Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Mozione Michael Jackson

C’è stato un tempo – era la seconda metà degli anni ’80, erano gli anni delle mie scuole medie – in cui si trattava di scegliere, di schierarsi. O con Madonna o con Michael Jackson. Bipartitismo perfetto, nessun outsider, per le altre pop star la soglia di sbarramento era altissima. Era il sistema maggioritario applicato alla musica leggera, col proporzionale di oggi qualunque Rihanna col suo 2% ottiene un seggio in parlamento. Allora no, o stavi di qua o stavi di là. E io avevo scelto Madonna. Rappresentava un po’ il nuovo che avanzava, Louise Veronica Ciccone, e tutto il resto noi fan lo consideravamo un avanzo rancido sulla tavola della musica commerciale. Era nuova e trasgressiva, scherzava coi  santi e cambiava look a ogni batter di ciglia. La mia militanza ruotava attorno a tante audiocassettine messe in fila sulla scrivania (alcune originali, tutte consumatissime), ad un poster altare appiccicato sopra il letto e all’idea che Michael Jackson fosse un buffone.

Non ci accorgevamo certo, noi madonnari, del fatto che il nostro idolo fosse sprovvisto di una voce, che le sue doti di ballerina fossero a dir poco approssimative. Non ci facevamo sedurre dal moonwalk e convergevamo compatti verso una che in abiti da maschiaccio si metteva le mani sul pacco. Cedevamo all’inganno di quell’enorme ambizione che poco aveva a che spartire con l’arte e  che probabilmente avrebbe cambiato definitivamente, in peggio, la musica leggera. Chiudevamo un occhio sul talento che soccombeva sopraffatto dal marketing. Votavamo Madonna e non sapevamo di votare per la destra più spregiudicata.

Poi, il resto dei pensieri somiglia parecchio a quello che ho letto qui, e che io così bene non so dire, anche se ricordo le 200 lire nel Juke box e anche se la canzone che mettevo io era un’altra.  

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Res cogitans, Soletta

“Niente” da leggere

I sociologi parlano di “effetto clessidra”. L’idea che sempre più spesso, al mondo, si vada assottigliando il numero degli appartenenti alla cosiddetta “classe media”, in favore di chi sta in alto (i ricchi) e a discapito di chi sta in basso (i poveri). L’antropologo Alberto Salza concorda in linea di massima con la tesi, la trova sostanzialmente efficace, ma decide di cambiare metafora: quella non è una clessidra, quello è un cesso. Sì, perché quelli che sono in alto possono sentire l’aria e vedere la luce, ma a quelli che stanno in basso tocca nuotare nella merda.

È cinico e raffinato, ironico e provocatorio, Niente (Come si vive quando manca tutto, antropologia della povertà estrema, Sperling e Kupfer). E sconvolge e prende a sberle, anche se come me uno ne ha lette per ora soltanto le prime 70 pagine. Ma d’un fiato.

Colpiscono le parole – sentenze – di quelli che non hanno niente, a parte una smisurata saggezza e una grande dignità. Compaiono qua e là, mescolate a teorie economiche e modelli matematici. Pronunciate da pescatori di laghi asciutti e da pastori del deserto.

“I soldi non danno la felicità, figuratevi la miseria…”.

“Lava, lava, tanto non diventerai mai nero come me…”, rivolto all’autore che si toglie di dosso la polvere di un viaggio, nell’Africa dove il bianco è il colore dello sporco.

“Occorre camminare cinque mesi nei sandali degli altri, prima di capire se stessi”.

“Essere poveri è come essere vecchi”.

“Essere poveri significa non avere nessuno con cui vivere”.

“I poveri sono coloro che non hanno accesso alla scuola”.

Frasi così, pronunciate da chi non ha niente ma anche quando parla di miseria non allude mai alla miseria materiale.

Frasi così, dentro un libro con una strepitosa foto in copertina.

Coverbook

 

Oggi è un giorno di scoperte. C’è anche, infatti, questo giovane e bravissimo fotografo.  

