Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

La casa della musica

Una delle tracce più apprezzate nel mio campionario di prof di italiano è quella che chiede ai cuccioli di immaginare l’interno dell’abitazione dei loro sogni. La settimana successiva alla consegna, di solito vengo travolto da fiumi d’inchiostro che raccontano case abitate da cani di ogni razza, popolate di tecnologie sofisticatissime, dotate di scivoli ad uso scale, arricchite da flipper, piante tropicali in salotto, iguane, trampolini, luci stroboscopiche e schiavi.
Ecco, dovessi svolgerla io, oggi, quella traccia, direi che la casa dei miei sogni è identica a quella dei Pomplamoose. Sì, certo, voi adesso farete finta di conoscerli da almeno due anni, i Pomplamoose, ché sono un fenomeno di YouTube, ché li avete visti in un servizio su Italia 1. Perdonate, ma io ci sono arrivato oggi e per puro caso.
E per puro caso mi sono innamorato della loro casa. Sono anche consapevole che probabilmente non esiste, quell’abitazione lì, e che in quei video c’è del buon cinema e tanta furbizia, ma tant’è. Io vivrei nella casa dei Pomplamoose, e so di dirlo come si può dire “la casa dei Flinstones” o “la casa dei Teletubbies”.
Vorrei inciampare in un basso elettrico, in una chitarra acustica. Vorrei appoggiarmi ad un pianoforte, picchiettare le dita su uno xilofono, scavalcare cavi di microfono al momento di andare in cucina. Appendere la giacca sul charleston della batteria.
Ah, sì, uguale. Però senza videocamere e YouTube.

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Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Manute Bol aveva un nome buffo per un giocatore di basket. In Friuli, almeno, dove la parola “manute” non fa certo pensare a 5 dita che – aperte sull’ovale di una racchetta da tennis – sconfinavano di un bel po’. Manute Bol aveva una storia, tristissima come tutte le storie degli uomini eccessivamente grandi o eccessivamente piccoli, letta ormai molti anni fa in un articolo di cui mi era parso folgorante l’attacco.

«Manute Bol. Alzi la mano chi se lo ricorda. Beh, intanto anche così con la mano alzata, voi quattro non gli arrivate alle spalle, a Manute Bol».

Ricordavo perfettamente l’incipit del pezzo, avevo dimenticato i dettagli della vita che racchiudeva. Scherzi che fa la lingua, sgarbi che fanno i significanti ai significati.
Ieri, intanto, Manute Bol è morto.

 

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C’è PROVA e PROVA

Da lunedì mattina sulla lavagna della 3ª C c’è scritto PROVA. L’ho scritto io. In stampatello maiuscolo. In grande. Poi giorno per giorno i singoli insegnanti ci aggiungono: “di italiano”, “di matematica”, “di tedesco”. E via esaminando. Non c’è dubbio che 5 scritti metterebbero a dura prova chiunque. Però quel termine, PROVA, mi fa pensare, piuttosto, al gusto di spingersi in un luogo nuovo e sconosciuto, all’idea di sperimentare, di testare testandosi. Tutte cose che gli studenti in queste lunghe mattine non fanno. Sotto i loro occhi trovano infatti il più classico dei compiti: la solita minestra ministeriale, la solita traccia, le solite domande. Per dimostrare quello che – nel bene o nel male – han già dimostrato mille volte.

Music

Oggi pomeriggio, però, quattro ragazze e una Prof. hanno ridato senso a quella parola che ho scritto tre giorni fa come faccio ogni anno.
Si sono ritrovate nella stessa stanza e hanno “provato”. Sempre di esami stiamo parlando, ma stavolta si trattava di preparare un brano che verrà eseguito tra qualche giorno in occasione del colloquio orale. Quattro clarinetti intrecciati dentro un allegretto di Handel. Leggo (Wikipedia) che esistono allegretti moderati, allegretti normali e allegretti graziosi. Beh, per usare un’espressione cara a una delle musiciste, quello di oggi pomeriggio era senza ombra di dubbio un “allegretto scompisciato”. Hanno riso di gusto, davvero, tutte, ma hanno soprattutto preso il largo su una nuova strada, una strada difficile di tastini da raggiungere con le dita tremanti, una strada fatta di tempi da non perdere. Si sono avventurate con coraggio, anche se c’era chi le teneva per mano. E finalmente, dopo 3 giorni, in quella stanza si è materializzata una “prova”. La stavo aspettando.

