Res cogitans, Stream of consciousness

All the visible children

Incrocio quasi per caso 15 minuti di Zecchino d’Oro e assisto a ben tre appelli di solidarietà in nome di tre giustissime cause. Mi chiedo: è quello il luogo giusto? Possibile che in Tv si parli di bambini denutriti abbandonati violati bombardati malnutriti ammalati arruolati condannati quando l’audience è costituita in prevalenza da spettatori altrettanto bambini? Che per definizione: a) possono essere legittimamente informati delle tristi condizioni dei loro omologhi nati altrove, ma tempestati di sfighe infantili forse no; b) possono mettersi una mano sulla linda coscienza ma evidentemente non sul portafogli. Perché gli agguati moral-persuasori non li tendono ai fan dell’Isola dei Famosi? Funzionerebbero, no? Fare uscire da dietro le quinte un bimbino da qualche sud del mondo che con le faccia seria dica tu uomo bianco e stronzo che stai perdendo il tuo tempo pensando se Belen sia più o meno adultera e se un bidello con le trecce ci sia o ci faccia, ti faccio notare che io frattanto nel mio paese crepo di fame davanti alla tua indifferenza quindi scuci 20 euri (compare c/c in sovrimpressione), tornatene nel vuoto cosmico della tua poltrona e muori di sensi di colpa. Farlo sputare per terra, il bimbino, e uscire fieramente. Poi pubblicità, poi tutti con Luxuria.  

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Tutto quello che un giorno sarà di Daniele

Daniele stava alla finestra, gli occhi sul grande prato steso sotto le tre aule al primo piano di Scuolamagia. Guardava giù, visibilmente immalinconito da qualche suo cruccio. Era appena finita la ricreazione e stava per iniziare l’ora di italiano. Mi sono avvicinato e non ho trovato nulla di più originale che dirgli, indicando il grande spazio verde: “guarda, un giorno tutto questo sarà tuo…”. Nel suo sguardo ho letto subito una certa delusione. Tutti lì i miei sforzi per tirarlo su di morale? In effetti, era un po’ poco. Allora c’ho pensato un paio di secondi e ho proseguito: “un giorno tutto questo sarà tuo, certo, tutto tranne l’erba, la staccionata, quei sassi che emergono dal terreno, la casetta di legno, l’orto, la panchina…” e via sottraendo. Al termine del lungo elenco una cosa risultava chiara come quel cielo di ottobre: di quel variegato tutto a Daniele sarebbe rimasta in dote una cartaccia bianca finita in qualche strana maniera in quel mare d’erba. Soltanto quella, ma quella era sua. Rieccolo sorridere, riecco la faccia di quando pensa che sono matto, riecco la voglia di metterci del suo, di essere parte di tutto quello che succede, fosse pure una semplice cazzata come quella (mi pare si fosse capito che non stessimo discorrendo di metodologie didattiche innovative…).

Da quel giorno, ogni mattina dopo la ricreazione Daniele mi chiede: “e oggi, cos’è mio?”. Rispondere diventa sempre più difficile, ma anche appassionante, una vera sfida alla fantasia. A Daniele ho regalato un verme morto sotto 20 cm di terra, a pochi centimetri da un certo fiore. A Daniele ho donato il braccio orizzontale, soltanto quello, di un crocifisso posto sulla parete di una piccola casetta per la legna. Una panca, ma col divieto di sedersi sulle sue assi. Il filamento di tungsteno dentro la lampadina di un lampione. Due raggi della ruota anteriore della bicicletta di Oleg, il bimbo dirimpettaio della scuola, con la promessa di non sottrarli al piccolo mezzo di locomozione. Un ramarro abitante di certe foglie, vecchio e pieno d’acciacchi. Il petalo di un quadrifoglio, il dente storto di una vecchia ringhiera. Un giorno ho esagerato regalandogli il nucleo incandescente della terra – dono impegnativo, mi rendo conto, ma il ragazzo ha la testa sulle spalle – da raggiungere attraverso un lungo cunicolo da imboccare tra una pietra e una foglia un po’ più scura. Lunedì, perso dietro altri mille pensieri, mi son trovato in difficoltà. “Cos’è mio?” Cos’era suo? Fortunatamente il prato nel corso della mattinata era diventato bianco e Daniele ora possiede un fiocco di neve. Non uno qualsiasi, ma proprio quello lì, quello a sinistra di quell’altro che è mio e me lo tengo.

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Il paradiso di Gramsci

Torno spesso a questo libro, alla sua delicatezza. Dentro ci trovo un mondo che si regge da solo su colonne di solidarietà e di altruismo, ma anche di dolcezza e di fantasia. Stasera ci torno di getto, come a verificare che una cosa preziosa sia dentro il suo scrigno, che un bambino dorma e che la sua coperta sia rimboccata. Leggo e mi rincuoro, ogni cosa è al suo posto, Gramsci è sempre Gramsci.

