Le storie di Scuolamagia, Soletta

Incontro

Succede che consegnata e discussa la tesi di laurea sui cantieri della Tav, la protagonista del libro del post precedente, a pag. 142, apra una specie di parentesi. Troppo bella e toccante per non regalarvela qui.

 

«Tempo fa sono passata davanti al tuo portone. Ho guardato l’incisione del tuo cognome sull’ottone del campanello. Ho alzato gli occhi e ho visto che ci sono due finestre  con le bandiere della pace. Una sarà tua?

E guarda caso ti vedo nel piccolo giardino qui di fronte. La mia pausa pranzo. Ti siedi vicino a me sulla panchina, al fresco. Pacato. Come se ci fossimo visti ieri.

Cerco di nascondere l’emozione. Ma lo sai che, con piccoli gesti del collo e delle dita, tiro la tenda dei capelli sul viso, come quando rischiavo di essere interrogata.

La tua casa è nella stessa via dove lavoro. Lavoro… si fa per dire… non è quel tipo di lavoro che immagini. Di cosa mi occupo? Progetti vari, ricerca sociale… Oh, faccio di tutto, dalla segreteria, a prendere contatti, organizzare convegni, scrivere rapporti, cercare dati, a fare interviste, la mia specialità, direi. È una cosa un po’ noiosa da spiegare e tu lo capisci. Ti bastano poche parole per capire. Non quelle ingarbugliate che uso per spiegare a tutti… Mi vedi bene? Mah, sarà… sai, in quest’ultimo anno me ne sono successe di cotte e di crude. Dici che sono forte? Ah, per via delle spalle che mi ritrovo? Sempre a prendermi in giro… Ho ricercato il tuo numero di telefono sull’elenco. C’è sempre il tuo nome. E pure la professione: prof. Il mio prof. quello che si sistemava sempre il ciuffo dei capelli. Sì, potevo chiamare… provare… ma sai, poi che avrei detto?

Le medie: italiano, storia, geografia, educazione civica. Anche educazione sessuale, ricordi? A tutti chiedevi le nostre paure. Io ti dissi che avevo terrore di partorire e tu commentasti: “Be’, sei già alla fine, tutta la parte precedente non ti spaventa?”. No, prof. non ho avuto veramente paura di amare.

Dai, mi fai arrossire! Sono rimasta con quella paura. Quella finale. Eh, no. Non ho ancora figli. Ti stupisce? Be’, però ho continuato a studiare. Hai sempre detto che ero una delle poche che aveva le idee chiare. Non lo so. Però mi sono laureata. Sai che gli schemi logici per studiare che ci insegnasti, quelli con poche parole e qualche freccia, tutti me li invidiavano all’università? Tutti a dire degli schemi della Simo… non sai quante volte ti ho rammentato. Vuoi la tesi? Sì, te la porto uno di questi giorni. C’è anche una dedica. A chi l’ho dedicata? A te che mi hai insegnato il dubbio e ai miei genitori che mi hanno sostenuto e incoraggiato nel pormelo.

Oh, sì che te la meriti.

[…]

Oh, sì che ce l’ho ancora il pallino per Istanbul, la vecchia Costantinopoli, quel punto tra Occidente e Oriente… ricorderò sempre la lezione dopo la caduta del muro… e avrei voluto una tua lezione anche il giorno dopo l’11 settembre, ma che dico? Ogni giorno vorrei chiederti che pensi di tutto ciò che accade. Tra le righe del quotidiano, leggere anche un tuo commento. La gita a Baratti te la ricordi? Quando in pullman cantavi… sì, un po’ mi vergogno a dirtelo, ma ho la tua foto sul comodino di quel giorno. Ridevi. Quel tuo maglione verde. I jeans chiari. Non ho mai tenuto la foto di un ragazzo in camera mia, ma c’è la tua. Ti imbarazza?

E il mio primo tema te lo ricordi? Quanto ci rimasi male. Presi quasi sufficiente. Ma che vuol dire? O è sufficiente o non lo è. O uno annega o uno sta a galla. Tema di attualità sulla violenza negli stadi. E io descrissi cose che non avevo mai visto con toni romanzeschi, fin troppo caricati di fantasia. Tutto sbagliato. Non si affronta così un tema. Sì, lo capivo il messaggio. Da lì mi hai fatto innamorare dei temi. Ho fatto scienze politiche, sociologia, per trattare, studiare, fare ricerche su temi… e poi la scrittura. Sì, scrivo. Così, per allenarmi le mani e ripulire la testa. Lo sai? E chi te lo ha detto? Ah, vuoi dire che te lo immaginavi… Il racconto? Ah… Finestrella viola… sì che te lo avrei fatto leggere. E te lo dico ora a distanza di così tanto tempo, sì, perché ti ricordi quel biglietto che mi mandasti quando facevo le scuole superiori? Quello in cui mi dicevi che pensavi a me davanti a una pizza con altri colleghi… No, non l’ho buttato. Ma per chi mi prendi? Certo che l’ho apprezzato… Fammi parlare…

Io ti avevo risposto. Avevo anche imbustato la lettera.

