Le storie di Scuolamagia

Tutteddue

Uno si vergogna più di un po’ quando, grande tra i piccoli, gli riesce il numero. Gli sembra di fermare l’attimo, si sente un esteta e un creatore. Si sente soprattutto gli occhi addosso. Poi però disimpegna, allarga il gioco, passa umilmente la palla. Ed ecco che la scena torna ad essere dei legittimi protagonisti, quelli di 11 anni dentro la loro partitella prima del doposcuola, prima dell’inverno. Attorno alla sfera nasce una piccola mischia, un tenero groviglio, e un cucciolo viene abbattuto da una manata fortuita. Il grande deve scendere in fretta dal piedistallo del suo compiacimento, il grande deve accorrere, il grande deve fare presto. Sì, perché il piccolo ha smesso di essere il mastino di centrocampo ed ora è un bambino fontana. Gli occhi spruzzano, il naso moccoleggia, le mani coprono il viso. Nasce il capannello, accorrono tutti, per ultimo il portiere, accertata la sospensione del gioco. C’è chi fa la faccia preoccupata: le ragazzine e l’innocente colpevole. C’è chi trattiene il riso, ma sembra non farcela. Il grande afferra le due manine sporche di pennarello e libera la luce di uno sguardo perduto, rivolto all’asfalto del campetto. Si accorge che il suo soccorso è diventato una specie di abbraccio, e che tutto quello che c’è attorno – chi ride, chi è serio, chi chiede “si ricomincia?” – non è altro che una specie di abbraccio. Diagnosticato un arrossamento cutaneo dell’orecchio, il grande cerca negli occhi degli accorsi qualche complice per la migliore delle terapie: una sana dose di cazzate miste. Boccacce, gesti, versi, finte scoregge. Ognuno dà fondo al meglio del suo repertorio. Il circo si chiude con la perentoria domanda di un coetaneo del ferito: «ma piangi o ridi?».

Piove bagnatissima la risposta del piccolo, così bella e così veltroniana: «Tutteddue!»

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Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

“…e la mia guancia sopra le tue vesti sarebbe dolce salvezza della vita”

L’uomo col blocchetto di appunti e la penna veloce qualche giorno fa mi ha chiesto della tesi di laurea. Quale argomento avrei preferito trattare, fosse dipeso da me? Boh, ho risposto. Andavo di fretta, avevo bisogno subito del titolo di studio e sono sceso a compromessi per quanto riguarda il titolo del mio lavoro. Quindi: boh, non c’ho davvero mai pensato.

Oggi sì. Il libro è già troppo consumato. Mi ha già seguito in troppe stanze, mi ha già atteso su troppi tavoli, comodini, pavimenti. Si è intrufolato nello zaino, ha tenuto compagnia ai quaderni dei ragazzi. Si è accomodato sui sedili della macchina. Un Elefante Garzanti, violato dal bollino rosso di uno sconto del 15% nelle librerie Feltrinelli. In copertina Il Sole di Giuseppe Pelizza da Volpedo.

Sì sì, è proprio amore, questo mio per Antonia Pozzi, poetessa disperata. Ventiseienne, suicida, dimenticata. Non so nemmeno scegliere una poesia da versare nella Pozzanghera.

Ma se dovessi cominciare oggi la mia tesi di laurea – l’incipit sarebbe lo stesso, ma stavolta sincero: “ci sono storie a cui si resta come impigliati” – parlerebbe di lei.

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Imago, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Ci prende un gran rimescolo, certe volte, e non sappiamo a chi andare a dirlo

Rileggo frettolosamente…

«Me, mi dispiace solo una cosa».

«E sarebbe?»

«Che noialtri, lo sa perché ci fregano? Ci fregano perché non abbiamo il rito. Noialtri siamo senza il rito. Si rende conto?»

Pensai che era pazzo.

«Noialtri ci vorrebbe qualcosa per dimostrare la nostra sensibilità. Altrimenti credono di averla solo loro, la sensibilità. I preti. E ci trattano da gente arida. Ma è colpa nostra. Avessimo il nostro rito, sarebbe più bello del loro».

 

È con lo spirito di questa pagina di Michele Serra che ogni anno salgo sul Cret di Navos, a picco sopra il paese di Scuolamagia, saluto le stagioni andate e accolgo l’inverno.

scuolamagia

Con me c’è sempre Maddalena, l’ex alunna che mi ha insegnato questa e altre strade.

