò lo gela dicendo che il suo orizzonte è fin troppo corto per pensare a certi dettagli, gli chiede bruscamente se ha letto il nome del reparto, prima di entrarci. Insomma, la giovane è condannata a quella degenza da gravissimo e incurabile male. Cominciano quindi quotidiani incontri tra i due, più o meno clandestini. Incontri e piccole fughe verso qualche parvenza di normalità. Una corsa in un prato, prendere la pioggia, ballare, mangiare qualche schifezza. Non serve essere dei geni per capire che nascerà tra i due un sentimento unico e tragico e indissolubile. Molto ruoterà attorno al corpo di Cliò, alla sua bellezza messa a repentaglio. Si farà carico il protagonista, del corpo di Cliò. Tenterà la disperata impresa di farla sentire ancora bella, nonostante il pallore e gli effetti dello spietato avanzare del male. Cliò diventerà per Lui il Senso, il Grande Cocomero, la cosa tanto aspettata, il motivo per cui alzarsi la mattina. E fin qui il quadro psicologico è fin troppo facile. Nei pensieri della ragazza ben altre turbolenze, contraddizioni, ansie e sogni spezzati. Il finale? Da quando in qua si dicono i finali?

Ho riempito qualche foglio con la matita, ho dato il nome a un file di Word rimasto vuoto.

Poi basta. Ma Cliò c’è ancora, nella mia memoria di personaggi inventati. Molto più nitida di quella stronza di Madame Bovary. Non ho avuto la forza e la capacità di farla vivere, ma c’è. C’è il momento in cui si è lasciata baciare (anzi, l’ha proprio chiesto…), toccare, ci sono tutte le sue lacrime, il suo pigiama…

Ma tanto poi voi avreste comprato Federico Moccia…

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Soletta, Stream of consciousness

La prospettiva di Antaya

Onore al blogger. Onore a Ivan Scalfarotto. Onore ad un post meraviglioso, uno dei più belli che abbia mai letto. Mi commuovono certi film, ci sono canzoni che fanno correre un brivido lungo la mia schiena, molti libri mi hanno segnato a lungo e in profondità. Non pensavo che una pagina di “diario on line” potesse toccarmi così tanto e così forte. Grazie, grazie, grazie. Adesso penso alle mie domande, alla mia prospettiva di Antaya.

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Le storie di Scuolamagia, Soletta

Raccogliere senso e dolcezza

«…con i versi si fa ben poco quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza tutta una vita e meglio una lunga vita e poi, proprio alla fine, si riuscirebbe poi a scrivere poi dieci righe che fossero buone. Per poter scrivere un solo verso si devono vedere prima molte città, uomini  e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sapere come gli uccelli volano, si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a separazioni inaspettate e ad incontri che vengono da lontano…

…si devono avere ricordi di molte notti d’amore nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi bianche puerpere addormentate che si richiudono…

…e anche avere ricordi non basta si deve poterli dimenticare quando sono molti e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino.»

 

Rainer Maria Rilke, dentro I piccoli maestri di Daniele Lucchetti, dentro il cineforum di oggi pomeriggio, dentro Scuolamagia.

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Soletta

Cinema!!! (2)

I film di Francesca Archibugi funzionano tutti pressappoco nella stessa maniera. E per fortuna, dico io. Ci sono ragazzi (e chi li racconta, al cinema, i ragazzi?), c’è tutto un mondo intorno vivace e colorato (e questa volta, in India, di più…), ci sono adulti disperati che ti fanno pensare che per la regista il CRESCERE dev’essere proprio una rovina… Ci sono sempre tanta dolcezza e tanta sensibilità, ci sono dialoghi asciutti e profondamente poetici: tolgono qualcosa al realismo ma aggiungono magia. Ci sono parole che vorresti aver detto, ci sono parole che dirai domani. C’è sempre Marco Lodoli che fa la comparsa, nei film di Francesca Archibugi, e i personaggi hanno nomi stranissimi (Siddharta, Apollonio detto Pollo…). C’è sempre qualcuno che prega, ma sono sempre preghiere strane, diverse, e il dio non è mai lo stesso. Ci sono lietofine un po’ scontati addolciti da un ultimo guizzo d’originalità, magari solo un fotogramma che ti sorprende.