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Stream of consciousness

La coppia

Li mettono lungo le strade quando ci sono dei lavori in corso, un tubo da aggiustare, una fibra ottica da sotterrare. Semafori con le ruote. Fratelli minori di quelli che regolano gli incroci, surrogati precari, messi un giorno qua e un giorno là. Usati e caricati in fretta su un camion, sempre in coppia, uno a valle e uno a monte di un senso unico alternato.

Ce n’erano 2 abbandonati, sul ciglio della strada, con i tre occhi puntati sul letto di un fiume di montagna. Erano le 7 di mattina e l’aria era frizzante. Il lavoro sull’asfalto non era più in corso e sembrava anzi che l’avesse già fatto, il suo corso. E loro stavano, lì, uno di fianco all’altro, puntati verso lo stesso niente. Ma accesi, perfettamente funzionanti. E complementari. Uno rosso, il disco più grande, l’altro verde, il disco in basso. Poi viceversa, poi di nuovo. Certo che erano una metafora. Ma di cosa? Oggi ci penso… (della fedeltà? della tristezza? …)

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Pensando a I.

I giorni degli esami non hanno mai molto di magico. C’è sempre qualcuno che va in crisi, che non ricorda, che quella è proprio l’unica cosa che non ha studiato. Capita che scorrano lacrime e finisce che uno se ne senta l’impresario, l’organizzatore. Anche se non è, ma tant’è. I temi scritti all’esame sono spesso di rara bruttezza, anche se a scriverli è un ragazzino o una ragazzina a cui durante l’anno avresti consegnato il Nobel per la letteratura.

Ili

Oggi, mentre vegliavo su equazioni e piani cartesiani, pensavo forte all’alunna I., libera da prove d’esame perché troppo piccola, ma non abbastanza piccola per sfuggire a prove ben più faticose. Un lutto in famiglia, qualcuno che viene a mancare palesemente troppo presto e con modalità che interrogano più di tutte le commissioni esaminatrici che la Gelmini possa mettere in campo.

La piccola I. che non ho mai visto piangere (forse una volta, ma era un ginocchio sbucciato: un altro paio di maniche e di lacrime…), la piccola I. che temevo potesse soffrire la scomparsa del cane Marley, nel libro che le ho consigliato e che ostinatamente, capitolo dopo capitolo, sta cercando di ultimare. La piccola I., forse oggi un po’ meno piccola.

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Il clic prima del clic (ancora su Tiananmen)

Ragazzo

E tutti a chiedersi che fine abbia fatto il ragazzo. Un anno dopo. A cinque anni da. A dieci anni da. A vent’anni da: l’altro giorno. Il ragazzo con le sporte di plastica e la schiena dritta, quello coi capelli neri nel posto dove tutti hanno i capelli neri. L’avranno catturato, l’avranno torturato, sarà fuggito negli Usa, sarà protetto, vivrà sotto mentite spoglie: la solita girandola di ipotesi. E l’ossessione per il dopo, per il “come sarà andata a finire?”.

Ma chi si chiede mai come sia andata a cominciare?

Io sono rimasto colpito questa foto che racconta il prima. Il poco prima, l’attimo prima. Bisogna aguzzare la vista, bisogna “fare caso” tra i due alberi, a sinistra della colonna. La colonna di pietra, non la colonna di carrarmati, pur presente all’orizzonte della piazza. Era già tutto scritto. Il gesto, intendo. Era pensato, ci saranno almeno 200 metri per cambiare idea e l’idea non cambierà, rimarrà la stessa, in quella che non era una farsa (era una tragedia, infatti…) e lo si legge nello sguardo di chi scappa, a piedi o in bicicletta.

