Soletta, Stream of consciousness

La vicinanza dell’assenza

“Guarda il mio collo. È cambiato”, gli disse la ragazza con le occhiaie.

Lui se n’era accorto subito, ma aveva preferito non farglielo notare.

Ora non poteva più tacere.

Le disse: “È strano come il collo sia la parte del corpo che meglio svela l’età delle donne”.

“Guarda il mio collo! Sono invecchiata di cinque anni, cazzo. Eppure sono stata via meno di sei mesi”.

“Faccio questo effetto”.

“Tu invece stai benissimo”.

“È perché la tua assenza è sempre stata qui con me”.

 

Rubato dal blog di Dario Cresto-Dina, e lui chissà da dove. Da un libro, dalla vita, o vai a sapere…

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La soluzione

Del Mediterraneo a scuola si parla ogni giorno: oggi per i traffici delle navi dei Fenici, domani per lo sbarco degli alleati nel ’43. Di volta in volta diventa il “mare nostrum” dei Romani, il “mare caldo” ambito dai Russi. Tira ancora fortissimo l’espressione “catino”, cara ai testi di geografia. Chissà se tra qualche anno sarà per tutti il “cimitero sott’acqua”, “la tomba degli africani”, “il mare della morte”. La “Caporetto blu”. Forse dovrebbe già esserlo. Forse potrei cominciare già domani, in un’aula di montagna. Bisognerà pur cominciare a trarre qualche somma, a fare uno più uno, uomo più uomo, fino a 200, e poi tutti gli altri, moltiplicato per i decenni, sottratta la nostra indifferenza.

 

E se ripartissimo dall’ingenuità? Dalla nuda ragione, con una filosofia spiccia e schematica alla Clint Eastwood. Con un buon senso da Serracchiani, con una coscienza linda da Severn Suzuki?

 

E se la soluzione fosse andarli a prendere con delle barche che non affondano?

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El pueblo en el que nunca pasa nada

Negli ultimi due giorni ho accompagnato i cuccioli (quelli piccoli, 1ª e 2ª) a Miravete de la Sierra. Ieri è successo quasi per caso, in una pausa tra due lezioni, oggi è stata una scelta. Gli occhi si erano accesi troppo forte, le domande erano state pioggia battente. Così siamo tornati per incontrare Providencia, Juan, Timoteo, Ascensiòn, Félix, Carmen, Àngel, Palmira, Bernardo, Josefa, Faustina e Cristobal. Dodici vecchietti di roccia che hanno stregato gli alunni più dei grattacieli metropolitani, delle dighe infinite, dei ponti titanici che mostro loro ogni tanto sul monitor dei computer. Dodici eroi che fanno cose straordinarie tipo “andare a prendere il pane”, “lavare i panni alla fontana”, “giocare a carte nell’unico bar”.

Li abbiamo interrogati ad uno ad uno, imparando i nomi. Abbiamo visitato ogni angolo del paese. Abbiamo canticchiato la nenia che accompagna i visitatori del sito. Abbiamo munto la capra nel giochino annesso. E non è facile, ci vuole mestiere. Il più bravo è stato Giorgio, io l’ho fatta imbizzarrire e m’ha schizzato il latte sullo schermo.

 

(Giocando e divertendoci abbiamo fatto i paesologi, parlando di popolamento, comunità, identità, radici, internet e abile marketing… Personalmente ho pure avuto prova, seppur non riesca a dichiararmene del tutto convinto, della bontà di questa teoria…)

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Il dolore altrui è sopportabile (proverbio ruandese)

Mi sono ricordato del breve romanzo di Tierno Monènembo, Il grande orfano, letto qualche anno fa all’indomani della scoperta – colpevolmente tardiva – del genocidio ruandese del 1994, al tempo del mio esame di maturità (proprio grande dev’esser stata, quella maturità, per non “accorgersi” di un evento simile…).

