Imago, Soletta, Stream of consciousness

Il tempo di una vita

La voce di Lesley McIntyre ti fa propendere per la superiorità antropologica degli anglosassoni. Ha movimenti quieti, è un’onda dolce, è cuore e ragione perfettamente mescolati. La ascolti parlare e stringi tra le mani la magna charta, vedi la gloriosa rivoluzione da un civilissimo spalto, fai un bagno nell’habeas corpus. Eppure è soltanto una madre innamorata della figlia, eppure sta raccontando soltanto le passeggiate in un parco o i tuffi in mare lungo le coste del Galles. Parla ai pochi abitanti accorsi ad ascoltarla in una piccola città del Friuli, grazie ad una donna assessore che non sa trattenere le lacrime e probabilmente è consapevole di aver organizzato una serata così impopolare da giocarsi la ricandidatura. Parla delle sue fotografie in bianco e nero, Lesley, e del pudore nello scattarle. Dice con onestà di trovarle tutte belle, ma non per un vizio di superbia: ehi, il soggetto è la sua bimba! Può sembrarti brutta una foto della Tua bimba?

Le immagini. Parlano anche loro. Parlano la stessa lingua di questa madre fotografa. Se possibile parlano ancora di più. Come la volta in cui Molly è rimasta per pochi secondi sola, giusto il tempo di recuperare il phon a pochi metri e asciugarle i capelli dopo il bagnetto. Un piccolo momento di solitudine, difficile per chi deve sempre avere attorno (e addosso) mani che curano e sostengono, ma anche un momento di dignità, di autonomia, di sperduta padronanza di se stessa. E di bellezza da immortalare.

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2 thoughts on “Il tempo di una vita

  1. La storia di Molly, raccontata da Concita De Gregorio

    LONDRA

    Questa è la storia meravigliosa e terribile di Molly, una

    bambina nata per non vivere nemmeno qualche giorno

    — avevano detto i medici, perché qualcosa nel suo corpo

    consumava i muscoli e la vita — e vissuta quattordici

    anni, invece, quattordici lunghissimi anni in cui si è vestita da ballerina

    ed è andata dal parrucchiere coi rolli in testa e con la rivista

    Hallo in mano, ha fatto da damigella al matrimonio di suo zio e ha

    recitato nel Lago dei cigni, ha fatto il bagno nel mare di Maiorca e la

    turista a Roma con gli occhiali scuri, ha tenuto in braccio un neonato,

    ha fatto i capricci, ha riso fino a farsi venire il singhiozzo, ha giocato

    a nascondino a ricreazione, ha manifestato in piazza contro i

    tagli alla scuola pubblica coi cartelli «stop the cuts», ha scritto un tema

    sulla morte di lady Diana che è morta nel tunnel tre giorni dopo

    che sua zia Carol era morta in un letto, ad agosto: «I fiori che io e i

    miei due cuginetti abbiamo lasciato alla zia Carol erano molto speciali

    perché venivano dal suo giardino, i fiori dei figli della principessa

    Diana non venivano dal suo giardino. Mi è sembrato che la

    morte della principessa Diana sia restata in tv per giorni e giorni. La

    zia Carol è morta di cancro e ha lasciato i suoi due figli di 3 e 5 anni e

    suo marito, mio zio Bruce. La principessa Diana ha lasciato due figli

    di 12 e 15 anni e suo marito, il principe Carlo. La morte della principessa

    Diana è stata solo un sottofondo».

    Questa è la storia di Molly e di sua madre Lesley che di mestiere fa

    la fotografa e che con le sue foto l’ha raccontata in silenzio a tutto il

    mondo, e se non avete voglia di ascoltarla perché costa fatica sentire

    di bambini ammalati, bambini che muoiono vi sbagliate perché

    è una storia bellissima, invece, che parla di rabbia e di allegria e di

    come si possa vivere e poi sopravvivere, alla fine, anche quando

    sembra di no. Lesley, per esempio, quando Molly se n’è andata ha

    cominciato a curare le piante: «Volevo sparire, essere invisibile.

    Mettere le mani nella terra fino a farle diventare nere. Far crescere i

    fiori, accarezzare le foglie. Stare in silenzio ad accudire qualcosa che

    avesse bisogno di me. Togliere quello che non serve, aggiungere

    quello che manca. È stupendo fare il giardiniere: non sei più nessuno,

    sei la forza che fa crescere le piante. Ti dimentichi. Ti prendi cura

    ». È stato così per tre anni, ora ha ricominciato a fotografare. Vuole

    traslocare, dice, perché le serve avere in casa una camera oscura.

    Lesley McIntyre ha 55 anni, sembrano 15 di meno. Vive in una casa

    di fate dentro il parco di Putney, Londra. È lunga e sottile, ha i capelli

    lisci biondi che scendono sul viso separati da una riga a metà,

    porta alle orecchie due tappi di bottiglia su cui è dipinta Frida Khalo.

