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Le canzoni oneste di Giua

In un suo vecchio rendiconto dal Premio Tenco, Gianni Mura faceva le pulci ad alcuni grandi nomi del cantautorato italico. In quell’edizione c’erano Ivano Fossati – “la sensazione è quella di stare dentro un bicchiere di ghiaccio” (!!!) – e Eugenio Finardi – “come stare dentro un bicchiere di miele, e non è certo una sensazione migliore”. Per dire, nessuno è perfetto. E de gustibus non est disputandum, anche. E nemmeno “sputa(na)ndum”, oibò!, come Gianni Mura faceva con Fossati, che algido proprio non è e anzi può darti fuoco quando vuole con due scintille di pianoforte.
Io un giorno ho scoperto le canzoni di Giua e un difetto glielo devo ancora trovare. Certo, sono ancora poche, ma lì è solo questione di pazienza. La notizia è che tra alcuni giorni, il 3 agosto, Giua suonerà nella mia cittadina, lo farà in uno scenario suggestivo (ma che cose banali scrivo: da che mondo è mondo tutti gli scenari sono suggestivi…). Lo farà accompagnata dalla sua chitarra. E la chitarra accompagnerà – mano nella mano – i testi delle sue canzoni.

Giuin

Piccolo bignami, quindi, giusto per rendere l’idea.

«E penso ogni tanto a quello che sono / una cattiva vendetta, un cattivo perdono…»

«Le tue mani conoscono il freddo / e la pioggia che ha intriso i tuoi pantaloni…»

«Belle le domeniche di cicale / a imparare un rumore / al fremito, al desiderio / di mare. / Bella la tua faccia di donna / e il suo gioco di ombre / bella la tua vita non mia…»

«Che nessuno la baci / la tua faccia bianca di cera / e che il tempo migliore ti accompagni la sera…»

«Tagliano i denti tagliano / parole di vetro e i pensieri si sbagliano / tu scrivimi dall’ombra di un foglio / e ti dico che niente, niente / poteva andar meglio…»

«Stoppa gialla, malva, marna, madido / sorte sorta senza calma, ispido. / Sei tu, tremore lucido…»

A scanso di equivoci, Giua non è la musicista da torre d’avorio, la cultrice dei palati fini. Giua si colloca al di fuori dell’eterna lotta tra i fenomeni di nicchia e i fenomeni da baraccone. Giua è il miracolo che si ripete (ma mica tanto spesso, si ripete…) delle canzoni quando sono belle e lo sono in se stesse e soprattutto… arrivano al dunque di un’emozione. Il miracolo della musica leggera, “ma come vedi la dobbiamo cantare”.
In fondo, parafrasando un grande poeta, ai cantautori non resta altro da fare che le canzoni oneste.
Siete tutti invitati a sentire le canzoni oneste di Giua, il 3 agosto a Gemona.

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

La gatta che lecca il gatto per cinquemila anni

Un bel racconto di Gipi, il disegnatore, che fa così…

Fa schifo l’Ipad.
Il mio iPad fa schifo.
Lo guardo, appoggiato sul tavolo proprio sopra un album acquarello trecento grammi al metro quadro, in conflitto aperto con pennelli e penne e blocchi di colore giganti.
Il tavolo da disegno, tavolo, che vuol dire in legno, è tutto intorno, con barattoli e acqua e matite e pennarelli e gomma. Un barattolo. Quello che lavorò come posacenere per anni e adesso (poverino) si è ridotto a contenere pelle di lapis.
L’iPad sta in mezzo e sopra a questo. Nel mezzo.
Io lo guardo e penso: che schifo.
Fa veramente schifo.

(continua qui, e farà meno schifo, poi di nuovo, poi no… e questo è il bello)

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Cineserie, Res cogitans, Stream of consciousness

