Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Teoria dell’abbraccio

«Nelle storie di oggi ci sono quasi sempre queste mamme. Ma io non ho capito bene. Cos’è una mamma? Se magari me lo spiegate…» disse, esitante, dardeggiando sguardi intorno come se avesse paura di essere preso in giro.
Tom sospirò. Ecco, ci siamo, si disse. E adesso, come me la cavo?
Digli la verità, sussurrò una voce dentro di lui. Digli le cose che sai, sono tutte vere.
Ma non me le ricordo, replicò lui.
Sì, invece, insisté la voce. Sì che ti ricordi.
Tom scrollò la testa per zittirla e si guardò intorno. Lo fissavano tutti, in attesa. La luce radente dell’Aster giocava sulle loro facce, accendeva i loro sguardi. Sospirò ancora e cominciò.
«È una donna. Che ti fa mangiare e ti dice delle cose…»
«E ti lascia nel bosco» lo interruppe subito Dudu.
«Non in tutte le storie» osservò Tom.
«No, infatti. In certe muore subito, all’inizio, e ti lascia da solo» disse ZeroSette.
«Ma allora a cosa serve?» s’inserì Hana. «Se poi alla fine, o magari anche all’inizio, ti lascia solo.»
«Non è che serva a qualcosa» spiegò Tom. «È che c’è.»
«Tipo il cielo?» chiese Orla. «Tipo l’acqua, e l’Aster, e le piante? C’è e basta?»
Tom tacque, cercando le parole. «Tutti hanno una mamma» disse infine.

[…]

«Tu ce l’hai avuta?» la domanda era di Hana: difficile, diretta. Tom deglutì, cercando la risposta.
«Credo di sì.» Eccola. La verità. Lo punse, ma solo all’inizio. Poi non sentì più niente. Anzi, sentiva un tepore dentro che si allargava e lo invadeva.
«E com’era» insisté Hana. Tom non ne cercò lo sguardo, ma lo sentiva: indagatore, quasi aggressivo.
«Era… bella. Mi abbracciava.»
«Per fare la lotta?» chiese Glor.
«No. Per farmi capire che mi voleva bene.»
«Allora non ti stringeva troppo» tentò Glor.
«No. mi stringeva giusto. Per farmi star bene. Come una coperta, però viva. Una cosa così.»
I bambini si guardarono. Avevano solo una coperta, nello zaino di Glor, e la poteva usare soltanto chi era malato.
«Ma eri ammalato?» chiese infatti Ninne.
«Ma no… gli abbracci sono per star bene, non per guarire. Per star bene e basta, un giorno qualunque, un momento qualunque…» Tom era confuso. La voce dentro di lui era sparita.
«Mi fai vedere come?»
In un attimo Ninne era in piedi. Fece un passo avanti verso Tom e gli tese una mano.
«Io non…» Tom esitò. Incrociò lo sguardo di Hana, che gli rivolse un segno impercettibile. Prese la mano di Ninne e fu in piedi. Lei si avvicinò, la cinse con le braccia e la strinse a sé.
«Cosa devo sentire?» chiese Ninne dal cuore dell’abbraccio. Aveva alzato la testa a fatica e lo fissava, lo fissava.
«Mah, così cosa senti?»
«Il tuo odore.»
«Ma no. devi sentire qualcosa dentro. Qualcosa che ti scalda.»
Ninne strizzò gli occhi, come per concentrarsi. E poi fece un gran sorriso.
«Mi sa che lo sento… ecco… ecco qui. Ma è bello!»
Orla fu in piedi accanto a lui in un baleno. Gli si avvinghiò al braccio, cercando di allentare la stretta. Gelosa, curiosa. «Adesso fai provare me?»
Provarono tutti, a turno. Erano goffi, spigolosi; la sensazione delle loro ossa appoggiate contro le sue, il calore della loro pelle, l’aroma intenso che si annidava nelle pieghe del collo, di sudore, ma anche di qualcos’altro – qualcosa di buono – lo sconvolse. I piccoli avevano un sentore di frutta sbucciata; Hana sapeva di erbe calpestate. Il grosso Glor rimase per ultimo, incerto, ma alla fine si fece avanti, e si ritrasse dalla breve stretta con un bel sorriso. Alla fine ridevano tutti, percorsi da una specie di euforia che durò a lungo.
E da allora cominciarono ad abbracciarsi tutte le sere prima di andare a dormire.