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Il mio cantante preferito



Di solito prima degli spettacoli teatrali scrivo MERDA MERDA MERDA. Questa volta lascio che lo scriviate voi… Per quel che mi compete, ovviamente, dopo che avrete ascoltato la canzone che getto nella Pozzanghera… Non certo per il mio compare che ha una voce stupenda ed è stupendo tutto, quando si vede che ha una voglia matta di cantare e gli sembra la cosa più scontata del mondo farlo nell’ora di geografia. Una cosa spontanea, come uno sbadiglio, un dito nel naso, l’aggiustarsi un ricciolo dietro l’orecchio. Chi è Hassiba Boulmerka, la mezzofondista algerina vittima del fondamentalismo raccontata dalla canzone, a lui non importa, e nemmeno chi sia Andrea Mirò che il pezzo l’ha scritto e interpretato.

A lui basta cantare e che io la smetta di provarci inutilmente a suonare contemporaneamente – e male – armonica e chitarra. All’armonica ci pensa lui, dice. Tempo due giorni e le note sono lì, in ordine come i suoi capelli non saranno mai.

Domani forse cantiamo per l’ultima volta davanti ad un pubblico. Io ho appena ripassato il testo, inutile dire che non me lo ricorderò mai. È bellissimo essere sicuro che lui, il mio cantante, sta sicuramente pensando ad altro e non si addormenterà mezzo secondo dopo a causa di una canzone, di una sera di giugno, di una donna che correva contro al vento.

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Prese di posizione

Qualora qualcuno si stesse chiedendo quale sia la posizione ufficiale della Pozzanghera in merito alle circolari ministeriali che trasformeranno i temutissimi 5 in pagella in evanescenti 6 politici, con il conseguente crollo delle speranze dei fautori del pugno di ferro educativo, con il trionfo dei docenti innocentisti, con il dibattito e le lettere ai giornali, con le urla di “allora è tutta una farsa” ecc., il titolare della medesima pozza d’acqua esprime tutta la sua preoccupazione trovandosi sprovvisto di un telo azzurro (al limite blu, 2 x 2 metri) ad uso oceano in una scena dello spettacolo di martedì sera.

Ah, non è tutto. Deve pure ricordarsi di comperare in cartoleria lo scotch biadesivo ché quello della scuola è finito sul più bello.

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Tiananmen e il giorno che metteranno una pezza in piazza

4771b18b2dcd83b5f59e9e3b21051bb2Io in piazza Tiananmen ci son stato 5 volte. In due occasioni era la meta, nelle altre andava soltanto attraversata, come si attraversa un luogo che sta un po’ nel mezzo e ti tocca passarci per forza.

Leggo le testimonianze di chi c’era nel 1989 e mi vengono in mente soltanto le mie impressioni grandi una sciocchezza: gli aquiloni regali pilotati con maestria, i militari di guardia – molto più possenti e accigliati di quelli visti altrove a Pechino, quasi che stare lì fosse il vertice di una carriera di vigilantes – le bottigliette di plastica vuote, per terra, e i vecchietti dalla pelle bruciata dal sole che le raccolgono solerti e quello è il loro lavoro, la faccia grande del timoniere, le statue degli eroi del popolo, la bandiera, l’enorme palazzone del potere, la strada a 12 corsie, la puzza di smog, il  rumore, le vibrazioni al passaggio della metropolitana.

E l’impressione che quello non potrà mai più essere un posto normale, nonostante gli sforzi di normalizzazione, nonostante ai giovani cinesi sia da mesi impedito l’accesso a YouTube e da sempre quello alla verità. Ci vorrebbe forse una di quelle pezze che si mettono in democrazia, un marmo freddo che ricordi: “qui furono barbaramente trucidati…”. Uno di quei gesti contraddittori che accendono i riflettori sulla debolezza dell’uomo e del suo potere, come quando il nostro Stato commemora in uno spaesato cortocircuito le vittime delle tante, delle troppe Stragi di Stato.

Questa sera in cui rivedo gli aquiloni, le statue e le bottiglie vuote di quella grande macchia grigia sulla buccia del mondo, immagino il giorno in cui i cinesi ci metteranno una pezza. Ammettendo ciò che è giusto ammettere e consentendo alla memoria di mettersi in moto con i suoi complicati ingranaggi. Sarà soltanto una pezza, e scusate se non sarà poco. Una pezza in piazza.   

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