Ho raccolto (scrivendoli sul telefonino) alcuni frammenti di dialogo che mi hanno colpito. Brevi, ovviamente. Li ho portati via con me.

La trentaquattrenne al diciottenne innamorato:

«Nessuno mi guarda come mi guardi tu. Tu non mi giudichi mai…»

Il diciottenne a proposito della trentaquattrenne:

«Non è che mi piace… mi serve… come le scarpe… come il sonno…»

Il diciottenne alla trentaquattrenne che gli ha appena detto di andarsene:

«Allora se non mi vuoi sono qualcosa…»

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Soletta

Cinema!!!

Intanto il titolo è bellissimo: In memoria di me.

Poi ci sono le immagini, il primo piano dei volti immobili, lo stesso immenso corridoio colorato da luci e ombre ogni volta nuove. Poi ci sono i passi degli uomini, perché ogni cosa che accade è preceduta dalle impronte sonore necessarie affinché il protagonista possa raggiungere il luogo degli eventi. Poi c’è quello che devi per forza presupporre in assenza di informazioni utili, ché il regista un po’ dice e moltissimo volutamente tace. Poi c’è Filippo Timi con la sua recitazione straniante ed il suo corpo che parla. Ad un tratto nomina un “silenzio” che è “vuoto”, ed con quella voce è un brivido lungo la schiena. Poi dice che “stiamo soltanto replicando il mondo” e per un attimo sembra di essere davanti a Blade Runner e non davanti ad una pellicola ambientata all’interno di una comunità religiosa. Gran film, avrei quasi voglia di rivederlo…


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Soletta, Stream of consciousness

Tempo di attesa

Liberami e proteggimi
Verità nell’apparenza
Ordine nel disordine
Liberami e proteggimi
Profilo di penombra
Alito di vita
Confine tra il cielo, la terra e il mare…
Liberami, proteggimi
Strada deserta ancora da tracciare
Liberami, proteggimi
Orizzonte costante da disabitare
Parlami una sola parola
Che è tempo di attesa
Tempo di cielo, di terra e di mare
Tempo da dove tutto può arrivare

Ginevra Di Marco, Trama tenue

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Le storie di Scuolamagia, Tutte queste cose passare

Jesus, o Rodrigo, o Ramòn

C’ho pensato alle 11.30 che oggi è l’11 marzo. Tardi. Ho visto in tv un Re affranto vicino ad un superpremier compunto e di nero vestito. L’11 marzo 2004 ero in classe ed eravamo corsi su internet: breaking news tutte sbagliate, la conta dei morti, quel clima elettrico e confuso. Un anno dopo è andata meglio: gli stessi ragazzi, la stessa stanza, le parole giuste da leggere. Dopo lunga ricerca stringo tra le mani l’articolo ingiallito di Concita De Gregorio, 13 marzo 2004. Più che un articolo un racconto straziante. Le persone semplici e ignare che escono di casa e corrono in stazione verso quel treno destino: l’operaio, l’impiegata, la donna col pancione.

«Alle sei sotto i portici antichi di Calle Mayor sono ancora accesi i lampioni. Ana Isabel e suo marito Jesus escono dalla casa studio del medico amico che ha risposto alla telefonata all’alba: sì vieni pure Ana, ti visito subito. L’ecografia è a posto. Il bambino sta bene, è pronto per nascere è già a testa in giù. È un maschio: vogliono chiamarlo Jesus come suo padre, o Rodrigo o Ramòn. Resta a casa se non ti senti, le dice Jesus mentre la accompagna alla stazione, no sto bene, dai, vado, risponde lei: sono gli ultimi giorni di lavoro, mi riposo dopo. Ana, incinta di sette mesi, entra in stazione.»

