Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Nei panni, almeno un po’…

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Siamo in sei. La 3ª C e il sottoscritto. L’incontro con l’esperto è finito e ci sono due ore da far passare prima che il pullman di linea ci riporti nel paese di Scuolamagia. Decido di condurre la mia truppetta lungo un percorso naturalistico arricchito da alcune istallazioni artistiche. Sono belle, anche se un po’ acciaccate dopo gli schiaffoni dell’inverno. Dal bosco ci accorgiamo che mancano un paio di chilometri al paese successivo, anch’esso sede di un analogo posto di fermata per la corriera delle 12.03. Non ha più senso tornare indietro, e continuando magari ci scappa pure un bignè offerto dal prof. nella pasticceria dovelifanbuoni.
Siamo costretti a ritrovare l’asfalto, e una carreggiata che si restringe. Zero marciapiedi e vetture che sfrecciano. Nasce naturale una fila indiana, che si allunga presto complice il sole che picchia durissimo. Ciondoliamo svogliati. I sorrisi scalano un paio di marce. Poi Cami ci gela tutti e ce ne restiamo zitti, fino alla pasta con le mandorle. (Ché i bignè eran finiti.)

«Siamo come quelli di Lampedusa…»

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Avvelenata lampedusana

Qualcuno gli dice “vai” e Giacomo entra nel video. Si siede su una sedia da giardino, sopra una terra brulla e ventosa. Terra d’isola e vento di mare. Poi Giacomo imbraccia la chitarra e canta la sua rabbia. Un’avvelenata lampedusana. Che dice tutto quello che c’è da dire. In Tv l’altra sera Vittorio Feltri li ha chiamati per 3 volte LAMPEDUSIANI. Magari aveva ragione lui e si può dire anche così, non ho voglia di perdermi tra le accezioni dei dizionari. Preferisco leggere quel suono come il nome di un popolo alieno. Un popolo che assieme a suo fratello, il popolo tunisino, sta vedendo su quell’isola cose che noi umani…

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Il venerdì delle ragazze

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Venerdì la mia biblioteca di montagna ha festeggiato 8 anni di vita, ma era il 25 marzo e l’anniversario che avevo in testa, nonostante il brindisi col the alla pesca e la fetta di torta al limone, era un altro. È bello sempre, il clima nella mia biblioteca di montagna. Venerdì lo era quasi troppo, quasi da vergognarsene. C’erano ragazze che pensavano a che regalo fare per il compleanno di altre ragazze, c’erano ragazze su Facebook, c’eran ragazze che dovevano andare via prima della chiusura, rammaricandosene, salvo ricomparire, dopo pochi minuti, sulla chat di Facebook. C’erano ragazze un po’ più grandi con il cagnolino appresso, c’erano ragazze che ridevano su YouTube insieme a Paola Cortellesi che registra lo spot di Magica Trippi. C’erano ragazze dappertutto, e chissà dov’erano i maschi, venerdì 25 marzo. Forse al campetto, ora che la neve pare essersi sciolta anche lì. Ce n’era una, di ragazza, che esigeva non uno ma 7 pennarelli per disegnare un arcobaleno. Forse era destino che fossero tutte così ragazze. Un anno fa è morta Marta Lunghi, ventiduenne bibliotecaria volontaria. Per le ragazze ed i ragazzi del suo paese. Perché potessero leggere, ma anche perché potessero disegnare arcobaleni e ridere di gusto. Fu atroce, quella morte italiana. Inscatolando uova, il suo lavoro precario, in nero, per 5 euro all’ora. Se ne ricordò il Presidente Napolitano, di Marta. Lo fece il Primo Maggio del 2010 e io la conobbi così, dalle parole del massimo rappresentante delle Istituzioni. Dovrebbe essere anche questo, la politica, e per favore smettetela di ridere…  

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Soletta, Stream of consciousness

La repubblica di un solo giorno

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Lucio, che ci lascia le penne. Aurelio e Ranieri, che vengono dal nord. Maddalena, soprattutto Maddalena. Ragazzi dell’800. Ragazzi del Risorgimento. I ragazzi del nuovo romanzo di Ugo Riccarelli, scrittore come ce ne son sempre meno. Un libro per festeggiare i 150 anni, diverso da tutti quelli che popolano in questi giorni gli scaffali, dagli instant-book alle facili raccolte di date, luoghi e presunti tasselli d’identità italiana. Diverso e migliore perché conduce proprio lì in quel crogiolo, e fa bere il succo di quelle speranze, di quel (dis)incanto.