 

«[…] Se ci pensi bene tutte le questioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene o di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già d’allora nell’unico paradiso che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli. Ti abbraccio teneramente… Antonio»

 

Antonio Gramsci, lettera alla madre…

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Soletta, Stream of consciousness

Gli acrobati, il barbone e gli alberi.

Mi piace il blog di Dario Cresto-Dina.

Eccone tre piccoli estratti.

 

“A occhi chiusi, se dietro di me ci fossi tu, io mi lascerei cadere”. È fra le più belle dichiarazioni d’amore mai sentite. Può essere di tutti, non solo degli acrobati.

 

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Al pronto soccorso un barbone mi regala una vecchia moneta da cento lire. Ne aveva in tasca cinque. “Una per mia moglie, quando m’innamorerò, perché quando mi innamorerò mi sposerò; una per mia figlia perché quando m’innamorerò farò una figlia; una per mia madre perché quando morirò la ritroverò più giovane di me; una per quel puttaniere di mio padre, per fargli capire che sono meno stronzo di lui. Queste non te le posso dare, ma quella che mi avanza la do a te perché mi hai guardato negli occhi e mi hai sorriso”.

 

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“A me piacciono gli alberi sulle montagne, perché hanno qualcosa di diverso” (Christopher Walken a De Niro nel film “Il cacciatore”).  Ho sempre guardato gli alberi, soprattutto dentro i temporali. Fin da bambino mi sono sentito guardato da loro, custodito anche quando cercavo di perdermi in un bosco. Custodito, come si fa con l’amore. Un pittore mi scrisse dietro un quadro di un faggio rosso più o meno queste parole: non le stelle o i computer, ma gli alberi sono la nostra memoria. Aspettano, sorvegliano i nostri amori, per dirci di tornare un giorno al grembo dove si è nati, quando il vento si fa tempesta liquida di semi, nel buio.

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Res cogitans, Stream of consciousness

Verrà la morte e avrà i suoi occhi

Scrivo mentre è in corso, nella mia città, una veglia di preghiera per Eluana Englaro. Quando un bel po’ di anni fa ero un dubbioso frequentatore di chiese, tra le forme di culto le veglie erano le mie preferite. Così lontane dalle rigidità rituali delle messe, spesso concedevano qualche sprazzo di fantasia e un maggiore spazio a chi non portava i paramenti. È stato durante una veglia che mi sono innamorato. Sì, di una chitarra classica, mirabilmente arpeggiante.

Forse Eluana, cui non è stata lieve la terra, morirà a un paio di chilometri da dove sto scrivendo. È bello il ricordo del silenzio che contraddistingueva le veglie di preghiera quando ero un dubbioso frequentatore di chiese. La veglia di stasera, invece, a pochi passi da qui, risuona e stride. E rompe un silenzio quasi necessario.

Perdona tutti e a tutti chiede perdono, Eluana. Non fate troppi pettegolezzi.

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Se tutto si mescola

Ci torno, ci torno ancora. Ci torno perché è un rovello. Ci torno perché ho da poco letto della sentenza che forse porrà fine al calvario di Eluana Englaro e mi sono sorpreso in un gesto di esultanza. Lieve, un piccolo e quasi impercettibile movimento del braccio. Ma era un gesto di esultanza, e ce n’è abbastanza per la peggiore vergogna. Poi, con gli occhi che vorrei fossero stanchi di Explorer, ma purtroppo non lo sono mai abbastanza, sono corso dietro ad una curiosità. “L’Unità” di ieri raccontava di alcuni simpatici gruppi nati su Facebook in nome di comuni ideali come bruciare gli zingari e disinfestare l’Italia dagli africani. Sono andato a vedere, ma già pensavo: li avranno già chiusi. Invece no, sono tutti lì e sono tanti e uno ci aderisce con il suo nome il suo cognome e la sua faccia. Sorride, questa Elena colla frangetta, ha un viso dolcissimo e ha appena firmato per il ritorno di Hitler. Ci sono Carolina, Mirco e Debora: insieme a 494 utenti vogliono cacciare tutti i rumeni dall’Italia. Il problema è che probabilmente c’è la stessa superficialità e leggerezza anche dietro le facce di quelli che si battono contro le classi differenziate per gli stranieri, per la laicità del parlamento e per i profughi del Congo. Eluana, dicevo. Sembra un torneo, su Facebook: i 345 che pregano affinché non sia assassinata contro i 231 che pregano perché venga staccato il sondino che la alimenta, i 78 che tuonano contro l’eutanasia di papà Beppino contro i 23 che lo abbracciano forte. Dentro queste pagine vuote, che nella colonna a destra già ti invitano a presenziare al gruppo “mandiamo Emilio Fede sul satellite”, sia mai che il tuo cervello sia rimasto fermo 22 secondi sullo stesso pensiero. Esistono persone al mondo, tante purtroppo, che credono di poter barattare…

