Cineserie, Res cogitans, Stream of consciousness

Libera nos a Pechino

Cammino sotto una pioggia sottilissima in questa domenica olimpica. Poche gocce inaspettate e salutari, mentre le persone affrettano o non affrettano il passo. Sì, perché Pechino è 8 milioni di persone che corrono (e chissà dove corrono) e altri 8 milioni di persone che vivono in una sorta di tempo sospeso, un tempo che non passa, e non fanno niente, basta la presenza, basta quella sorta di attesa perenne. Io mi sincronizzo su un ritmo intermedio, né lento né veloce. Cammino, nello zaino la spesa, nelle mani 10 rotoli di carta igienica. 10 piani di morbidezza. Nella città in cui dieci piani sono la misura di una casa di bambola, guardo l’ascesa di un  grigio palazzone. Non una di quelle enormi cattedrali di acciaio, cemento e luci al neon, non uno di quei colossi nati per contenere uffici con le poltrone di pelle, il mobiletto con i liquori, il tavolo per i cda, il grafico con l’andamento degli affari. Parlo di un condominio formicaio, squadrato e ricoperto di semplici mattonelle sporche di smog.  Rischio la pioggia negli occhi – peggio: sugli occhiali. Ma penso a questa gente e penso che a questa gente forse manca una lettura di se stessa, lo sguardo di qualcuno che sappia interpretare i tempi e gli eventi. Mi viene in mente Luigi Meneghello e il suo insetto scalatore di monumenti ai caduti. Immagino allora uno di quelli scarafaggi infestano le case del quartiere in  cui sto vivendo, bestiacce con la scorza dura, dure a morire. Ne immagino uno mentre affronta la parete del palazzo, si arrampica sull’insegna del barbiere, affronta le onde della maglia degli Houston Rockets e sale al secondo piano. Poi su al terzo. Schiva le gocce d’acqua dei condizionatori posizionati selvaggiamente nel tempo, man mano che le famiglie se li sono potuti permettere, s’inerpica sul groviglio dei fili elettrici, aggira il catino celeste, percorre il manico di scopa. Diffida della palla di pezza oltre il vetro sporco, segue la via di nuovi panni a stendere. Scala finestre da cui probabilmente nessuno guarda mai, ché davanti oltre al mare di macchine c’è poco o nulla da guardare, sente gli odori di tutte le cucine del palazzo, fritti, tanti fritti, peperoni e zucchine e se ne inebria: a uno scarafaggio devono piacere certe fragranze.

Ancora mattoni, ancora finestre, la maglietta di un volontario delle Olimpiadi a stendere, la tuta di un operaio, qualche pianta, poche in verità. Una bicicletta in terrazzo, e sarà il ventiduesimo piano. E ancora vite, oltre quella facciata infinita. Vite che gli potranno sembrare ripetitive ma sono soprattutto spaesate, disorientate. Vite di vecchi che si sono scottati nella pentola a pressione del Novecento (…il grande assente nelle rievocazioni storiche della cerimonia d’apertura). E gli manca, si vede benissimo, qualcuno che raccolga i fili e li sbrogli, un Meneghello con gli occhi a mandorla, qualcuno che tenti di raddrizzare il volo obliquo di un’identità, come fanno certi signori sdentati nei parchi con i loro aquiloni.

Piove una pioggia sottile, sui miei occhiali e sugli scarafaggi scalatori di palazzi. Piove sulla prova su strada di ciclismo femminile, se mi affretto riesco a vedere gli ultimi chilometri in tv.

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