Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

L’esigenza insopprimibile di un Leggicottero

Ho sempre sognato nella mia scuola un luogo dove la cultura potesse essere naturalmente raggiunta dall’innata curiosità dei ragazzi, bypassando l’intermediazione dell’insegnante (sempre a rischio “imposizione dall’alto”, spesso tacciabile di paternalismo). Ho sempre sognato un luogo dove innamorarsi a prima vista di una copertina, dove invaghirsi di un film senza un amico che te lo consigli a suon di gomitate d’intesa. Ho sempre sognato un luogo dove concretizzare l’utopia di un book-crossing fatto in casa, dove chiunque possa diventare il disinteressato suggeritore di un’emozione. Questa mia fissazione si è concretizzata per la prima volta nel 2004, dopo aver sentito uno scrittore affermare la necessità di “irretire i giovani lettori”. Bertoldianamente ho pensato: per irretirli ci vuole una rete. Meglio: una ragnatela. Ecco quindi l’angolo di una classe 3ª fare spazio ad un intrico di spaghi intrecciati con metodo, dove appoggiare romanzi, racconti, poesie, articoli di giornale, fotografie, CD, DVD, Videogiochi e qualsiasi cosa i ragazzi e i prof. sentissero di dover condividere. Era emozionante camminare sotto la tela, prima della prima ora, sollevare gli occhi per vedere se l’offerta culturale si fosse attraverso piccole mani anonime arricchita.

L’anno successivo un gruppo di studenti a netta maggioranza maschile ha con gli stessi fini ideato il BIBLIOTECAMION, grosso autoarticolato di cartone. Un vero bisonte della cultura. Esteticamente meraviglioso, curato nei dettagli; purtroppo il fondo del rimorchio più che esporre occultava le preziose merci trasportate. Un difetto niente male.

Altro anno, altra classe, altra idea: la cultura da cogliere nella bocca di un DRAGO cinese. Correva l’anno 2007.

Autunno 2008, sta lentamente nascendo il LEGGICOTTERO. Sorvolerà, appeso ad un filo robusto, l’atrio della ricreazione, della merenda e del nostro famoso divano. I più piccoli lo potranno raggiungere soltanto salendo su una sedia. Le aule sono un cantiere: le foto stampate da internet, le scatole di cartone, le colle, i nastri adesivi, forbici e matite. Le iniziali perplessità paiono sciolte, tutti parteciperanno alla costruzione, fosse soltanto per una pennellata di rosso. Peccato per l’idea alternativa di Marghe: la MONGOLFIERA DEL LIBRO. Volete mettere il fascino del pallone aerostatico? Ma come si costruisce un pallone aerostatico? Gran spremuta di meningi, ma alla fine l’esame di fattibilità è stato superato dal LEGGICOTTERO, che a una bimba di prima ricorda il fenicottero.

Anche se i lavori ci occuperanno ancora per alcuni giorni, è già il caso di pensare a quali “passeggeri” far decollare.

Le tenere favole di Maurizio Crosetti sui sogni di Friz, il peluche di sua figlia?

Le poesie sui gatti di Vivian Lamarque?

Il racconto di Veronesi sul culo che cade per terra?

E voi? Qualche idea?

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Il tempo di una vita

La voce di Lesley McIntyre ti fa propendere per la superiorità antropologica degli anglosassoni. Ha movimenti quieti, è un’onda dolce, è cuore e ragione perfettamente mescolati. La ascolti parlare e stringi tra le mani la magna charta, vedi la gloriosa rivoluzione da un civilissimo spalto, fai un bagno nell’habeas corpus. Eppure è soltanto una madre innamorata della figlia, eppure sta raccontando soltanto le passeggiate in un parco o i tuffi in mare lungo le coste del Galles. Parla ai pochi abitanti accorsi ad ascoltarla in una piccola città del Friuli, grazie ad una donna assessore che non sa trattenere le lacrime e probabilmente è consapevole di aver organizzato una serata così impopolare da giocarsi la ricandidatura. Parla delle sue fotografie in bianco e nero, Lesley, e del pudore nello scattarle. Dice con onestà di trovarle tutte belle, ma non per un vizio di superbia: ehi, il soggetto è la sua bimba! Può sembrarti brutta una foto della Tua bimba?