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Insegnare: una faccenda di corpi

Quella dell’insegnante passa per una professione “intellettuale”. Un lavoro di “concetto”, un mestiere da fare con le sinapsi prima che con i polpastrelli. E invece no. Lo sento in giorni come questo, che seguono altri faticosi giorni di fine anno scolastico, caratterizzati da prove e da spettacoli teatrali. Rivedo il “film” e penso che sia invece tutta una faccenda di “corpi”.
C’è quello col quale spartisci il peso del pesante pannello: piccoli passetti lui avanti e tu indietro. Bisogna portarlo laggiù e laggiù è lontanissimo.
Ci sono quelli col sangue di naso, ci sono sempre e sono tantissimi. Sai già che per definizione non portano con sé fazzoletti e non hanno cognizione di come fermare quel fiume che gli ha invaso la faccia.
C’è chi ti chiede se ti può stringere forte la mano per sfogare l’ansia. Ti concedi, e ti accorgi che forse pure funziona.
Ci sono migliaia di pacche sulla spalla, e le tue mani che trascinano lembi di t-shirt per portarli nel posto dove dovrebbero essere.
Ci sono starnuti allergici, rutti di lattina, sudori di maglietta.
Ci sono abbracci, ci sono 5 da battere. E c’è da dare il gomito.
Ci sono teste che si abbassano per un rimprovero, guance che arrossano per un complimento sincero.
Si constatano bellezze, si misurano forze.
Ci sono passi nervosi.
Ci sono sbuffi di sollievo che volano ad altezza di bambino.

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Il tuo sorriso è il mio unico viaggio

Un papà e una figlia. Una figlia che cresce. Un papà, una figlia e l’ultimo giorno di scuola. Dal blog di Maurizio Crosetti, Rimbalzi.

«Il primo giorno di scuola in prima, lei seduta al banco con lo zaino che era il doppio della sua schiena, le caramelle di cartapesta appese al soffitto. Poi il soffio delle elementari, le voci in cortile, Paolo che non c’è più, l’albero con i fiori rosa. E le medie, all’improvviso, lì si va con l’auto, era bello aspettarti al portone come una fidanzata, quanto piove oggi, quanta neve sulla collina, che tiepido questo primo sole del mattino, tesoro non ti sarai vestita troppo poco? E domani, ecco, ti porterò a scuola per l’ultima volta. Il tuo sorriso è il mio unico viaggio».

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La Scuolamagia di Bantianxiao

Si può anche continuare a fare finta. Si può continuare a non parlare del fatto che Scuolamagia – il piccolo luogo senza il quale questa pozzanghera non si sarebbe mai formata – ha gli anni scolastici contati. Si potrà cominciare, a settembre, una nuova avventura fatta di parole e musiche, fantasia, mondo e teatro, e mondo della fantasia, e il gran teatro del mondo. Si potrà, ma sarà per l’ultima volta. A giugno 2011 suonerà l’ultima campanella e tanti saluti. Soffro troppo il qualunquismo e forse sono troppo snob per mettermi a elencare gli sprechi veri del paese, i rivoli di denaro pubblico, le risorse gettate al vento. Ci sarà da lottare, certo, e bisognerà essere in tanti, ma questa volta sarà durissima.

Così, oggi festeggio la Repubblica lasciandomi incantare dalla storia di una minuscola studentessa cinese. L’allieva di una scuolamagia collocata in un villaggio sperduto nella provincia del Fujian. L’allieva, non un’allieva. A Bantianxiao è la sola ad entrare in classe, ogni mattina, insieme ad un maestro dalla faccia austera che scommette sulla brillante preparazione della bimba. E che riceve un contributo per il carburante della moto con cui ogni settimana raggiunge il posto di lavoro.

I cinesi certamente non fermeranno il loro frenetico sviluppo. Nella fattispecie, però, sembrano fornire una lettura originale alla storia della piccola Liu Lian. Il problema non è lei, ma l’assenza di quei bambini che il flusso di popolazione rurale verso le aree metropolitane ha costretto a disertare quell’aula.
La scuola primaria di Bantianxiao, quindi, non chiude. Lunga vita alla scuola primaria di Bantianxiao.

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