Il grande orfano

Il libro – concentrato di descrizioni estremamente realistiche – racconta di Faustin, quindicenne come immagino ce ne siano tanti, in Africa. Non mi avevano colpito, lo confesso, l’esistenza grama tra giacigli infestasti di pantegane, merda da mangiare e vista di teste mozzate a colpi di machete. Mi aveva shoccato la normalità di una sessualità precoce e selvaggia. La vita di Faustin viene salvata da una giovane volontaria irlandese, che il ragazzino non smette mai di considerare in questi termini.

 

«Andandosene, mi aveva abbracciato senza badare al mio odore. Rispetto all’ultima volta i suoi seni erano più grossi, più degni di essere palpati e mordicchiati. Indossava un pareo color carne che si confondeva con la sua pelle e aderiva così bene al suo didietro, che ogni volta che faceva un passo, avevo l’impressione che fosse nuda e che la pelle del suo angusto sedere mi fremesse davanti. Mi resi conto per la prima volta che erano tre anni.

Tre anni che non scopavo!»

 

Faustin, nel racconto, ha 15 anni. Certo, è un personaggio letterario e i personaggi letterari, come si sa, possono tutto. No, invece, tutto no. Io non riesco ad immaginarmelo nemmeno in un libro, un umano che avvicina Faustin per educarlo alla castità e ad una sessualità consapevole.

 

Il titolo del post è un proverbio che compare in apertura del libro. E c’entra, eccome se c’entra.

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“…date uno schiaffo ai vostri bambini e dite loro: Questo è lo schiaffo del Papa!”

Che poi a mettere a posto le cose ci penseranno come sempre, ancora una volta i NOMI. Abbiamo avuto un Papa, tanto tempo fa: scomunicatore di rivoluzionari cubani (per loro grande gioia, immagino), elargitore di carezze. Ci tocca in sorte un Papa, ora: scomunicatore di bravi medici, indulgente con i nazisti, spesso cieco davanti alle grida di dolore del mondo. Il primo l’abbiamo chiamato “IL PAPA BUONO”, il secondo va da sé che lo ricorderemo come…

Vabbè, avete capito.

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Cineserie, Stream of consciousness

Shanghai babies

Shanghai b

Stanotte li ho sognati e la prima domanda è “chissà perché?”. Li incrociavo per strada, anche se in quell’istante onirico era l’asfalto di una città molto più normale della loro. La seconda domanda potrebbe essere “dove stavano andando?”. La terza domanda è “perché non me li sono dimenticati?”, i bambini di Shanghai. Quei sei bambini lì, spuntati all’incrocio tra quattro superstrade, tra i grattacieli che in quel punto della città sembrano i denti di un pettine. Quei sei bambini soli, incustoditi – al contrario dei piccoli imperatori pechinesi che avevo incontrato nei giorni precedenti, sempre scortati da una mano di nonno, da uno sguardo di mamma – sgusciati fuori da qualche slum metropolitano dopo un forte acquazzone estivo. “Perché non avevano paura?” è la quarta domanda, ma è fin troppo semplice rispondere: quella era casa loro, erano casa loro quei rumori, quel brulicare di passi, di facce, di frette. In qualche altro posto del mondo avrebbero potuto metterla loro, la paura addosso, ma Shanghai e la Cina non sono luoghi da borseggiatori, da babygang: le gang non le formano nemmeno gli adulti.

Quei sei bambini lì, una banda colorata, una quarantina d’anni a spasso su 12 zampette. Il gruppo si è spezzato, incrociandomi sulle strisce pedonali – tre alla mia destra, tre alla mia sinistra – per poi subito ricongiungersi. Forse quattro di qua e due di là. Io sono rimasto lì, invece, immobile, per qualche istante, fino alla sirena che annuncia la fine del verde e l’imminente arrivo del rosso e di 6000 macchine dalla strada perpendicolare. La sesta domanda, “sarà mica quello il cuore del mondo?”, è la sicuramente la più impegnativa.

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Katalin, un guanto

Nel titolo di prima pagina c’è scritto “donna”, nelle pagine interne – le pagine di nera – si dice più volte “ragazzina”. Sprezzante, il diminutivo: 18 anni compiuti – sulla strada, la strada di un paese che non è il tuo – sono l’età di una persona cresciuta, anche se schiava del racket, anche se schiava di tutti gli uomini del Nord Est. “Ragazzina” tua sorella, caro giornalista.