Ragazzini corrono sui muri neri di città

Alle giornate di caldo tropicale sono seguiti giorni di pioggia battente e inconsueta. Nulla che possa fermare il fiume impetuoso di biciclette arrugginite sulle strade a 10 corsie. Affascinanti e, nella fattispecie, decisamente prive di sistemi frenanti.
Sull’asfalto tutto un fiorire di pozzanghere. Torbide come un cappuccino di Starbucks, quasi navigabili.
E proprio su una pozzanghera, casualmente vicina alla Pozzanghera che sono io, è planato ieri sera un bimbo. Simpaticamente, facendomi schizzare l’acqua addosso, coprendo il ciaf ciaf con un urletto tutto suo, che magari era anche “parola” e “senso”. Adesso arriva una mamma e lo prende a sberle, ho pensato, nonostante il suo gesto non fosse poi tanto grave. Invece non è arrivato nessuno. Anzi, è arrivato lui. Si è fatto più vicino, tendendo una manina come una piccola chela di granchio. E io l’ho presa, anzi ho lasciato che un mio dito si facesse prendere. Ancora due passetti e il bimbo – cinesissimi capelli neri, la maglietta scura, i pantaloncini sotto il ginocchio –   si è aggrappato alla mia gamba sinistra. Stretto. E ha cominciato a chiedere, straziante. Nella sua lingua. E io lì, ad aspettare ancora quella mamma – andava bene anche un papà,  una sorella, una nonna – che ormai era chiaro non sarebbe mai arrivata. Hanno dovuto farmelo capire, che il bimbo era solo e che chiedeva denaro agli occidentali di passaggio. Da solo, ho quindi visto che altre creature come lui erano pronte a fare lo stesso, nella città che a questo punto non riconosco più.
Nelle precedenti esperienze pechinesi non avevo mai visto nulla di neanche lontanamente simile. Oggi la città sbandiera la sua nuova ricchezza ma anche un rovescio di medaglia che la fa somigliare ad una calviniana città invisibile. C’è una Pechino che si veste bene, che si veste meglio, che sfreccia su auto di lusso, che cena al ristorante, che prende l’aereo e va a girare (comprare) il mondo. Ma c’è una Pechino che nel 2006 e nel 2008 mi era sembrato non ci fosse, anche se al prezzo salato delle privazioni che si sanno. Una Pechino che arranca, che non tiene il passo, che non ce la fa. E dimentica i suoi figli tra le pozzanghere.  

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Cineserie, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Figuraccia uruguagia

A Pechino ci sono 40°. Virgola sette. Quaranta uno li sopporta anche, è il virgola sette che spezza le reni. Cammino per strada aggrappato ad una coppetta gelato (mango e melone, n.d.r.) e vengo avvicinato da una giovane creatura dai biondi capelli. Prima che dal suo corpo vengo travolto dal suo accento americano, fatto di uanna e gonna. Un po’ capisco, un po’ mi perdo. La tipa parla troppo fast e poi devo gestire mango, melone e solleone, che sembra facile ma facile non è. Una cosa è evidente: questa mi sta riempiendo di complimenti. Si sta felicitando. Indossa un tailleur bianco, non sta sudando (!?!) e si rallegra con me, con me in quello stato (mango, melone ecc…). Un’altra cosa è evidente: questa pigliaperil. Sì, sì, dall’alto del suo essere una superpotenza planetaria, la biondina pigliaperil. Ricomincia: “Good luck!!! Good luck!!!” Così è troppo. Raccolgo il poco orgoglio non ancora disciolto, mi giro dall’altra parte e levo il disturbo. In direzione della direzione in cui non mi devo dirigere. Fa niente, quando ci vuole ci vuole. Faccio in tempo a vedere la faccia sorpresa e vagamente dispiaciuta. Addio, stronza di una yankee.
Giro l’angolo, faccio pochi passi. Mi specchio nella vetrina di una sorta di agenzia immobiliare. Vedo il sudore, vedo il mango, vedo il melone. Vedo soprattutto la maglietta che indosso: la bandiera bianco celeste sulla spalla, la grande scritta URUGUAY.

Uru

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Beijing mia, portami via…

Mali
Eccomi qua, sono veduta a vedere lo strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi. Sembrava dire questo, la Grandecantante sul palco sotto le stelle. Camminava dinoccolata, padrona di un mondo, lei da sola. Gli altri tutti sotto, piaccia o non piaccia. Sapeva di meritare quel posto, di esserci tagliata. Come fosse stata la musica a scegliere lei e non viceversa. Classe e mestiere, genio e tecnica, faticosa applicazione e dono di natura: tutto insieme, fuso, senza finzioni e artifici.

Veniva voglia di cantare, di camminare nella scia di una canzone. Cantare protegge, cantare è contagioso.
Scelgo canzoni da viaggio e preparo una partenza. Nei pochi mega liberi ci riinfilo anche la Grandecantante. Poi sistemo i libri: le poesie di Gianni D’Elia, il saggio di Edmondo Berselli, il viaggio di Valeria Parrella, l’inchiesta di Gabriele Del Grande. Manca un romanzo, nessuno mi ha sedotto al punto di entrare in valigia. Succede.
A presto.

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