samurai

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Il giorno dei garbugli

Ci sono giorni in cui – letti un paio di quotidiani, data un’occhiata a un settimanale, sbirciati un po’ di siti internet – accade un fenomeno strano. È come se alcune notizie si riconoscessero, si facessero l’occhiolino da una pagina di carta a una di pixel (è un’espressione di Michele Serra, fresca di giornata), sentissero un’aria di famiglia, non importa che una provenga dalle pagina della cronaca e una ci giunga dalla sezione esteri. Si radunano, perché in fondo non sono che le facce diversissime di un unico prisma. Prendete oggi. C’è Eluana e la Chiesa che come al solito va sopra le righe gridando all’assassinio. Il nome di Eluana, che da troppo tempo non può parlare, lo grida forte Hannah, Hannah Jones, la tredicenne che si è stancata di vivere. Le cure contro la leucemia le hanno spaccato il cuore, che ha smesso di crescere insieme a lei. Chi potrebbe operarla le promette un lustro di vita, non di più. Prendere o lasciare. E Hannah, che è amata e protetta, decide di lasciare. Sareste sicuri di amarla, una grama vita con la data di scadenza come fosse uno yogurt? C’è anche Robert, però. E vuole dire la sua. Robert Muller gioca a hockey, difende la porta di una squadra tedesca. La vita gli sta scivolando via come un disco sul ghiaccio. Il cancro al cervello non si può più respingere (Robert ha davanti a sé un orizzonte di due mesi), i tiri degli avversari sì. L’estremo difensore non molla la stecca e non si toglie i pattini. E para. Sembrava una giornata di novembre, era una lunga lezione di filosofia.

Straziante e drammatica, pensata fino al mal di testa. Il gomitolo è decisamente ingarbugliato e continuiamo a capirci poco. Per fortuna esistono ancora le buone notizie: in Gran Bretagna uomini laboriosi hanno trovato la formula della ragnatela. Anche quello, in fondo, è un piccolo ordinato garbuglio.

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La Storia fatta con i SE

Questa mattina sono arrivato a scuola un quarto d’ora prima. Si trattava di allestire Salamagia, trasformando l’unica stanza vagamente asettica, la sala insegnanti, in un piccolo cinema d’essai. Bisogna mettere un banco sopra un tavolo, sistemarci il videoproiettore, andare a prendere il lettore dvd, lo stereo e le casse e assemblarli intrecciando spine e cavi. Bisogna sistemare le sedie nel posto giusto. Poi, una volta avviati i congegni tecnologici, è la volta di regolare le immagini sul grande muro, mettendo a fuoco. A quel punto le tapparelle sono già state abbassate e il fascio di luce ha già tagliato in due la stanza, dando il via alle danze di milioni di granelli di polvere ballerini e illuminando le facce assonnate dei primi cuccioli arrivati a scuola.

In storia abbiamo parlato di colonialismo e la programmazione odierna prevedeva Hotel Rwanda. In una scena, circa a metà del film, è resa con forza la drammatica indifferenza dell’Occidente davanti al genocidio. Il casco blu Nick Nolte dice al protagonista di provare una profonda vergogna, all’Onu nessuno pensa di intervenire per fermare il massacro dei Tutsi (“Vi considerano sterco”, ammette…). Quasi contemporaneamente l’uomo d’affari belga (un altro volto di Hollywood, Jean Reno) tenta di intercedere presso influenti sfere politiche a Parigi e Bruxelles. Inutilmente, tutti non vedono e non sentono. Nessuno ha la volontà di fermare i machete degli Hutu.

È a quel punto che un mio cucciolo spettatore ha un sussulto di speranza, viola le norme che tutelano il sereno ascolto dei dialoghi dei film a Salamagia e si rivolge con voce forte ai compagni: “Se succedesse oggi, Obama li fermerebbe!”.