Beatrice Masini, Bambini nel bosco, Fanucci

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Ma se una radio è libera, ma libera veramente…

Bella davvero, la storia di Paolo. Uno che tutto da solo si costruisce un mondo. Uno che, stufo della monotonia che a volte avvolge il suo paesello, si tuffa nelle rete per cercare una via d’uscita e la trova dentro certi saltelli – ma tanti, mica due o tre – fatti a ritmo di musica. Una tecnica di ballo che ha le sue radici nelle polke russe e in certe danze urbane olandesi, oggi sempre più diffusa nel mondo grazie a YouTube. Ed è su YouTube che Paolo ha imparato ad essere jumper, studiando per ore i vari tutorial messi on line da ballerini più esperti, fino a riuscire ad entrare nella rosa dei primi 4 acrobati italiani della Jump. Roba virtuale, la Jump, ché mica puoi andare ogni giorno a ballare con uno di Roma, ma Paolo parla di fitti scambi di materiali e di idee, di una rete di conoscenze che se non sono amicizie vere davvero poco ci manca.

La sua marcia in più? La passione, certo, ma ovviamente colpisce la novità del primo jumper di montagna. Gli altri, tutti gli altri, nelle loro metropoli saltellano tra un parcheggio e un cavalcavia, sullo sfondo perennemente grigio di cemento e asfalto; Paolo, invece, vola tra prati e cataste di legna, cumuli di neve e scorci di montagna incontaminata. 

In paese qualcuno storce il naso, i giovani sembrano capire meno dei vecchi. Una volta i carabinieri l’hanno pure cacciato mentre registrava uno dei suoi video sul sagrato della chiesa. Proprio vero che la poesia non la capiscono tutti. Ma Paolo tira avanti. E pensando ai passatempi più quotati tra i giovani della sua età, verrebbe da fargli un monumento. Ma un monumento che saltella. 

Radiomagia1
Piccola autosoletta a Radiomagia (qui su Facebook), costola nell’etere di Scuolamagia. Le trasmissioni hanno avuto inizio da qualche settimana. Si è trattato di prendere le misure con una marea di gesti, di affinare qualche competenza tecnologica, di fare – molto sul serio – finta. Ora tra i cuccioli c’è già chi mi chiede (in prima…) cosa ne sarà della radio dopo che lui sarà volato alle superiori, praticamente fra tre anni. E io non so nemmeno se andremo in onda lunedì pomeriggio, il prossimo lunedì pomeriggio.

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Io sto (ma una volta stavo di più) con Emergency

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Mi è venuta in mente una foto. C’è un ragazzino che adesso ha 20 anni e all’epoca era un mio alunno di 12. Siamo all’aperto, in un bosco a 10 minuti da Scuolamagia. Tra le fronde dei pini, quella era una lezione. Una lezione nata in una fase di minor disillusione, in cui “stare con” era più facile, nonostante quell’ ottima causa sia rimasta più che mai ottima. La pubblico, quella foto – chiedendo scusa al giovine protagonista, che però probabilmente non vedrà mai questo post – in memoria di quel tempo semplice, puro, vero. Un tempo bianco con le scritte rosse.

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Classe operaia

Il ragazzino sembra strizzare gli occhi nello sforzo mnemonico. Dopo aver diligentemente preso nota della comunicazione dettata sul libretto personale, deve capire se la madre potrà prender parte alla riunione fissata per un tardo pomeriggio di questo aprile. Riemerge con un dato che è soltanto un suono ma sembra concreto come una tabella stampata nero su bianco, in una lingua antica e forse perduta, tuttavia per lui precisa come un ritmo messo lì a scandire lo scorrere e il sapore del tempo.

«Sì, ci sarà! Quel giorno ha sei-due».

