Cineserie, Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Ciminiere

Le stesse cose che ho pensato quest’estate mentre attraversavo l’immenso quartiere pechinese dedicato all’arte contemporanea (la celeberrima 798), quando non riuscivo a concentrarmi su quella macedonia di bizzarrie e estri creativi. Quando passavo oltre la grande gabbia per uccellini con dentro una bambina viva (un’opera d’arte) per raggiungere e sfiorare l’immenso reticolo di tubi arrugginiti (l’antica realtà di quel luogo, sorgendo lo spazio espositivo sulle rovine di un grande complesso industriale). Quando giravo attorno al maiale decorato con migliaia di fototessere (un’opera d’arte) per avvicinarmi al vecchio binario dismesso, ormai quasi cancellato dall’invadenza dell’erba. Quando snobbavo pesanti teste di gesso, fotografie di mutilazioni, vetture da Formula 1 incidentate (tutte opere d’arte) per rivolgere gli occhi alla maestosità delle ciminiere. Mute di fumo, e da anni, tuttavia molto più eloquenti di tutta quell’arte imbrigliata, incellophanata alla periferia di un regime. Capaci di raccontare la storia di quella città stravolta dal moderno, piccoli indizi sulla scena di un urbicidio.

cimi2

Le stesse cose che ho pensato quest’estate le ha scritte Antonella Bukovaz in una lettera alla stampa. Accade che stiano dismettendo un’area industriale nella città in cui vive, per fare posto ad una banca e all’ennesimo complesso commerciale. Il tutto con in sottofondo una fastidiosissima enfasi modernista culminata nel più classico tonfo di ciminiera abbattuta.

A proposito del quale scrive Antonella:

 

“È stato un piccolo moto causato da uno spostamento tra ciò che è giusto e ciò che lo è meno, tra ciò che è bellezza e ciò che non lo è, tra ciò che va bene e ciò che va male e ciò che andrà peggio.

È stato l’ultimo appigliarsi a un’immagine, quella della ciminiera, che ha fatto e farà parte del nostro personale paesaggio e che abbattendosi al suolo, grigia come un faggio secolare, ci ha fatti risuonare come cosette da nulla”.

 

Ricordo le parole di Marco Paolini, a teatro. “Mettere il piede su un ponte che ha visto ottomila stagioni e sentire che ancora resiste non è poco. Il ponte è mio, ma sento mie anche le città della chimica e siderurgia bruciate in questo secolo: Gela e Marghera, Ferrara e Gioia Tauro, Taranto. […] Mi ripeto: a me le valli troppo verdi, quelle della pubblicità, mettono un’incontenibile voglia di fargli subito dentro la cacca e la pipì per contaminarle almeno un po’… mi dà tristezza pensare che la maggior parte dei non luoghi che usiamo, attraversiamo, sfruttiamo debbano essere considerati persi. È a quelli che devo dare un nome, perché è quella la zavorra che mi tira sotto, perché la maggior parte del mio tempo lo passo lì. Cavalcavia, viadotti, sono emozioni a buon mercato se uno sa andare a piedi, ma se ci passo sopra come faccio a buttarli via, come faccio a fare finta che non siano nel paesaggio?”

 

Ancora Antonella, ancora più a fondo:

“Questo nostro tempo ha invece l’arroganza di decidere la scomparsa della memoria in nome di un futuro improbabile. Ha l’urgenza di semplificare radendo al suolo. Ha la cecità di produrre un futuro che è previsto uguale per tutti e per questo porta un altro nome: omologazione! E qui anche vorrei essere chiara. Nel tentativo che faccio quotidianamente di allevare con bellezza le mie figlie cerco di impastare la loro origine slovena con quanto più mondo mi riesce. Cresceranno intorno alla propria radice, a una memoria collettiva che fatichiamo a preservare, ma è base per un  futuro consapevole e le aiuterà a non cadere nella trappola di considerare quelle che vediamo come le uniche scelte possibili”.

 

cimi

Sono importanti le ciminiere, andrebbero abbracciate come si abbracciano certi alberi. Quelle di Pechino una volta erano il tetto della città, probabilmente aiutavano gli uomini ad orientarsi, a ritrovare la strada. Oggi sono annichilite dai grattacieli, e vengono confinate nei quartieri dell’arte contemporanea. Presto qualcuno le scambierà per immense sculture.

Standard