    Sta scalza, tiene le finestre aperte anche se fa freddo, porta una

    maglietta leggera, senza maniche. In bagno c’è una vasca verde e al

    muro una foto di Molly che fa il bagno dentro la vasca verde. In soggiorno

    ci sono libri per terra, libri dappertutto. Alle pareti i bambini

    africani di quando viaggiava in Africa, «prima», e i disegni dei fiori e

    dell’orto botanico di quando ha curato le piante, «dopo». Molly nelle

    cartoline di Natale, Molly con le amiche, Molly ovunque.

    Sorride moltissimo, Lesley. Sorride tutto il tempo anche quando

    le si inclina un angolo delle labbra e dice cose come «certo sì che

    avrei abortito se l’avessi saputo. Ma no, non se avessi saputo che

    Molly era malata: se avessi saputo che sarei stata sempre da sola, che

    avrei fatto così tanta fatica, che viviamo in un mondo che non prevede

    l’errore e quando l’errore arriva devi arrangiarti, è un problema

    tuo, nessuno vuole saperne di bambini tanto fragili da essere destinati

    a morire ma tutti siamo fragili da qualche parte, e destinati a

    morire, anche».

    Tiene sul tavolo l’edizione italiana del libro The time of her life, lo

    pubblica Contrasto: Il tempo di una vita. «Prima che Molly nascesse

    pensavo che sarei riuscita a conciliare il lavoro con la maternità.

    Ci sono riuscita, ma non nel modo che avevo previsto. Non ho mai

    potuto allontanarmi da una bambina così fragile, sono stata fuori da

    sola cinque volte in quattordici anni, cinque giorni. Per il resto, cioè

    sempre, ero con lei, e non ho mai smesso di fotografare. Ho fotografato

    la vita quotidiana, la sua infanzia, i nostri viaggi, tutto. Ho decine

    di migliaia di foto ancora da sviluppare. Queste sono alcune, pochissime

    ». Dal giorno della nascita a quello che di quattro giorni precede

    la morte, il tempo di una vita.

    «Avevo 34 anni, Molly era la mia prima figlia. Non ho avuto nessun

    sintomo durante la gravidanza, tutto bene, i tracciati, tutto a posto.

    Solo, tardava a nascere. 44 settimane. I medici dicevano è a posto,

    prende il suo tempo. Quando è arrivato il momento non ho voluto

    anestesie, né stimolanti: è nata da sola. Gli amici mi hanno portato

    dei fiori e dei biscotti, abbiamo festeggiato. Dopo qualche giorno

    mi hanno detto che non sarebbe sopravvissuta. Aveva un’anomalia

    nella formazione dei muscoli, non l’hanno mai diagnosticata

    con esattezza. Mi hanno detto che non sarebbe uscita dall’ospedale.

    L’ho portata a casa, invece, e l’ho tenuta qui più di 14 anni. La nostra

    vita non è stata tragica: è stata molto dura, ma bellissima. Molly

    è stata una bambina felice: privilegiata, dunque felice. Era brillante

    a scuola, stava molto a suo agio con gli altri, adorava mia madre,

    aveva delle amiche magnifiche e prendeva i suoi limiti con realismo

    e filosofia. A differenza di moltissimi bambini nella sua condizione

    ha avuto tutto ciò che le serviva per vivere serena. Non si è

    mai considerata malata. Solo nelle ultime settimane mi ha detto:

    “Ho un cervello che funziona in un corpo che non lo fa”. E sei giorni

    prima di morire: “Finora sono stata sana per tutta la vita”. La tragedia

    non è la malattia, è che viviamo in un mondo che non è attrezzato

    per dare un supporto a chi non ce la fa: ho passato tanti anni a

    lottare per evitare che mia figlia, a causa della sua disabilità fisica,

    venisse emarginata. So esattamente di cosa parlo. C’è un tabù che

    riguarda l’invalidità, la morte e soprattutto la morte infantile: è come

    se fosse un pensiero da scacciare, qualcosa da nascondere. E invece

    la vita dura quel che dura, per tutti, Molly era così intelligente,

    brillante, ironica, era così consapevole dei suoi limiti e della sua fortuna.

    Ci sono milioni di bambini nel mondo che non hanno il privilegio

    di Molly e che giacciono abbandonati in qualche letto. Allora

    sì, non vale la pena che vivano. Parliamo di aborto, di eutanasia. Allora

    sì, se non ci sono le condizioni per far vivere dignitosamente

    queste persone, non bisogna farle nascere. Io rispetto tutte le religioni

    pur senza averne una. Rispetto cattolici e buddisti, ebrei. Però

    nessuna religione dovrebbe imporre la vita per la vita se non è in grado

    poi di renderla vivibile per il bambino e per gli altri, per tutti».

    Vento dalla finestra, un brivido di freddo. Lesley sorride e si scuote

    i capelli, vuole qualcosa da bere? La cucina è grande, rosa e di legno.