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Almeno le scuse insincere…

Mettiamo che io dica che i Filippi, tutti i Filippi, sono stronzi. Irrimediabilmente stronzi. A quel punto mi accorgerei di aver offeso una marea di esseri umani registrati all’anagrafe con quel nome. Filippo Timi, Filippo Solibello, Filippo Inzaghi,… Forse mi beccherei qualche accidente anche dagli ammiratori del Brunelleschi e dagli amici di Maria De… Filippi, che sono pure tantissimi.
Si dia il caso, però, che ci sia stato un fraintendimento. Con le mie parole, – forti, lo ammetto – mi riferivo soltanto ai coniugi Matilde e Pancrazio Filippi, con il loro figlioletto Gianguido, bavoso stronzetto che mi sveglia ogni notte con i suoi strilli da poppante. I “Filippi”, insomma, la famiglia “Filippi” al gran completo, così come sta scritto sul campanello del loro stronzissimo appartamento.
Però non basta. Se sono una persona civile, ho il dovere di rivolgermi a tutti quelli che si chiamano Filippo, finiti a causa della mia imperizia nel centro del tifone del mio scomposto eloquio, per rivolger loro le mie sentite scuse, sperandoli amici come prima.
È proprio con questo spirito che oggi il Cardinal Bertone si è detto affranto per l’equivoco provocato dalle sue incaute dichiarazioni sull’omosessualità e la pedofilia, che erano riferite unicamente a quei sacerdoti coinvolti nelle drammatiche e scandalose vicende riemerse in queste settimane e per nessuna ragione ascrivibili alla comunità GLBT.

Sì, magari…
Certo che i Cardinali son proprio ignoranti e omofobi.
I punti cardinali, che avevate capito?!? Nord Sud Ovest Est. Soprattutto l’Est.

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Venerato Maestro

Ammesso che si tratti di scegliersi un politologo di fiducia, Edmondo Berselli era il mio. Ma era anche altro, era una lingua da ammirare e perché no smontare e studiare. Mi ero detto: un libro all’anno, quando sono in ferie. Ho tenuto fede all’impegno, negli ultimi 5 anni, pensando che lui avrebbe continuato a scrivere esattamente come io avrei continuato, fedele, a leggere.

Le sue eran pagine di leggera pesantezza o, a scelta, di pesante leggerezza. Sapeva volare lieve su questioni spinosissime e cruciali, senza banalizzarle mai; sapeva altresì dare consistenza di dispute medievali a simpatiche questioni pop, se non addirittura trash. Uno strano caso, il suo, di torre d’avorio purissimo piazzata al centro di una piazza di mercato, popolata e popolana. Morto un politologo di fiducia, ahimè, non se ne fa un altro. Lo si può, al limite, …rileggere.   

 
«De Andrè si ascoltava in silenzio rigoroso, al massimo commentando con sbalordimento certi versi particolarmente riusciti, alcune immagini come quei generali che hanno “cimiteri di croci sul petto”, o roba pesante del genere. Ma interrogato diversi anni dopo sulle ragioni del grande successo post-adolescenziale e liceale di De Andrè, il noto cantautore bolognese Francesco Guccini si era raccolto in una specie di meditazione trascendentale, aveva espirato un fiato molto alcolico e alla fine il suo spirito aveva formulato un verdetto. Inatteso. E clamoroso.

 

De Andrè piace a tutti perché parla della figa.

 

In quell’interno borghese della Bologna più democratica e antifascista, gli astanti erano rimasti drammaticamente sbalorditi. I volti si erano alzati, gli sguardi si erano concentrati sulla barba francescana, cioè di Francesco. Ma dopo un momento di perplessità, un’esitazione, un sospiro, alcuni della componente ludica avevano riconosciuto che nel giudizio gucciniano c’era qualcosa che faceva risuonare la campanella di una verità.

[…]

Mo insomma, pensateci un momento, dice Guccini: vogliamo considerare le belle rime di Via del campo? “Via del campo c’è una graziosa / gli occhi verdi color di foglia / tutta notte sta sulla soglia / vende a tutti la stessa rosa”, e qui secondo alcuni critici saremmo nel campo del simbolismo francese, ma poi alla fine lo dice lui stesso, apertis verbis – perché non dimentichiamoci che ama il latino, Guccini, non De Andrè – lo dice lui, De Andrè, che quella è una puttana. Avete capito bene, puttana: per quei tempi erano parole pesantucce, sostantivi innominabili, devianti, praticamente eversivi, e quindi altamente eccitanti, anche se politicamente non proprio influenti.