Le immagini. Parlano anche loro. Parlano la stessa lingua di questa madre fotografa. Se possibile parlano ancora di più. Come la volta in cui Molly è rimasta per pochi secondi sola, giusto il tempo di recuperare il phon a pochi metri e asciugarle i capelli dopo il bagnetto. Un piccolo momento di solitudine, difficile per chi deve sempre avere attorno (e addosso) mani che curano e sostengono, ma anche un momento di dignità, di autonomia, di sperduta padronanza di se stessa. E di bellezza da immortalare.

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Le storie di Scuolamagia

Allegria di naufragi

Insegnare è un continuo aggiustare la rotta. Entri in classe con una fotocopia dove credi ci sia scritto il senso del mondo dello spazio del tempo della vita e della morte e te ne esci frustrato dopo aver raccolto una cesta di sbadigli. È colpa tua? Non hai veicolato bene? Oppure in quelle righe non c’erano né il senso del mondo né di tutto il resto? Ovviamente è quasi sempre colpa tua.

Poi un giorno ti inventi un esercizio da proporre nell’ora di geografia, nemmeno troppo ambizioso. Diciamolo che sei costretto ad accorpare le due classi e non hai trovato niente di meglio da fargli fare! Si tratta di lavorare con l’atlante, a piccole squadre, e completare con le parole mancanti (città, fiumi, isole, golfi…) una storia inventata da te, un improbabile viaggio in barca a remi tra il Mar Tirreno e l’Atlantico, e poi oltre lo Stretto di Panama fino all’Isola di Rapa sfiorata dal Tropico del Capricorno (e dentro di te hai pure sperato che l’Isola di Rapa li faccia un po’ ridere e che ti perdonino l’attività didattica semiimprovvisata). Loro lavorano, si instaura tra i gruppi una sana competitività e fin lì era quello che ti aspettavi. Però c’è dell’altro. Vogliono sapere se è una storia vera, se è possibile, per quali ragioni eventualmente possa risultare impossibile (squali e venti, onde e umano impazzire di solitudine). Insomma, i cuccioli si accendono e se anche non siamo davanti al senso del mondo dello spazio del tempo della vita e della morte, loro hanno gli occhi di chi proprio quello va cercando. Così ho pensato ad Alex Bellini nel Pacifico e ai suoi collegamenti per Caterpillar, il venerdì sera mentre guido verso casa. Inconsciamente c’era lui, nel mio architettare l’esercizio di geografia? Può darsi, fatto sta che ci spostiamo nell’aula dei computer e ci diamo dentro: un po’ di YouTube, un po’ di Corriere.it, un po’ di sito ufficiale e una spruzzata audio di Cirri & Solibello. Le ragazze sono intimorite dalla barba da venerando del coraggioso navigatore, la voce le tranquillizza un po’. I maschietti cercano dati tecnici sulla barca e parlano di quanti giga di musica occorrano per dieci mesi di oceano.

Poi abbiamo scritto ad Alex alcuni messaggi, con domande e incoraggiamenti. Oggi, puntuale, la sua risposta. Peccato che due dei tre alunni citati abbiano preferito firmarsi con il nome falso (Alberico e Romeo) scelto in occasione di un’altra mattinata tra i banchi, il primo giorno di scuola, quando Francy ha scelto per gioco di chiamarsi Roby, quando Camilla era Giada, Margherita era Alessia, Ilaria era Gioia, Giorgio era Daniele e io ero Bernardo.

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Ciminiere

Le stesse cose che ho pensato quest’estate mentre attraversavo l’immenso quartiere pechinese dedicato all’arte contemporanea (la celeberrima 798), quando non riuscivo a concentrarmi su quella macedonia di bizzarrie e estri creativi. Quando passavo oltre la grande gabbia per uccellini con dentro una bambina viva (un’opera d’arte) per raggiungere e sfiorare l’immenso reticolo di tubi arrugginiti (l’antica realtà di quel luogo, sorgendo lo spazio espositivo sulle rovine di un grande complesso industriale). Quando giravo attorno al maiale decorato con migliaia di fototessere (un’opera d’arte) per avvicinarmi al vecchio binario dismesso, ormai quasi cancellato dall’invadenza dell’erba. Quando snobbavo pesanti teste di gesso, fotografie di mutilazioni, vetture da Formula 1 incidentate (tutte opere d’arte) per rivolgere gli occhi alla maestosità delle ciminiere. Mute di fumo, e da anni, tuttavia molto più eloquenti di tutta quell’arte imbrigliata, incellophanata alla periferia di un regime. Capaci di raccontare la storia di quella città stravolta dal moderno, piccoli indizi sulla scena di un urbicidio.