Però Maddalena non può aspettare. Lo prende per le spalle, lo volta verso di sé, lo fissa negli occhi. Vorrebbe raccontargli di Lucio, del suo sangue che ancora ha sul vestito, del dolore di sua madre, e di Costantini che è ancora vivo, e forte, e arrogante, di quello che lei vorrebbe non finisse come invece sta finendo la repubblica di Roma. Vorrebbe sapere se ci sarà un posto per loro due da qualche parte, un posto dove star tranquilli e abbracciati, in quest’Italia che ancora non c’è e che lei non riesce nemmeno a immaginarsi. Vorrebbe soltanto che lui allungasse una mano, facesse un gesto, qualcosa per sciogliere l’angoscia che adesso l’attanaglia.
Lo tiene fermo per le spalle e tenta di parlargli, ma dalla sua bocca esce solo un: “Ranié…”.
Lui la guarda fisso, deciso, come sempre.
«Ho saputo, Maddalena, e la sua morte mi peserà sempre nel cuore come una pietra» le dice.
Lei ha un tremito, una scossa con la quale il suo corpo tenta di allontanare l’immagine terribile della morte.
«Combatteremo anche per lui, fino all’ultimo sangue anche per Lucio, te lo giuro.» Mentre parla Ranieri le stringe le mani come per convincerla, le spiega ancora della bellezza per cui son morti in tanti, della repubblica, della democrazia.
Maddalena ha un gemito.
«No, Ranié» riesce appena a sussurrare, perché adesso non vuole nessuna repubblica, nessuna democrazia, ma soltanto un abbraccio che la rassicuri nell’amore in cui ha creduto nei giorni appena trascorsi. Sta annegando, Maddalena sta annegando sul sentiero dei bastioni, ora maledice l’incapacità di trovare le parole giuste per spiegargli quello che sente. Prova, biascica qualcosa.
«Ranié, sei tutto quello che ciò.»
Lui sorride. Allunga una mano in una carezza, ma è distratta, ché gli occhi suoi vanno oltre quelli di Maddalena, cercano qualcuno, qualcosa, mentre l’altra mano serra saldamente il moschetto.
Allora lei lo vede, vede il proprio amore come un bambino preso sotto le ascelle da Ranieri e appoggiato al muretto, che stia buono ad aspettare, perché prima di lui, prima degli abbracci e delle promesse, dei sogni fatti insieme e dei baci, prima di ogni futuro c’è la repubblica da difendere adesso, e la guerra da fare contro i francesi.
Maddalena sta annegando.
«Nun te ne anna’» riesce a dire con la gola piena di lacrime.
Ma Ranieri ha già le mani nella cassa delle munizioni.
«Dobbiamo combattere fino in fondo, amore mio, perché tutto quello che abbiamo fatto non sia stato inutile» le dice.
Si avvicina, l’abbraccia, le posa un bacio leggero sulle labbra e poi raggiunge di corsa gli altri che stanno salendo verso i bastioni.
Le parole sono uscite dalle bocche, si sono intrecciate davanti a loro come in un ballo. Quelle di Maddalena portavano il peso delle risate di Costantini, tremavano di paura e desiderio, desiderio di fuggire dall’angoscia per farsi abbracciare, farsi coprire dall’amore come da un mantello.
Le parole.
Le parole belle di Ranieri, parole che lei, prima, non aveva mai sentito. Le mani, piuttosto. Di mani ne ha conosciute tante. Mani che frugano e stringono. E bocche. Bocche che annaspano e cercano, braccia che imprigionano. E zoccola e puttana, i suoi nomi.
Le parole di Ranieri sono state per lei come le sue carezze: leggere e dolci, fresche e brucianti insieme. I suoi occhi parlano, ha pensato più volte mentre lo abbracciava nell’amore. Le sue parole sono occhi.
Ma oggi, sulla salita che porta ai bastioni, le parole che sono uscite dalle bocche e si sono intrecciate davanti a loro in un ballo hanno creato una danza falsa, storta, mal riuscita. Di fronte all’angoscia sua, che non era un minuetto ma un passo pesante, uno zompo, le parole di Ranieri non hanno avuto occhi. Pulite, cortesi e appassionate come sempre hanno spiegato tutte le ragioni e l’urgenza della politica. La repubblica e l’ideale hanno condito il loro amore assieme ai baci e alle carezze, e lei ha sempre accolto e ammirato ogni cosa con tenerezza e tremore.
Ma oggi è stata Maddalena a voler parlare, portare a Ranieri il cesto pieno di ansia che l’affogava, così che lui l’aiutasse a separare l’erba cattiva, i funghi avvelenati, le ciliegie marce e l’ortica pungente. E invece, mentre cercava di vuotare di fronte al suo amato il peso di quel cesto, ha capito che le parole di Ranieri andavano da un’altra parte, uscivano da lui distratte e non l’abbracciavano né la carezzavano, non erano aperte ma chiuse, andavano di fretta, rivolte alle mura e a quello che occorreva per difenderle.
Così dal cestino è salito l’odore marcio del dubbio, e quello acre della gelosia, per una guerra più importante di un bacio, di una voce, di un respiro affannato, per una politica grande come tutta Roma e più forte di qualsiasi abbraccio di una donna innamorata. E mentre lo ha stretto, Maddalena già sapeva che non stava abbracciando più nulla, che tutto era già salito verso i bastioni e così ha avuto un altro dubbio, che quell’amore forse non sia mai neppure esistito. Che lei si sia soltanto ubriacata dello spirito di parole che le hanno regalato bei giorni, pieni di una speranza vana, e guardando Ranieri che scappa verso la guerra ha capito di essere sempre e ancora Maddalena la puttana.