Nel titolo c’è scritto “dilaniato”, l’occhiello dice “martoriato”. Dice anche “irriconoscibile”. Un corpo, gettato da un’auto o da un camion in corsa, sull’autostrada, e tutta un’umanità a passarci sopra. È capitato a tutti, con la propria vettura: i gatti nessuno si ferma a spostarli dall’asfalto.

La descrizione prosegue minuziosa: la minigonna, gli stivaletti, il giacchino. Ci sta, il giornalista di cronaca deve mostrarci quello che è successo, dev’essere concreto. Poi nella colonna a fianco riassume e dice “abiti da lavoro”. E forse ci sta un po’ meno. Abiti da lavoro: è capitato a tutti, passarci sopra con la propria vettura: il classico guanto spaiato caduto dal camion di qualche squadra di operai.

Katalin era ungherese, mi dice l’articolo che prosegue con il quadro etnico della prostituzione tra Veneto e Friuli: romene (in calo), albanesi, moldave. Le ungheresi, come il guanto spaiato, “sono pure di origine rom”. “Pure”, avete letto bene. No, non bastava esser puttane, son pure zingare. No, questo non c’è scritto, ma purtroppo si capisce lo stesso.

Sputo sul giornale, davvero. Poi lo chiudo.

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Alla gogna

Il giorno prima di leggere un racconto in classe spesso mi metto lì, …non dico davanti allo specchio, e faccio le prove, cerco il ritmo giusto, calcolo i toni, studio le pause. Prima di mostrare un film ai ragazzi lo riguardo da solo con attenzione, segno sul mio quaderno-diario le scene da far notare. Prima di una gita passo ore su internet tra mappe, forum e gallerie d’immagini. Niente di straordinario, quello che bisogna fare per essere un minimo credibili e autoconvincersi di possedere quella deontologia professionale di cui troppo poco gli insegnanti parlano e sono ben lungi dall’aver definito.

Poi a scuola si fa anche altro, e ogni tanto fra le maglie della metodica programmazione del lavoro capita che qualcosa sfugga, capita di perdersi in certe nebbie, di imboccare certe autostrade tra le nuvole, capita di assegnare – poco convinti – un esercizio così.

Per poi vedere gli alunni trasalire e provare imbarazzo (leggi: pietà) nel dover segnalare al prof. la macroscopica topica.

Quella delatrice di Margherita (2ª C) ha deciso di esibire questo mio capolavoro di approssimazione docente inviandomi questo scatto.

sbaglio

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La siore Erminie di Pesariis

La siore Erminie entra ogni giorno nelle mie classi, specialmente nelle Terze. È nata nel 1922 e vive in una meravigliosa località in una vallata vicina a quella dei miei cuccioli e di Scuolamagia. Non ha frequentato nemmeno le scuole elementari, ha partecipato attivamente alla Resistenza, ha sgobbato una vita intera per campi, pascoli e boschi, è vedova, non si sa se abbia figli. Non si sa perché non ce lo siamo ancora chiesto, noi che l’abbiamo inventata.

Sì, perché la siore Erminie di Pesariis è la nostra “casalinga di Voghera”. La persona che immaginiamo ci sieda accanto, a scuola, ogni volta che la nostra scrittura e il nostro eloquio devono essere chiari e limpidi come laghi di montagna. Vale a dire: sempre.

Mi capita spesso di censurare i pensieri più contorti, o il periodare più intorcinato, richiamando la classe al rispetto dell’energica e curiosa vecchina. Le mie spiegazioni, altresì, possono subire degli stop ironici ma perentori: “…e se ci fosse la siore Erminie? Capirebbe?”.

 

La siore Erminie è contro il politichese (e contro l’infamia di tutte le lingue settoriali: didattichese compreso…). La siore Erminie ha sulle spalle una gerla di punti (.) e li usa: le frasi che preferisce sono brevi ed essenziali. La siore Erminie ama la rima fiore-amore e i poeti della poesia onesta, l’unica che rimanga da fare.

La siore Erminie di Pesariis è anche su Facebook ().   