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Le stesse cose che ho pensato quest’estate le ha scritte Antonella Bukovaz in una lettera alla stampa. Accade che stiano dismettendo un’area industriale nella città in cui vive, per fare posto ad una banca e all’ennesimo complesso commerciale. Il tutto con in sottofondo una fastidiosissima enfasi modernista culminata nel più classico tonfo di ciminiera abbattuta.

A proposito del quale scrive Antonella:

 

“È stato un piccolo moto causato da uno spostamento tra ciò che è giusto e ciò che lo è meno, tra ciò che è bellezza e ciò che non lo è, tra ciò che va bene e ciò che va male e ciò che andrà peggio.

È stato l’ultimo appigliarsi a un’immagine, quella della ciminiera, che ha fatto e farà parte del nostro personale paesaggio e che abbattendosi al suolo, grigia come un faggio secolare, ci ha fatti risuonare come cosette da nulla”.

 

Ricordo le parole di Marco Paolini, a teatro. “Mettere il piede su un ponte che ha visto ottomila stagioni e sentire che ancora resiste non è poco. Il ponte è mio, ma sento mie anche le città della chimica e siderurgia bruciate in questo secolo: Gela e Marghera, Ferrara e Gioia Tauro, Taranto. […] Mi ripeto: a me le valli troppo verdi, quelle della pubblicità, mettono un’incontenibile voglia di fargli subito dentro la cacca e la pipì per contaminarle almeno un po’… mi dà tristezza pensare che la maggior parte dei non luoghi che usiamo, attraversiamo, sfruttiamo debbano essere considerati persi. È a quelli che devo dare un nome, perché è quella la zavorra che mi tira sotto, perché la maggior parte del mio tempo lo passo lì. Cavalcavia, viadotti, sono emozioni a buon mercato se uno sa andare a piedi, ma se ci passo sopra come faccio a buttarli via, come faccio a fare finta che non siano nel paesaggio?”

 

Ancora Antonella, ancora più a fondo:

“Questo nostro tempo ha invece l’arroganza di decidere la scomparsa della memoria in nome di un futuro improbabile. Ha l’urgenza di semplificare radendo al suolo. Ha la cecità di produrre un futuro che è previsto uguale per tutti e per questo porta un altro nome: omologazione! E qui anche vorrei essere chiara. Nel tentativo che faccio quotidianamente di allevare con bellezza le mie figlie cerco di impastare la loro origine slovena con quanto più mondo mi riesce. Cresceranno intorno alla propria radice, a una memoria collettiva che fatichiamo a preservare, ma è base per un  futuro consapevole e le aiuterà a non cadere nella trappola di considerare quelle che vediamo come le uniche scelte possibili”.

 

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Sono importanti le ciminiere, andrebbero abbracciate come si abbracciano certi alberi. Quelle di Pechino una volta erano il tetto della città, probabilmente aiutavano gli uomini ad orientarsi, a ritrovare la strada. Oggi sono annichilite dai grattacieli, e vengono confinate nei quartieri dell’arte contemporanea. Presto qualcuno le scambierà per immense sculture.

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In Vespa

È morto Giorgio Bettinelli. Quello dei viaggi in vespa, su e giù per il mondo. Quello con un padre che da piccolo non gli diceva di stare attento agli sconosciuti, ma che gli diceva attento, guai se non gli vai incontro, agli sconosciuti. Quello che scriveva libri di viaggio, ed il suo ultimo – La Cina in vespa – ha fatto parte quest’estate del mio training di avvicinamento al Celeste Impero. Con il difetto di non essermi piaciuto affatto, tanto da spingermi quasi ad inaugurare sul blog un nuovo genere di post: le recensioni negative, le “solette” al contrario. Confuso, contraddittorio, talora persino un po’ volgare. Poi ho desistito, che diritto avevo io, di giudicare il racconto della sua matta vita? Curioso che nel pubblicare una sua bella foto, qualche anno fa, avessi confuso il suo nome con quello di un omonimo letterato del Settecento studiato all’università, guarda caso un Viaggiatore.

