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La volta che son stato felice

Per un paio di giorni ospite del paesino della mia infanzia, squadro con gli occhi lo spazio che separa una vecchia casa da una vecchia casa, non lontano dalla chiesa e dalla piazza centrodelmondo. Uno squarcio aperto tra una vecchia costruzione di antica pietra e quello che quando avevo 10 anni ricordo essere stato un panificio. Oggi non so, oggi non c’è un’insegna e non è nemmeno l’ora giusta, bisognerebbe ripassare di qui domani mattina alle otto. Uno squarcio tra due case è anche uno squarcio nella mia memoria, una maddalena che si blocca nell’esofago e non va né su né giù, almeno finché non hai ricostruito tutto. Tassello per tassello.

Allora: ho dieci anni, sono un ragazzino che a scuola è piuttosto secchione e la domenica fa il chierichetto. In testa, però, ha soltanto il pallone e la squadra di calcio dove ha da poco fatto il suo esordio sulla fascia destra, col numero 7. Sognare sognavo il 10, ma con realismo avrei preferito il giusto compromesso dell’8, ruolo comunque un po’ più centrale, un po’ più nel cuore del gioco.

Ho dieci anni ed è una sera di quasi inverno, forse ai bordi della strada c’è pure una prima timida sporcata di neve novembrina. Sono le 6 del pomeriggio e siamo ai limiti del coprifuoco imposto dalle rispettive famiglie. La partitella alla luce dei lampioni è però ancora in corso, saremmo sei o sette ragazzini, alcuni molto meno secchioni e molto meno chierichetti. Lo squarcio tra le case è ora una porta. Ad un tratto le azioni si interrompono, come di prassi al passaggio delle automobili, come d’eccezione al passaggio di qualcuno di temuto o di importante. Si tratta di qualcuno importante.

Per anni, proprio a fine agosto, il piccolo paesino di montagna dove ho vissuto fino alla fine della scuola media ha celebrato con un torneo quadrangolare la figura di un prodigioso esponente della sua titolatissima compagine calcistica, un talentuoso e carismatico numero 10 tragicamente scomparso in un incidente stradale sulla soglia dei trent’anni.

Qualcuno di importante: lui. Il mio idolo in carne ed ossa, un Platini concreto da ammirare la domenica e tentare di imitare il lunedì il martedì il mercoledì il giovedì il venerdì e il sabato. A causa di un lavoro lontano dal paese capitava raramente di incontrarlo per strada; compariva direttamente dagli spogliatoi del campo sportivo, con la maglia bianca (a volte blu), il numero 10 e la fascia da capitano. Poi cominciava a ballare, a correre sulle punte, leggero, il suo calcio era l’opposto di quello – maschio e ruvido, bestemmie e palle spazzate via – solitamente praticato nei campionati di provincia. Non ricordo nemmeno un suo gol, magari non era nemmeno un marcatore così prolifico. La danza sì, quella è come se la vedessi ora.

Immaginatevi 6 o 7 ragazzini immobili in una piazzetta di sera, un giovane uomo che attraversa lentamente la loro partita con le mani immerse nelle tasche di un cappotto nero. Alla ripresa del gioco mi impossesso della palla e miro nello spazio tra le due case dove uno di noi si industria a parare. Un difensore fa il furbo e respinge col gomito, la mia voce è perentoria: “rigore!”. Nessuno protesta, il mio urlo è una sentenza già passata in giudicato. Il problema è che ha richiamato l’attenzione del mio idolo, non ancora scomparso all’orizzonte della strada. È lontano, ma è anche terribilmente fermo. Ora è anche tremendamente girato in direzione di quei ragazzi in cui forse si è rivisto, si è specchiato. Vorrei dire non importa, fa niente, andiamo avanti, ma l’illecito è stato troppo evidente ed è lo stesso trasgressore a sistemare la sfera sulla mattonella di porfido adibita a dischetto. Lo squarcio mi sembra una feritoia, le due case mi sembrano avvicinarsi e congiungersi in un unico lungo palazzo. La luce del lampione proietta l’ombra del portiere fino a coprire il pallone e sfiorare i miei piedi, il mio idolo non ha fretta e continua a guardare.

Poi ho segnato – rigore a mezz’altezza, come non si dovrebbe, ma in porta, si sa, spesso ci va il più piccolo e inesperto… – poi forse ho alzato le braccia. L’uomo che danzava sui prati è ripartito dopo un piccolo applauso, giusto due battute, clap clap, un segno. Un anno, due anni dopo sarebbe morto, caro agli dei e carissimo a me, per sempre in debito dopo quella sera d’estasi.

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