Ugo Riccarelli, La repubblica di un solo giorno
 

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La fine del mondo a pag. 12

A quelli di Terza piace fare la rassegna stampa. Proprio come in Tv: evidenziatore in resta e frusciare di pagine. Cami ha chiesto “La Repubblica” e si è immersa nel racconto – quasi epico, quasi macabro – dell’inviato Visetti. Giorgio ha voluto “L’Unità”, piccolo formato ma grandi dilemmi nucleari. Debora, sul “Messaggero Veneto”, ha seguito le tracce di una presunta donna friulana sperduta sul suolo nipponico. Ili non è andata oltre la prima pagina, leggendo e sottolineando, ma, si sa, il “Corrierone” è denso e corposo. E Anna? Anna, non senza qualche imbarazzo, mi ha fatto notare che il suo, di giornale, quello tra i tanti capitato tra le sue mani, dei fatti giapponesi proprio non dava conto. In prima pagina c’era un signore dai tratti non certo orientali (Santoro!), continuando a sfogliare ci si imbatteva nella Gelmini, che loro, i miei alunni, chiamano “Germini”, fin dai tempi di un lapsus freudiano di Cami, in altri signori (Fini, Bocchino), in un ciccione (Ferrara) e ovviamente nell’incerottatissimo Premier.

Poi no, eccolo, in effetti, il Giappone. Trattasi di “esteri”, la pagina giusta è la 12. E poi ecco anche la 13, si vede che il direttore aveva deciso di strafare.
Il titolo del primo pezzo – ripeto: pag. 12 – un altro capolavoro: LA FINE DEL MONDO…
E io che davanti all’edicolante mi ero imposto una sorta di par condicio da bravo insegnante pressappoco super partes
Merda.
Giornale di…
Direttore di…
Mondo di…
Fate voi.    

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Lettera a un killer

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Gentile Makkox,

la sua matita elettronica è straordinaria. Le sue vignette sono epifanie. Fanno svoltare una giornata, le danno senso e ritmo. Raccontarle agli altri è la sfida più bella, soprattutto quando non c’è il computer a portata di mano e si sta magari passeggiando all’aria aperta. E quando le vedono senza vederle, gli altri, ridono di gusto… C’è Fini impettito di profilo, immaginati Berlu di spalle, gambette tarchiate aperte, c’è Bersani ingobbito, maniche tirate su, c’è un Padano svampito, c’è Ruby, c’è questo e c’è quell’altro.

Inizialmente a colpirmi era il tratto. Mi ero convinto che a Montepulciano avessero celebrato anche il funerale delle vignette, insieme a quello di Andrea Pazienza. Mi sbagliavo.
All’inizio è stato il tratto, dicevo. Poi ho capito che il segreto sta nella lingua. Una lingua meravigliosa. Una lingua così piena, densa, grassa, colorata, esplosiva.

Ma mi appropinquo al sodo.
Le scrivo come si scrive ad un killer.
C’è un politico padano delle mie parti, il capogruppo regionale della Lega Nord del Friuli Venezia Giulia, che oggi ha dichiarato quanto segue:

«La Prefettura di Pordenone sta cercando spazi per ospitare immigrati libici sul territorio in strutture private, ma noi non vogliamo questa gente: si costruiscano dei campi lavoro in Aspromonte, da noi i libici non devono arrivare»

Le chiedo semplicemente di uccidere quest’uomo con la satira. Come sa fare lei. Di scorticarlo come si fa coi conigli. Di scherzarlo brutalmente. Di irriderlo. Di giustiziarlo, di fare giustizia.
Sono davvero disposto a pagarLa, mi dica lei quanto. La cifra non è un problema. Faccia presto, però. Ho letto alcuni interventi pubblici della vittima e mi creda, ha già fatto molto male alla civiltà.

Grazie per tutto il lavoro sporco che ci pulisce.

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