Madda è nata in montagna, ma come me non c’ha “la passione” e non cerca l’aria buona. C’è solo questo rito che ci siamo inventati e che ci fa chiacchierare per un paio d’ore sul tetto del nostro piccolo mondo.

Madda

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Le storie di Scuolamagia

Voilà le Cinema (…la vera festa non è a Roma…)

A scuola ogni tanto le cose accadono poiché ampiamente meditate, programmate nel dettaglio, al termine di solerte pianificazione. A volte, invece, sono bagliori improvvisi e improvvisati, frutti del caso, attimi (fuggenti) colti al volo. Come domani. Sarà assente un collega e le sue 4 ore di fila diverranno una faglia nella consueta scansione della mattinata. Vestiti i panni del coordinatore di sede ho presto individuato l’unica soluzione praticabile nella sostituzione con l’unico insegnante disponibile: io. Va da sé che costruiremo un cinema. Tra i limiti del vivere abbarbicati sui monti c’è l’endemica distanza dalle sale e dai multisala cittadini. Certo, davanti a talune pellicole che passano sugli schermi, questa condizione appartata può far pensare di più ad un’utile quarantena, ma ho sempre creduto che i cuccioli – almeno fino al raggiungimento dell’indipendenza economica e motoria – si stessero perdendo qualcosa.

Qualcosa come il buio della sala, le parole dette sottovoce, gli occhi spediti lontano, i colpi di tosse. E appoggiare la giacca sulla poltrona davanti, se si può, oppure coprirsi a scanso di brividi. E leggere i titoli di coda alla ricerca di un attore, un doppiatore, il titolo di una canzone, l’autore di una musica. Cose così.

Chiarito che a Scuolamagia esiste già una stanza con 2 tv un videoregistratore e un lettore DVD, è altrettanto palese che non si tratta di un cinema. Dopo attento sopralluogo ho quindi individuato nella piccola sala insegnanti lo spazio più adatto.

Si tratterà di spostare tutto, il tavolo e le sedie. Toglieremo il vecchio quadro, liberando sulla parete l’orizzonte delle immagini. Disporremo il videoproiettore, le casse dello stereo alla ricerca di un buon suono, il lettore per un magico disco. Metteremo a fuoco, e il culo sulla sedia. Abbasseremo le tapparelle. Uno di noi azionerà i telecomandi e qualcun altro, solennemente, spegnerà la luce.

Alla fine, se rimarrà del tempo, chiederò loro di pensare ad un nome per questo cinema d’essai che mercoledì mattina tornerà ad essere una banalissima sala insegnanti.

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Tutte queste cose passare

Cancellati

Il mare è stato più veloce del governo Prodi. Non esistono cose più lente del governo Prodi. Nessuno recupererà mai i corpi di Anpalagan Ganeshu e delle 283 vittime del “Naufragio di Natale”. Semplicemente perché il mare non aspetta le mosse della politica e quando decide di mangiare, consumare, corrodere e dissolvere non esegue certo “studi di fattibilità”. Cinque centesimi a testa, forse ne bastava anche uno. Le tasse possono essere bellissime, è vero. E invece no. Quel fondale lavagna dov’era scritta una delle pagine più tragiche del nostro tempo si è cancellato da solo.

(fonte: Giovanni Maria Bellu sul “Venerdì”)

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

L’Eluana

Eluana avrà per sempre quei vent’anni sfortunati: ridenti e fuggiti. Sarà sempre e soltanto, per l’infinita schiera di chi ormai la conosce, quella di due o tre fotografie sui giornali o in tv, sempre le stesse, alle spalle del conduttore elegante e composto. Ma Eluana ormai ha qualche annetto più di me, condizione tuttavia inverificabile attraverso scatti e pose, inquadrature e sorrisi patinati. E già di questo si potrebbe a lungo parlare. Se fosse davvero possibile guardarla – guardarlo oggi, quel corpo – penseremmo tutti quello che stiamo pensando a proposito del mediaticissimo “caso Englaro”? Ovviamente no, penseremmo tutti la stessa cosa e qui va eretta una statua a quel padre maestoso, che sua figlia la chiama con l’articolo davanti, da prima che a mettercelo arrivasse l’opinione pubblica. Basterebbe una fotografia datata 2007, un’unica immagine, l’asso nella manica, e la battaglia cocciuta del signor Beppino guadagnerebbe una marea di consensi. Ce la meriteremmo, quella foto, noi che non riusciamo a guardare oltre quel sorriso di ventenne. Noi che non capiamo un cazzo, figurarsi il dolore. A lui però questa cosa non è mai passata per la mente, secondo me. Di proteggere non ci si stanca mai.