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Trattenere il respiro, fino a scoppiare

A Recife, in Brasile, c’è una bambina di nove anni. Ha un patrigno. Il patrigno abusa sessualmente di lei da quando aveva sei anni. Abusa di lei da tre anni. Il patrigno abusa anche della sorellina della bambina, che ha 14 anni ed è invalida. Ora il patrigno è in carcere. Ora la bambina di nove anni è incinta, di due gemelli.


La bambina ha anche un suo padre, e una madre. La madre spera che abortisca, il padre no.
A Recife c’è un medico che ha preso in cura la bambina, le ha somministrato dei farmaci che hanno procurato l’aborto. Il medico e i suoi collaboratori pensano, come vuole la legge, che non si debba obbligare una donna, e tanto meno una bambina, a mettere al mondo il frutto di uno stupro.
Si sono anche spaventati del rischio che il parto gemellare avrebbe comportato per una bambina di nove anni.

 

C’è un arcivescovo, a Recife – non importa il nome: non c’è il nome della bambina, né del suo violentatore, perché citare quello dell’arcivescovo – che ha scomunicato senza appello il medico che ha aiutato la bambina ad abortire, i suoi collaboratori, e la madre che ha approvato. Non il patrigno, “perché l’aborto è peggiore del suo crimine”. Non la bambina. La bambina non ha l’età per essere scomunicata. Solo per partorire due gemelli. L’arcivescovo ha proclamato – indovinate – che la legge di Dio è al di sopra della legge umana. L’arcivescovo ha tenuto ad aggiungere che l’olocausto dell’aborto nel mondo è peggiore di quello dei sei milioni di ebrei nella Shoah. Peggiore. C’è anche, a Recife, un gruppo di avvocati cattolici che ha denunciato i medici per il procurato aborto: omicidio volontario aggravato, presumo.

 

C’è, a Roma, il Vaticano e, in Vaticano, la Pontificia Accademia per la Vita. Con una gamma di sentimenti che vanno dall’imbarazzo al dolore alla perentorietà, i suoi esponenti hanno spiegato che la scomunica comminata dall’Arcivescovo di Recife era necessaria. Un atto davvero dovuto, come prescrive il Codice di Diritto Canonico. Un sacerdote del Pontificio Consiglio per la Famiglia, a sua volta, ha soffertamente ribadito che “L’annuncio della chiesa è la difesa della vita e della famiglia”. E che i medici sono “protagonisti di una scelta di morte”.


Penso che non si debba commentare tutto ciò. Neanche una parola. Bisogna trattenere il respiro, fino a scoppiare.

 

Adriano Sofri

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Corpo insegnante

Non so se Samu sia il più bravo tra i miei alunni attori; sicuramente è il più consapevole, quello che si prende più sul serio quando sta sulla scena, ed è anche uno che non si tira indietro quando si tratta di versare una lacrima per una storia che valga questo sforzo. Sarà per questo che stamattina ha voluto avvicinarsi spontaneamente e prima di me all’attore vero che lo aveva stordito di emozioni, per stringergli forte la manona con la sua manina, per sussurrargli parole enfatiche e lentissime (volevo proprio dirle che il suo spettacolo mi ha colpito moltissimo…), assurde e spaesate in quel brulicare chiassoso di adolescenti diretti verso l’uscita del teatro.

Dovremmo imparare, noi insegnanti, dagli attori che si esibiscono davanti alle platee dei ragazzi. Da uno come Roberto Anglisani, che monologa per un’ora davanti a 200 alunni delle medie, dando l’anima fino a commuoversi (davvero) per la morte del suo protagonista già morto chissà quante volte e chissà su quanti altri palcoscenici, dimostrando che con la passione non c’è routine che possa scalfire i gesti di un mestiere.