    Altri libri, altre foto di Molly. Le somiglia moltissimo. «Quindi

    anche adesso che so cosa è stata Molly per me posso dirle con esattezza

    che sì: avrei abortito se avessi saputo, e abortirei adesso in un

    mondo così. Quando nascono bambini con problemi tanto gravi il

    novanta per cento delle coppie non resiste all’urto. I genitori si separano,

    anche io e suo padre ci siamo separati: è inevitabile, se per

    esempio si hanno idee diverse su cosa fare… Operarla e farla vivere

    negli ospedali attaccata alle macchine, o non operarla e aspettare

    che la morte la trovasse viva, a casa? “Salvare” le nostre vite adulte,

    o salvare la sua? Ecco, è difficile dimenticarsi di sé, proiettarsi in due,

    insieme, in un bambino che richiede ogni energia. Capita che si resti

    presto soli. E da soli, o si ha una famiglia alle spalle, una madre,

    una nonna, del denaro, le risorse per lasciare il lavoro e occuparsi

    solo di lei, la possibilità di farlo oppure cosa? Dove sono, dopo, le associazioni

    per la vita, gli antiabortisti? E aggiungerò: Molly non ha

    mai sofferto il dolore fisico. Ha vissuto bene, sulla sua sedia ma bene.

    Se avesse sofferto e mi avesse chiesto di aiutarla a smettere di soffrire

    io l’avrei fatto. In linea di principio non vorrei veder morire nessun

    essere umano ma certo che l’avrei fatto, l’avrei fatto per lei come

    se lo stessi facendo su di me. Quando ami qualcuno non è affatto

    difficile decidere, è facilissimo. La adoravo, e non avrei esitato».

    «Quando Molly è morta ero così stanca. Pensavo che sarei morta

    anch’io. L’amore profondo è un’esperienza molto negativa. Può annullarti,

    portarti via da te. Però invece da quando è nata ho sempre

    avuto chiara la consapevolezza che un figlio è un essere separato, è

    un altro essere umano non una parte di te. Molly ha visto morire mia

    madre, sua zia. Ha visto sparire le persone della vita quotidiana, ha

    imparato che succede, uno va e gli altri restano. Sapeva…

  2. …che sarebbe

    andata, un giorno, anche lei. Ho aspettato fino all’ultimo che mi

    chiedesse “mamma, sto morendo?”. Le avrei detto: sì. Era così arrabbiata

    gli ultimi giorni, era infuriata all’idea di morire. La stavo girando

    per evitare che le venissero le piaghe, una volta, lei era insofferente

    con me. Le ho detto “amore, se potessi fare qualcosa la starei

    già facendo”. Lei mi ha risposto “lo so, mamma” e poi ha aggiunto:

    “Sarei così contenta se potessi essere ancora me stessa anche solo

    per un momento”. Così, eravamo pronte. Lo sapevamo. Però la

    domanda che aspettavo mi facesse non me l’ha fatta mai. È stata più

    saggia di me, e più generosa».

    «Dopo, per tre anni, ho lavorato come giardiniere. Sono scomparsa,

    ero diventata invisibile. Era fantastico stare fuori con la terra

    nelle mani, ascoltavo gli uccelli, anche Molly era un uccello. Facevo

    un lavoro molto pesante e leggerissimo. Facevo sbocciare i

    fiori e pazienza per quell’amore finito, un amore così non finisce,

    certi amori non finiscono mai. Ti accompagnano e ti aiutano a potare

    un ramo secco, a sorridere a un germoglio. Tutto nasce e muore,

    tutto comincia a morire subito: con Molly è stato chiarissimo.

    Ho sempre sentito, anche nei momenti più felici, la presenza costante

    della loro e della sua mortalità. Poi un giorno, per caso, ho

    incontrato un fotografo. Abbiamo cominciato a parlare di foto.

    Non avrei mai pensato di mostrare le foto di mia figlia, in grandissima

    parte non le avevo nemmeno stampate. Mi pareva una storia

    personale, la nostra storia. Però poi ne ho mostrate alcune, timidamente,

    e le ho viste con gli occhi di un altro: è stato come vederle

    per la prima volta, ed erano bellissime. Intendo: Molly è bellissima.

    Oggettivamente: la sua vita è stata bellissima, non tutte lo sono

    altrettanto. Lui, il fotografo mi ha detto: “Hai le immagini di una

    persona straordinaria, forte e fragile come ciascuno, la sua storia

    non è solo la vostra: è anche la nostra è di tutti”».

    «Così le ho messe in fila, in ordine di tempo: credo che chi le guarda,

    prima di arrivare al punto in cui la sua invalidità risulta evidente,

    possa essersi affezionato alla persona contenuta in un involucro

    così delicato e fragile. Credo che nelle foto si veda una bambina

    che cresce e dopo, solo molto dopo, una bambina un po’ diversa.

    Questo in effetti era Molly. Una bambina. Dopo, molto dopo,

    una bambina diversa».

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