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Fenomenologia del ping pong paralimpico

C’è un bel configgere, tra Yin e Yang, ma pure Ping e Pong non scherzano. Le Paralimpiadi riconciliano con il tennistavolo. Nell’evento agostano pechinese la grande assente era stata la pallina: chi ne ha mai vista una? Secondo me quei bravi attori in calzoncini corti facevano brillantemente finta, e quello che colpivano era semplicemente vento. Gli atleti paralimpici del ping pong, invece, non costringono i tuoi occhi agli straordinari, non li mandano fuori giri, li attraggono con movimenti di cui puoi ancora apprezzare la grazia e l’eleganza. E che grazia e che eleganza! Puoi sentirti ancora sicuro di affermare “grande!, voleva metterla proprio lì, in quell’angolino…”. Ti accorgi che ti stanno regalando uno spettacolo sportivo, ma soprattutto ti stanno regalando il tempo e la sua dimensione. Il tempo di andare a recuperare la pallina, per esempio. Gli atleti che gareggiano in piedi lo fanno sempre, si allontanano dal tavolo e si chinano per raccogliere quell’oggettino insignificante, il leggerissimo sole di plastica attorno al quale forse ruota la loro vita. Non importa se il passo non ha la stessa sicurezza delle bracciate con cui smashano, fa niente se sembrano arrancare. Vengono in mente i calciatori e il nuovo pallone che subentra in un istante a quello spedito malamente in tribuna, ché non c’è tempo, ché il gioco deve togliere il fiato a chi guarda e sempre più spesso ha pagato per vedere. Nel tennistavolo no. Nel tennistavolo si aspetta. Per chi gareggia in carrozzina a raccogliere da terra il ferro del mestiere ci pensa un solerte raccattapalle, a Pechino un volontario in maglietta blu, inconfondibile. Recupera rapidissimo la piccola sfera e l’appoggia sul campo di gioco, a venti centimetri dalla mano dell’atleta. Fa un piccolo inchino e sembra quasi scusarsi, neanche l’avesse spedita in malora lui, la pallina. Il ping pong sulla sedia a rotelle ha una piccola zona d’ombra. Ci sono aree di campo in cui l’avversario non può arrivare, piccole fette di tavolo in cui una pallacorta ti può crudelmente mettere davanti al tuo limite invalicabile. Il fascino della pallacorta, nel tennis, è che uno può dire tra sé “d’accordo, è un colpo un tantino malizioso, ma Boris Becker si sarebbe tuffato e l’avrebbe respinto, cavoli tuoi avversario se non sei Boris Becker…”. Nel ping pong paralimpico no, non può succedere, quegli angoli remoti non possono essere raggiunti e allora è una specie di pudore quello che vedo negli sguardi degli atleti, qualcosa di più forte della solidarietà e del rispetto per chi sta dall’altra parte della rete. Cioè, il punto carogna lo fanno lo stesso, ma si vede benissimo che sanno quello che prova il malcapitato che lo subisce.

(Qualche anno fa, a Scuolamagia, in attesa che le nevi si sciogliessero liberando il campo di pallone, ho organizzato un torneo di ping pong. Ricordo ricreazioni piuttosto entusiasmanti, sorrisi e discussioni infinite, baruffe e lacrime. Sono uscito di scena presto, nella parte alta del tabellone. Protagoniste furono le ragazze, ben 3 tra i primi quattro. Medaglia d’oro compresa. Quest’anno mi sa che si replica).

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