Ripensando alla scuola dei bastoni in condotta, agli insegnanti che non ce la fanno e chiedono al legislatore gli strumenti per ammansire le classi, ecco un adulto che prima di tutto sa di avere una storia da porgere ai suoi giovani utenti, ma sa anche che quelle parole dovranno passare attraverso il suo corpo prima di essere assimilate, se vogliono essere assimilate. Ma c’è dell’altro. C’è un rispetto grande per il proprio pubblico, visibile già nelle battute scambiate sotto la pioggia con i ragazzi, un’ora e mezza prima dell’apertura del sipario, senza che questi lo riconoscessero come il protagonista dello spettacolo cui avrebbero assistito. “Siete già qui, dovete aspettare al freddo, sotto la pioggia… Mi dispiace…”, manco fosse colpa sua.

E c’è quell’applauso finale, respinto al mittente, la platea ancora emozionata che si autoapplaude su richiesta dell’attore. Alla faccia dei colleghi che gli dicono : “Domani reciti per i ragazzi delle medie? Auguri…”.

Persone vive, li ha chiamati, i ragazzi delle medie. Il contrario dei frequentatori del teatro per adulti: un pubblico di morti.

E a quel punto Samu non ce l’ha fatta più e deve aver pensato che quella mano andava proprio stretta.

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Deglutendo a fatica una lattina di Mastro Cola

L’idea di scuola della scrittrice e insegnante Paola Mastrocola è avanzata almeno quanto quella di Benedettodecimosesto in tema di sessualità. Non ne fa mistero il suo articolo di oggi su “La Stampa” a proposito della pioggia di 5 in condotta appioppati agli alunni italiani: l’autrice parla di “scuola disarmata” e della valutazione in termini di “bastone” (???!!!). Ci mettesse vicino almeno la carota, al bastone. Invece no, è proprio il bastone bastone.

Si legge tra le righe la frustrazione dell’insegnante insoddisfatto che in classe incontra ogni giorno dei nemici – e probabilmente è proprio così e il sentimento è ricambiatissimo – ma che invece di porre fine alla guerra più insensata che esista, nel luogo meno adatto, cerca uno strumento di distruzione più efficace, una bomba atomica, una soluzione finale.

Un po’ di filologia. La prof. Mastrocola va a far supplenza in una classe e trova alunni che “deglutiscono liquidi a garganella dalle lattine”. Nelle sale insegnanti, in un momento di pausa, si deglutiscono forse solidi?

Penso alla scuola italiana e quella scena mi fa arrovellare su altre questioni, che vanno oltre le dinamiche di deglutizione. Chi è il titolare di quell’ora di lezione? Perché non c’è? Lo sa Mastrocola che gli studenti italiani hanno imparato a distinguere una malattia vera da una falsa?

Quella falsa ha sintomi chiarissimi, come ha sintomi chiarissimi il disamore per il proprio mestiere.

Fosse soltanto un’insegnante, l’autrice dell’articolo, non mi preoccuperei più di tanto. Il problema è che si tratta di una scrittrice, e una scrittrice non può negarsi l’orizzonte della complessità. Sì, perché nemmeno io probabilmente saprei come fare davanti ad una classe allo stato brado come quella lì, e al mio cospetto a quella deglutizione seguirebbe certamente anche un rutto.

Ne uscirei con alcune domande in saccoccia, però.

Quello che avrei detto a quei ragazzi (Petrarca, il periodo ipotetico, l’unitàd’italia…) è davvero quello di cui hanno bisogno?

Che senso ha che i fondamenti di una cultura di una nazione vengano somministrati sotto minaccia? Non è di per sé questo un fallimento?

Basta per spiegare questa situazione la solita scusa del lassismo sessantottino?

E io: perché non riesco a infiammare quei cuori e quelle menti? Fosse colpa mia? Fosse che non sono all’altezza? Fosse un problema di linguaggio?

Una classe non è una colonna sulla prima pagina di un giornale. Lì ha senso pure pontificare, il lettore è comunque libero di girare pagina, riporre il quotidiano, riderne. Tra in  banchi bisogna lottare a mani nude. Tollerare, certo. Mediare, certo che sì. Scendere a compromessi: è giusto. Sgridare, sempre. Loro sono di più, anche 27 contro 1, tu forse ne sai (almeno dovresti) un po’ di più. Non è nemmeno così impari, la sfida, senza i 5 nelle fondine e nelle faretre.

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