Ma poi si è perso il tempo. Si è fermato.

Sai come succede? Si è posato un punto e io non potevo tornare indietro. Mi rimproveri. Lo so. Una risposta te l’aspettavi. Ma arrivò quella telefonata, e io mi chiusi in camera per due giorni… perché il dolore ha bisogno di spazi piccoli, alle volte.

E allora ti confido anche questa. Ricordi quando organizzavo la mia festa di compleanno? Tu lo sentisti mentre lo dicevo agli amici intimi e in mia vece invitasti tutta la classe. Quanto ti odiai. E adesso come faccio a dirlo alla mia mamma? Dove li mettiamo tutti? Ma ormai il danno era stato fatto. Mi avevi incastrato. Mi rimboccai le maniche e facemmo la festa nel garage della nonna. Sorridi, eh? Vecchia volpe. Ci volevi uniti, lo so. Quando facesti il regalo di compleanno a quella bambina che se ne stava sempre in disparte, che veniva presa in giro perché tutti sostenevano che suo padre portava sfiga, quando ci prendevi in giro per le nostre storie d’amore, quando ci chiamavi per soprannome, quando sottolineavi le nostre forze e le nostre debolezze, quando ci portavi in sala video a farci vedere film bellissimi.

Dovevi vederci, tutti insieme per la gita insolita. Una mattina di inverno. Ci eri riuscito di nuovo a farci ritrovare. Perché non potevamo non salutarti.

Sono passati più di dieci anni da quel giorno.

Caspita, sei sempre lo stesso, non sei invecchiato. Io sono cresciuta? Eh, sì. Ricordi alle medie ero piccola. La Fissi mi oltrepassava di tanto così e adesso guarda come sono alta! Ah, ti saluta anche lei, sennò se la prende a male.

Lancio le ultime briciole del panino ai piccioni. Dai viali rumorose macchine continuano a girare come in una pista telecomandata.

Guardo il portone chiuso di casa tua. Devo tornare al lavoro. Ma non avrei mai perso questa occasione per parlare con te. Visto che ne ho perse tante. Una e quindi tutte quelle che avevo.

No, un fiore non te lo porto. Ci sono venuta una volta dove riposi. C’è anche mio nonno Gino vicino a te. Semmai ritroviamoci qui, da queste parti. Ci prendiamo un caffè e facciamo due chiacchiere.

Un uomo anziano poco distante da me lancia un grumo di saliva sull’asfalto.

La vita, la storia di un uomo è uno sputo rispetto a quella dell’umanità.

Dicevi sempre.

Te ne vai di nuovo.

Che ti voglio bene neanche questo giro ce l’ho fatta a dirtelo.»

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Soletta, Stream of consciousness

Figlia di una vestaglia

Sto divorando il libro in cui Simona Baldanzi identifica la madre operaia con l’oggetto simbolo della sua vita quotidiana in fabbrica. Figlia di una vestaglia blu, si dichiara l’autrice, prima di raccontare con una sincerità disarmante la complessità dei destini più semplici.

 

«Io diciamo che il babbo ci credevo che era il mio. Ma sulla mamma nutrivo dei dubbi. Sempre per quella storia che fisicamente ci somigliamo tantissimo, ma caratterialmente zero. E poi talvolta era così distante, così perennemente incazzata col mondo intero che mi chiedevo se si ricordava di avere una figlia e un figlio.

Mi sedevo sul pratino di fronte casa mia quando era pieno di margherite. Avessi avuto il tuo velo da sposa, lo avrei attaccato ai miei capelli, ma quello lo hai già usato come zanzariera per la mia culla. E allora mi facevo delle corone strapiene di fiorellini e con il potere magico simboleggiato da ciò che mi circondava la fronte afferravo una margheritina strapiena di petali e la interrogavo. Mamma o non mamma?»

 

Adesso mi do un compito per casa. La mamma di Simona è una vestaglia blu. Ci sono persone anche nella mia vita che, grazie alla magia di una sinèddoche, possono essere raccontate come fossero un vestito? Il loro vestito?

Domani la risposta.  

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