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Senza categoria

A Gigi Meroni, estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni

Ho giocato a pallone per mille pomeriggi coi calzoncini macchiati d’erba e non sapevo chi fosse Gigi Meroni. Che era già morto da vent’anni e adesso è già morto da 40.

Io Gigi Meroni l’ho scoperto grazie a Cesare Fiumi, il giornalista del “Corriere” che ha segnato la mia scrittura per un quinquennio, diciamo tra i 22 e i 27. Ho letteralmente adattato la tesi di laurea al ritmo di certi suoi periodi, di certi suoi giochi di parole. Ne ricordo uno, a proposito di un antico portiere quando era giovane e acerbo: “troppo lungo per fare il portiere, ma già troppo portiere per non esserlo a lungo”. Oppure, mi viene in mente l’incipit di un altro pezzo dolcissimo e folgorante: “ci sono storie a cui si resta come impigliati…”. Indovinate come inizia la mia tesi su Giuseppe Baretti, critico letterario e viaggiatore? Che vergogna…

Ma torniamo a Gigi Meroni. Devo parlarne all’alunno talentuoso, pazzo dribblomane. C’è sempre stato un alunno così, dentro ogni classe e ogni anno scolastico. Uno che guarda diffidente le fotocopie con la storia del numero 7 granata, ma poi dopo qualche giorno mi fa capire che c’è entrato, dentro quella favola. E magari mentre corre sul campetto e pensa al guizzo e alla veronica dice dentro di sé una telecronaca d’annata: Meroni, Meroni, Meroni. E il bello è che poi se è goal o non è goal non ha nessuna importanza. Il gioco è sempre fine a sé stesso, nei panni di Meroni.

 

«Gigi Meroni piace pensarlo gran provocatore per sempre, senza cambiare il bisogno di cambiare. Piace pensarlo in quella foto quotidiana, saltata fuori da un mazzo di istantanee, come una carta buona del suo poker, buona per andare a vedere quanto fosse coerente, normale, naturale, la vita di un eccentrico calciatore alla fine degli anni sessanta, quanto fosse una vita di quegli anni. Una vita qualsiasi e una morte qualsiasi, come una parabola che si spegne sullo sfondo di un paese in fermento».

 

C. Fiumi, Storie esemplari di piccoli eroi

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Cineserie

Aghi

«Luo Cuifen è una giovane donna di ventinove anni nata a Kunming, nel sud della Cina. Un giorno, stanca di dirsi passerà, domani vedrai che passa, è andata dal medico: c’era sempre sangue nella pipì del mattino, e, a parte il dolore, la sottile preoccupazione crescente non aiuta ad affrontare i giorni svegliandosi e per prima cosa vedere il tuo sangue: sangue sempre, sangue ogni giorno. Il medico le ha detto: sarà una disfunzione renale, faccia una radiografia. Ecco, la radiografia del torace di Luo Cuifen è una di quelle foto che dice qualcosa di assoluto sul tempo in cui viviamo. L’hanno pubblicata molti giornali. Merita di essere ritagliata e di stare attaccata coi magneti al frigorifero. Nel torace di Luo ci sino 23 aghi: alcuni sono lunghi anche due centimetri e mezzo. Nella radiografia sono cosparsi sullo scheletro come bacchette di Shanghai, il gioco dei bimbi.