E forse vogliamo discutere di Bocca di rosa, soggiunge Guccinius, stappando un’altra bottiglia di Grasparossa di Castelvetro, l’amore sacro e l’amor profano, e lei, quella scriteriata eroticamente anarchica, che lo faceva per passione? Sono questioni di gnocca, diano retta a un cretino, si lascino servire…».

 

E. Berselli, VENERATI MAESTRI, operetta immorale sugli intelligenti d’Italia

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Tacere parole

Ancora parole che non arrivano. Vorrei scrivere di tutto. Tutto quello che mi appassiona. Tutto quello che mi indigna. Tutto quello che mi emoziona. Scriverei di Messi e dei preti pedofili, scriverei del cinema che vedo e della musica che sento. Oggi avrei scritto della donna che ha abortito a Bari con la pillola RU486. Nei giorni scorsi avrei scritto dell’I-Pad e del Pd, di un cane che ho conosciuto e di un panorama che ho visto da un paesino di montagna. Però sto fermo, non pigio sui tastini grigi e mi chiedo perché.
La risposta la trovo in queste righe di Gian Luca Favetto, nell’angolo della rete in cui da qualche mese ha ripreso a tessere trame…

A proposito dei nostri tempi, del parlarsi addosso e l’un contro l’altro, degli schieramenti armati di verità. Tutti usano le parole. Loro sono lì, aspettano, e tu le scegli. Pronunciandole, le chiami in campo, le metti in azione. Dovresti farlo con cura, con attenzione, perché dirle e scriverle ha la sua importanza. A volte – non è così raro – le parole, dopo che tu le hai usate, usano te. Facendolo, ti snudano, ti sbugiardano, minano il piccolo piedistallo che ti sei costruito.
Pensavo a questo, considerando l’abuso, lo strabuso che delle parole si fa, e come esse si vendichino seppellendoti sotto una coltre di chiacchiere, girando a vuoto, perdendo senso e direzione, facendolo perdere a te. Chi con le parole, la memoria, la ragione e i sentimenti lavora, chi ne ha a cuore le sorti, deve essere preciso. Deve usare parole precise. Deve incarnare le parole che dice. La precisione appartiene all’onestà. Accade spesso, invece, che si usino parole per non dire ciò che esse dicono, ma per rinviare ad altro, sviare, evocare un pregiudizio, confermare comode opinioni consolidate. Luoghi comuni e slogan sono preferiti al dubbio e alla messa in discussione. Bisogna portare il dialogo là dove bivacca il monologo.
Il tuo primo compito non è risolvere all’impronta i problemi, ma abitarli e condividerli. Il primo compito è l’ascolto. Nell’ascolto cominciano la condivisione e le soluzioni. Il tuo compito non è la risposta, è ancora la domanda. Si arriva alla risposta insieme, stando nelle parole che si dicono, scegliendole con lealtà. Le parole sono leali. Le parole hanno le ali, volano. Sei tu che le zavorri, usandole come strilli di giornale, urli di propaganda, bavagli. Impedisci loro di raccontare. Di essere.

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Cineserie, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Cortocircuito

Piumetta da qualche settimana lancia in maniera piuttosto solitaria accorati appelli giornalistici: ci dice (qui per iscritto, qui radiofonicamente) in soldoni che un numero infinito di cinesi sta morendo di sete. Sul tema siccità in Cina arriva oggi anche “Repubblica” con una dettagliata corrispondenza del suo inviato. La pagina funziona così: una foto strepitosamente eloquente, una distesa di terra spaccata, due biciclette in cammino cariche di taniche di fortuna, il titolo (“Il grande deserto…”) e il pezzo, 4 colonne, 2 lunghe ai lati, 4 cortissime (3 righe ognuna) al centro. La cornice perfetta per un’inserzione pubblicitaria. Il vero centro della pagina, con il suo strillante arancione.
Noi di questo mondo possiamo permetterci l’edizione vintage del Chinotto, che “ristora le signore, disseta i signori”.

Siccità

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