La ripubblico e addio per sempre. Mi sa che era uno di quelli che se si trattava di immaginare il proprio funerale pensava prima di tutto a una musica ballabile, un rinfresco ed il vino giusto per un mucchio di gente che si diverte.

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Piatto tipico di Potenza

Cinque nuovi cuccioli smarriti davanti alla porta di Scuolamagia, il primo giorno.

C’era A. che quest’estate al mare ha acquistato da un ambulante 7 braccialetti per le 7 ragazze della scuola. Ne ha ricavato una specie di rito solenne, prima della prima campanella, distribuendo le colorate strisce a sonagli e legandole ai polsi sottili delle amiche.

C’era G., l’unico maschietto, emozionatissimo, pure troppo, elettrico. Durante la ricreazione si è lamentato per non aver ricevuto dal sottoscritto nemmeno un assist. Mica l’avevo capito, che fosse in squadra con me (domani tripletta, promesso!).

C’era D., la più impaurita, la sola accompagnata dalla mamma, prima di ogni risposta, a qualsiasi domanda, ha sussurrato a se stessa un “Aiuto!”. Ti piace il tiramisù? “Aiuto!, sì!”.

C’era I., l’unica che conoscevo già e bene, da tempo. Con lei si passa subito alla psicanalisi: mentre gli altri mi raccontano del mare e del torneo di calcio agostano lei mi dice di essersi chiusa in camera, in un giorno di furibondi litigi familiari, a ricopiare un disegno che le ho regalato l’anno scorso (un simpatico mostro con 7-8 occhi, …).

E c’era C., anche lei piena di cose da dire, tante, tantissime, difficile ricordarle tutte. Una è indimenticabile, però. “So fare la pasta all’arrabbiata, la pasta saltata, la pasta basilicata… sì, insomma, col basilico…”.

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Un gran dolce mestiere

Domani si ricomincia.

 

[…] «Di me che dirti? Che ho ripreso la scuola, la stessa dell’anno scorso, con gli stessi bambini asini e cari, promossa anch’io con loro alla seconda. E certi momenti, quando stan buoni a scrivere sotto dettatura con le testoline chine sul  banco, mi viene una gran gioia e una gran tenerezza e penso che far scuola ai piccoli è un gran dolce mestiere. Poi, magari, di lì a un quarto d’ora, li vorrei tutti strozzare tanto son stufa di sgolarmi per tenerli quieti. Alti e bassi: che però servono a riempire le giornate e – per ora – la vita: questa vita che per tutti è fatta di attese…»

 

…da una lettera di Antonia Pozzi, ottobre 1938

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Fields of gold

Non credo nell’assoluta eloquenza dei numeri. Nell’ora di geografia preferisco raccontare la storia di una contadina di Bamako intrecciandola a quella di un manager di Kuala Lumpur piuttosto che sciorinare i PIL dei rispettivi paesi. E dire che i ragazzi apprezzerebbero pure, e a volte, non so perché, sanno scandalizzarsi per la scarsa frequenza di internet host (3,8 ogni 1000 ab.) in Malesia. Però, giuro che utilizzerò in classe i numeri del medagliere paralimpico, con la Gran Bretagna capace a oggi di 33 ori, 2 meno della Cina, 10 più degli Usa, 31 più dell’Italia. Cifre che parlano, cifre che urlano.

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Fenomenologia del ping pong paralimpico