Sembra un fotomontaggio e invece no. Aghi nei polmoni, nei reni, uno rotto in tre parti proprio sotto il cervello, aghi dappertutto. Luo non era mai stata operata in vita sua, non poteva trattarsi certo di un errore di un chirurgo, né d’altra parte neppure il più distratto dei medici può scordare decine di aghi lungo un metro di corpo. E dunque? Dunque sono stati ventitré tentativi di ucciderla. Luo era stata affidata ai nonni, appena nata. La madre lavorava, i nonni non volevano bambine in casa: le femmine sono solo un costo nella Cina rurale, le devi crescere e mantenere per vent’anni, poi passano alla famiglia del marito, non portano indietro niente. Così hanno pensato di ucciderla con gli aghi. Forse non avevano cuore di soffocarla né di abbandonarla in un campo, forse pensavano che un killer invisibile li avrebbe sollevati almeno dal peso di essere presenti al momento della morte: sarebbe morta nel sonno, poi l’avrebbero sepolta. Ma Luo era una bambina robusta e il suo corpo con gli aghi ha trovato un accordo: ha resistitito. Certo, da adolescente, e poi da ragazza, non ha avuto vita facile. Soffriva di ansia e di depressione, di insonnia, hanno raccontato poi i medici che da tutto il mondo sono accorsi a operarla. Tanti, però, tante giovani donne soffrono di ansia e insonnia, non è necessario che gli aghi si vedano nelle radiografie, ci sono aghi invisibili che bucano il respiro, e quel che bisogna fare è resistere.

A operare Luo sono arrivati ventitré medici diversi, uno per ago. Il neurologo dagli Stati Uniti, il cardiologo dal Canada. I nonni sono morti, non possono più dire com’è andata, ammesso che avessero avuto da vivi cuore e coraggio per farlo. Magari si sono rallegrati, nel tempo, dell’incredibile tempra di Luo. Magari la nonna, è bello immaginarlo, l’ha festeggiata a ogni compleanno, ringraziando il cielo per non averla ascoltata. Magari no, invece. La ragazza dice che non ha ricordi dei momenti in cui le infilavano gli aghi. Dice che solo una volta ha origliato una conversazione che le era risultata incomprensibile, si diceva sottovoce di qualcosa avvenuto quando aveva tre giorni di vita. Dev’essere successo, quindi, in un solo giorno, in un momento, in culla, come fosse una bambola di quelle che si bucano nei riti del malocchio. Mio padre ha trovato la foto del torace di Luo e l’articolo che ne parla in un giornale straniero, durante un viaggio, lo ha tenuto stropicciato nel portafogli e lo ha tirato fuori ripiegato in quattro. Tieni, mi ha detto, guarda fin dove si può vincere.

Vincere il destino, vincere l’ignoranza e la violenza, vincere un corpo nemico, vincere gli aghi che bucano anche quando non sai cos’è che ti fa sanguinare. Combattere, spingere la sorte più in là. Finché si può, credo che intendesse dire con quel foglio conservato come un amuleto, finché si può resistere, si deve».

 

CDG, “La Repubblica delle donne”

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Soletta

Per una voce lontana

Tor dintor

bielplanc

il dêt lisêr

como sul ôr

di un caliç

cerint il son

da tô vôs

di cristal

 

Leonardo Zanier, Cristals

 

Cristalli. torno attorno / lentamente / il dito leggero / come sull’orlo / di un calice / cercando il suono / della tua voce / di cristallo

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

I minuti

Il fatto è che io domani, in quell’ultima striminzitissima ora dalle 12.10 alle 13.00, devo consegnare il compito in classe corretto, devo spiegare i compiti per casa per lunedì, devo controllare se le carte geografiche sul quaderno sono fatte bene per poi far tracciare col pennarello le rotte delle 30.000 paperelle Made in China salpate nel 1992 dal porto di Honk Kong…

…e dove li trovo i minuti per mostrare tutto questo, e dire “idioti”, e lasciar dire “stronzi” (guai se non succede!)?

Però li trovo, ah se li trovo.

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Imago, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Scripta, mah

Scrivono, scrivono. Seri e compìti, ché il tema in classe è un compito serio. Sono io che non ci credo più. Non credo più che sia quella la strada giusta. Per imparare a scrivere, per amare la scrittura. Certo, lo sforzo per limare le asperità e le solennità del rito lo faccio sempre. E quando mai nel foglietto con i titoli da svolgere in classe troveranno una “traccia riflessiva con sfera di cristallo”, oppure una “traccia maledetta” da affrontare con gli stilemi dell’horror?

Però non è così che si dovrebbe fare, non è quello il modo.

