Cineserie, Stream of consciousness

Shanghai babies

Shanghai b

Stanotte li ho sognati e la prima domanda è “chissà perché?”. Li incrociavo per strada, anche se in quell’istante onirico era l’asfalto di una città molto più normale della loro. La seconda domanda potrebbe essere “dove stavano andando?”. La terza domanda è “perché non me li sono dimenticati?”, i bambini di Shanghai. Quei sei bambini lì, spuntati all’incrocio tra quattro superstrade, tra i grattacieli che in quel punto della città sembrano i denti di un pettine. Quei sei bambini soli, incustoditi – al contrario dei piccoli imperatori pechinesi che avevo incontrato nei giorni precedenti, sempre scortati da una mano di nonno, da uno sguardo di mamma – sgusciati fuori da qualche slum metropolitano dopo un forte acquazzone estivo. “Perché non avevano paura?” è la quarta domanda, ma è fin troppo semplice rispondere: quella era casa loro, erano casa loro quei rumori, quel brulicare di passi, di facce, di frette. In qualche altro posto del mondo avrebbero potuto metterla loro, la paura addosso, ma Shanghai e la Cina non sono luoghi da borseggiatori, da babygang: le gang non le formano nemmeno gli adulti.

Quei sei bambini lì, una banda colorata, una quarantina d’anni a spasso su 12 zampette. Il gruppo si è spezzato, incrociandomi sulle strisce pedonali – tre alla mia destra, tre alla mia sinistra – per poi subito ricongiungersi. Forse quattro di qua e due di là. Io sono rimasto lì, invece, immobile, per qualche istante, fino alla sirena che annuncia la fine del verde e l’imminente arrivo del rosso e di 6000 macchine dalla strada perpendicolare. La sesta domanda, “sarà mica quello il cuore del mondo?”, è la sicuramente la più impegnativa.

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