C’è un bel configgere, tra Yin e Yang, ma pure Ping e Pong non scherzano. Le Paralimpiadi riconciliano con il tennistavolo. Nell’evento agostano pechinese la grande assente era stata la pallina: chi ne ha mai vista una? Secondo me quei bravi attori in calzoncini corti facevano brillantemente finta, e quello che colpivano era semplicemente vento. Gli atleti paralimpici del ping pong, invece, non costringono i tuoi occhi agli straordinari, non li mandano fuori giri, li attraggono con movimenti di cui puoi ancora apprezzare la grazia e l’eleganza. E che grazia e che eleganza! Puoi sentirti ancora sicuro di affermare “grande!, voleva metterla proprio lì, in quell’angolino…”. Ti accorgi che ti stanno regalando uno spettacolo sportivo, ma soprattutto ti stanno regalando il tempo e la sua dimensione. Il tempo di andare a recuperare la pallina, per esempio. Gli atleti che gareggiano in piedi lo fanno sempre, si allontanano dal tavolo e si chinano per raccogliere quell’oggettino insignificante, il leggerissimo sole di plastica attorno al quale forse ruota la loro vita. Non importa se il passo non ha la stessa sicurezza delle bracciate con cui smashano, fa niente se sembrano arrancare. Vengono in mente i calciatori e il nuovo pallone che subentra in un istante a quello spedito malamente in tribuna, ché non c’è tempo, ché il gioco deve togliere il fiato a chi guarda e sempre più spesso ha pagato per vedere. Nel tennistavolo no. Nel tennistavolo si aspetta. Per chi gareggia in carrozzina a raccogliere da terra il ferro del mestiere ci pensa un solerte raccattapalle, a Pechino un volontario in maglietta blu, inconfondibile. Recupera rapidissimo la piccola sfera e l’appoggia sul campo di gioco, a venti centimetri dalla mano dell’atleta. Fa un piccolo inchino e sembra quasi scusarsi, neanche l’avesse spedita in malora lui, la pallina. Il ping pong sulla sedia a rotelle ha una piccola zona d’ombra. Ci sono aree di campo in cui l’avversario non può arrivare, piccole fette di tavolo in cui una pallacorta ti può crudelmente mettere davanti al tuo limite invalicabile. Il fascino della pallacorta, nel tennis, è che uno può dire tra sé “d’accordo, è un colpo un tantino malizioso, ma Boris Becker si sarebbe tuffato e l’avrebbe respinto, cavoli tuoi avversario se non sei Boris Becker…”. Nel ping pong paralimpico no, non può succedere, quegli angoli remoti non possono essere raggiunti e allora è una specie di pudore quello che vedo negli sguardi degli atleti, qualcosa di più forte della solidarietà e del rispetto per chi sta dall’altra parte della rete. Cioè, il punto carogna lo fanno lo stesso, ma si vede benissimo che sanno quello che prova il malcapitato che lo subisce.

(Qualche anno fa, a Scuolamagia, in attesa che le nevi si sciogliessero liberando il campo di pallone, ho organizzato un torneo di ping pong. Ricordo ricreazioni piuttosto entusiasmanti, sorrisi e discussioni infinite, baruffe e lacrime. Sono uscito di scena presto, nella parte alta del tabellone. Protagoniste furono le ragazze, ben 3 tra i primi quattro. Medaglia d’oro compresa. Quest’anno mi sa che si replica).

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Siamo a cavallo! (vabbè, a cavalluccio…)

Apprendo dal Tg1 di ieri (edizione delle 20) che i cavallucci marini inscenano alla bisogna complesse dinamiche di corteggiamento. Danzano impettiti, si avviluppano in maliziose spire, depongono passionalmente uova che saranno poi gli esemplari maschi a covare. Complimenti! Ai cavallucci prima di tutto, finalmente meritevoli dell’attenzione dei media italiani. E al Tg1, per lo scoop. Purtroppo, però, preso dall’ansia di comunicare la strabiliante notizia, il più importante telegiornale non ha potuto dare conto dell’apertura dei giochi paralimpici pechinesi. Peccato, ci sarebbe stata forse qualche buona ragione per farlo. Si porrà rimedio, certo, magari sul satellite, magari a notte fonda quando tutti dormono, compresi i cavallucci dopo le loro strabilianti prestazioni sessuali.

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“Erano tempi di parole che correvano da sole…”

Murino

Ma il tempo, passa davvero? A scuola tornano i grembiulini e sono spesso neri. A scuola neri dovrebbe essere soltanto certi pennarelli, indispensabili per i contorni dei disegni, e i pentagoni (accerchiati dagli esagoni bianchi) nei palloni di cuoio. Torna il maestro unico e pazienza si tratti nel 90% dei casi di una maestra unica. Al maschile si vede che fa più effetto. È tornata la violenza negli stadi, è tornata a casa la stele di Axum. Negli Usa fa ancora la differenza se si è tornati – meglio se con qualche mutilazione fisica – dal Vietnam.

Intanto c’è chi teme il ritorno del ’68. “Quanti credono nel Sessantotto e quanti vedono del sesso in tutto?”, si domanda Caparezza, mentre Adriano Sofri scrive di temere di scoprirsi più sessantottenne che sessantottino. Intanto, su un muro della mia città una scritta clandestina mi pare un segno inequivocabile di questo tempo che si ostina a non passare. Un gesto-ossimoro, il capolavoro di una bomboletta confusa. 

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