In classe c’era il clima giusto. A leggere ci avrei pensato io – ché il testo lo conoscevo già e c’erano tutti quei nomi esotici –  ma sul tavolo avevo disposto un grande foglio bianco con alcuni pennarelli, e qualche tratto a matita già abbozzato: un treno, la sagoma di una donna incinta, un telefonino… Un telefonino?

«Juan Pablo de Villaroel fa il pompiere, è di queste parti. Era in servizio giovedì mattina. Piange. “Suonavano tutti i cellulari dei morti, sul treno. Tutte le suonerie con le canzoni di moda. Camminavo tra i corpi e pensavo a quella gente da casa, le mogli le madri i fratelli che li stavano chiamando sperandoli vivi”…»

Occhi lucidi, in classe, davvero, e un’alunna che – consapevole di detenere da sempre la palma di miglior disegnatrice – ha impugnato i pennarelli per aggiungere dettagli alla storia: i cipressi al cimitero, i binari, il bambino.

«Jesus ripete all’infinito dell’ecografia, della visita all’alba, del viaggio fino alla stazione. Ana Isabel era ancora viva quando l’hanno trovata, l’hanno portata in ospedale a Madrid, l’hanno tagliata e hanno preso il bambino. Troppo piccolo, troppo grande il trauma, troppo tardi. A Jesus, che ha 30 anni, hanno restituito due corpi. Però nella bara qui al cimitero lui li ha voluti insieme. “L’ho rimesso con lei, li ho fatti stringere insieme nelle bende com’erano quando li ho salutati ieri mattina. Una cosa sola. Una cosa grande. La mia vita.” Ana, 29 anni, e il suo bambino nella pancia. Jesus, o Rodrigo, o Ramòn.»

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Tutte queste cose passare

Amici di Anpalagan

Tra i visitatori della pozzanghera ci sono alcuni carissimi amici di Anpalagan Ganeshu. Mi piace pensare alla loro gioia nell’apprendere questa Notizia. Nelle scorse settimane il Senato della Repubblica ha dato di sé un’immagine molto poco edificante, a causa dei suoi numeri e soprattutto per i “numeri” di qualche suo componente. Però: tra quegli scranni, lontano dai riflettori, c’è anche chi lavora sodo per il paese, per l’umanità, per me e per il povero Anpalagan.

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Imago, Soletta, Stream of consciousness

Un naso rosso

Il clown che viene da Bucarest ha la faccia segnata, anche se di anni sembra averne davvero pochissimi. Rigidamente ancorato alle mie letture, forse un po’ morbose, attorno alle esistenze come la sua, non sono riuscito a vedere la luce della sua seconda vita. Riusciva ad aprire i sorrisi del pubblico come fossero lucchetti con la chiave, ma il suo mi è sembrato il volto di chi non ha mai riso davvero e mai potrà più farlo. Di chi ha sofferto oltre il limite consentito, oltre ogni senso possibile, ed ha dovuto ricondurre la vita ad un affare di sopravvivenza. Ho pensato cose terribili, di cui mi sono vergognato. Nuvoletta: “sta facendo divertire da matti il bambino invitato sul palco, ma con la stessa naturalezza potrebbe picchiarlo, prenderlo a schiaffi”. Pensieri imbarazzanti, i miei, che ripudio e ricaccio nel fondaccio nero di me stesso. 

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Imago, Stream of consciousness

When we were kids

Clioyoung

Aveva improbabili capelli a spazzola. Aveva tanti sogni, parecchi incubi. Aveva paura di dormire da solo, era decisamente ipocondriaco. Indossava una maglia, la numero 8, ma i gol più belli li segnava ad occhi chiusi. Disegnava sodo, registrava le sue prime cassette. Forse desiderava certe felpe colorate, che comunque non si sarebbe potuto permettere. Forse si era pure innamorato, una volta, ed era convinto di avere le gambe troppo poco pelose. Curioso, ma doveroso (e doloroso), confrontarlo con i dodicenni di oggi, di 20 anni dopo, che ogni giorno gli dicono PROF.

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