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Tutto sulle sue galline

Una polemica vecchio stile, come sarebbe bello trovarne sui giornali. Samu ha preso quaderno e penna e me le ha cantate. No, non per il fatto di essere stato punito, quello no, sapeva di averla fatta grossa. Nemmeno per l’entità della punizione, ché il crimine era reiterato e “l’uomo” avvertito. Il problema era la natura della punizione. Si trattava di descrivere un comico famoso (del cinema, della tv…) e provare a spiegare il perché del suo successo. Perché fa ridere? Perché ha una faccia buffa? Perché gli vanno tutte storte? Perché prende in giro Berlusconi? Non sembrava malaccio al prof., quel tipo di attività. E pure Samu, condannato secondo i dettami dell’habeas corpus, avrebbe potuto espiare divertendosi e lavorando soltanto un po’ di più insieme a Aldo Giovanni & Giacomo, Panariello, il Mago Forest, Crozza, Emilio Fede, la Litizzetto o chi voleva lui.  

Ma Samu – si evince dalla garbata lettera – è fatto di un’altra pasta. Il suo è ancora un mondo di animali e di giochi all’aria aperta, di alberi scalati e di casette di legno. Samu da un ramo con un coltellino sa ricavare un fischietto, Samu chi “ci sia in nomination” questa settimana tra quelli dell’Isola proprio non lo sa. “Le cose vicine”, le ha chiamate nella sua lettera. Quelle che preferirebbe descrivere quando gli si chiede di esercitarsi nell’uso scritto della lingua patria. Le cose semplici, le cose vicine come le sue galline. Samu mi ha scritto tutto questo e distinti saluti.

Morale della favola: ho deciso di commutargli la pena. Dopo aver premesso che comunque sarà utile nel corso dell’anno avventurarsi con l’intelligenza e la fantasia oltre i confini del rassicurante orizzonte quotidiano, scrivendo anche di altri mondi reali, possibili e impossibili, ho trasformato i vecchi compiti nelle seguenti consegne:

  • Descrivi il tuo fratellino di 5 anni mentre gioca con i Gormiti;
  • Descrivi il rifugio alpino dove passi le vacanze;
  • Descrivi una tua gallina, ma non una qualsiasi: la più sensibile.

 

Svolgimento

 

La più sensibile e coccolona delle mie galline era Gemma, dovete saper però che Gemma è morta da 5 anni. Era la mia gallina preferita, era una delle prime e io le volevo molto bene. All’inizio avevo tre galline: Gaia, Gemma e Gina. Lei era la più buona, aveva un carattere docile e gentile, si accovacciava sempre sulle mie ginocchia e mi faceva l’uovo. Un giorno, però, è arrivato il falchetto. Lui era furbo ed è sceso in planata nel recinto ed ha preso Gemma al volo, l’ha buttata a terra e ha cominciato a squarciargli il petto. Io me ne sono accorto troppo tardi e Gemma era sul punto di morire. Quel giorno ho pianto tantissimo (anche adesso mi viene da piangere!) perché Gemma mi è morta tra le mani. L’ho seppellita dove anche mio papà seppelliva le galline una volta, e mentre la sotterravo mi tornavano in mente i bei ricordi passati insieme a lei, alla sua bontà e alla sua gentilezza.

Anche adesso ho delle galline sensibili ma non mi dimenticherò mai di Gemma.

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Ferigo

Esattamente un anno fa a quest’ora ero al telefono con un grandissimo fotografo. Uno che nell’ambiente chiamano “il teleobbiettivo di Dio” e scusate se è poco. Sarebbe dovuto venire a Scuolamagia per un servizio fotografico e mi parlava di sfondi con le mucche. Mentre gli spiegavo che le mucche proprio non avrei saputo dove recuperarle, i miei occhi si erano posati sul televisore acceso senza l’audio riconoscendo un effervescente Giorgio Ferigo con il microfono in mano e un chitarrista al fianco. Bene, ricordo di aver pensato, era ora che si decidesse a far uscire un nuovo disco. Insolito questo mio ottimismo: un bicchiere mezzo pieno, decisamente troppo pieno. Giorgio Ferigo era morto, il suo bicchiere vuoto per sempre.

 

Devûr chê prima muàrt, âtas vegnèrin-daspò

ma simpri mancul grivias

fin a chê di cumò

 

(Dopo quella morte, altre seguirono,

ma sempre meno atroci

fino alla presente)

G. Ferigo

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Alice dovunque tu sia

L’uomo non ricorda. Sotto quella terra c’è una bambina vissuta un soffio. Il tempo di chiamarsi Alice. Il tempo di essere sua sorella, quando la guerra era appena finita, quando lui aveva 5 anni. L’uomo non ricorda e le tre tombe sono assolutamente identiche nel loro essere anonime. Tre mucchietti di terra e tre piccole croci di legno senza data e senza nome. Croci piccole, da bambini. Certo, esisterà in qualche archivio comunale un documento pieno di polvere con la verità su quelle tre antiche sepolture. Ma è prassi di quell’uomo accendere tre piccoli lumini: uno sarà sicuramente quello giusto. Gli altri due non avranno nulla di sbagliato.

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