Nel suo tema, intanto, Niky ha ricevuto il pallone d’oro dopo una semirovesciata vincente nella finale dei Mondiali 2010. Nicola è finito in un luogo spaventoso, e a dire il vero anche “fuori tema”; ma quel luogo è una libreria e allora passi. Agata ha ricevuto un bacio da quello che nomina sempre, ben inteso: sulla guancia. Nel foglio a righe di Yuri come ogni volta io sono morto: Scuolamagia è esplosa.

Pensa pensa pensa non ho neanche fatto il consueto disegno. Pazienza, ne metto uno vecchio. Del 2004.  

Tema 2004

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Res cogitans, Tutte queste cose passare

077.495.7981034

È davvero celeste, questa corrispondenza d’amorosi sensi. Per lei si vive davvero con l’amico estinto e l’estinto con noi. Anna Politovskaja, uccisa giusto un anno fa, ha lasciato eredità d’affetti. Così i suoi colleghi giornalisti, per un giorno, hanno riacceso il suo telefonino. E i messaggi non si sono fatti attendere. Il cellulare come un sepolcro postmoderno, lo stesso apparecchio su cui la coraggiosa donna era solita ricevere richieste d’aiuto e minacce di morte.

Qualche minuto fa ho fatto uno squillo a Anna. Certo, camminare nei viali di un cimitero moscovita è un’altra cosa, ma quando sulla tastiera è comparso “utente occupato, riprovare più tardi?” ho sentito un piccolo brivido di verità.

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Fiori di Biblioteca, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Fiori di biblioteca (3)

Per chi ancora non lo sapesse, gestisco una biblioteca di montagna e lo dico con fierezza da parvenu. È la mia casa al mare, la mia villa con piscina, il mio SUV. Me ne vanterei al bar, se solo andassi al bar. Ma gestire Bibliotecamagia per me è come gestire un bar di successo. Nella pozzanghera ho già parlato dei miei venerdì pomeriggio in questo luogo speciale, ne era nata una sorta di rubrichina (tipo qui, tipo qui) che riprende oggi e poi si vedrà.

 

Ale entra ed esce quasi subito. Il tempo per dirmi che va un po’ meglio. Che non ha versato altre lacrime e gli occhi non le fanno più male. Il problema è grosso ed è ancora lì, ma lunedì si ricomincia a lottare. Chiede poi se mi rendo conto che le mie scarpe nuove le producono bambini asiatici sfruttati e sottopagati.

 

Niky arriva per primo con la chitarra. Io mi sto già accordando. Suoniamo un pezzo latineggiante composto dal sottoscritto e ci trasferiamo su YouTube dove il nostro grande maestro ci fa sospirare. Tra un diobon (lui) e un madonna (io) decidiamo cristianamente che per venerdì prossimo lavoreremo su 2 pezzi classici.

 

Corrado dice di essere stato punito con una nota per aver detto in classe, alle superiori, “Boia chi molla”. Meritatissima. Però mi parla anche di una ricerca su Che Guevara da consegnare a breve e allora mi perdo e non capisco. Così gli parlo dei Fatti di Reggio e degli anni ’70, ma mollo subito anche se non son boia.

 

Grè arriva alla fine. Appoggia la bicicletta, mi si siede di fronte e sorride limpida. Mi dicono sia passata spesso in biblioteca d’estate, chiedeva di me e poi spariva. Io la pensavo durante i miei mal di testa che sono come i suoi, e accadono ancora, porcavacca, ma lei sembra davvero più forte e lucida, combattiva. La scuola per operatrice dei servizi sociali intanto va avanti: c’è già stato un tirocinio coi poppanti, presto verrà quello coi vecchietti e per ultimo ci sarà quello coi disabili. Sempre più difficile, sembra volermi dire colla faccia seria. Chiede poi se mi rendo conto che le mie scarpe nuove sono davvero bellissime.

 

Barbara la biblioteca l’ha inventata. Di mestiere fa la mamma, ma ormai da una vita per me è una collega. Professoressa honoris causa. Io e lei abbiamo le chiavi, quando io non posso può lei e viceversa. Quando ci siamo entrambi lei si sobbarca tutto il lavoro sporco (catalogazione, prestito, sistemazione dei libri) per permettere a me di strimpellare con Niky, chiacchierare con Ale, con Corrado, con Grè. Troppa grazia, grazie.

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