Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Un’idea per l’Invalsi: la Grammar League

Grammar
È finita la Grammar League 2010-2011 a Scuolamagia. Il trofeo viene portato in trionfo per i corridoi, a ricreazione. I pronostici della vigilia sono stati rispettati, ma per avere un vincitore, in 2ª C, abbiamo dovuto attendere l’ultima giornata. I cuccioli a scuola a volte la sanno fin troppo lunga e sono in grado di inchiodarti ai paradossi del tuo mestiere. Sanno dirti che la lezione in cui hai fornito chiare spiegazioni su che cacchio stava succedendo a Lampedusa è molto più utile di quella in cui li hai introdotti al mistero del complemento di causa efficiente. Puoi menargliela con i processi logici, con l’idea che mentre loro non se ne accorgono l’analisi di quei pezzi di frase permette l’attivazione di nuove meravigliose applicazioni nel loro software cerebrale, ma non funziona: quella roba rimarrà un’imposizione. Una cosa contro cui nemmeno protestare troppo, ché prima o dopo ci son passati tutti, anche Berlusconi e Gattuso, anche Fabri Fibra e le Veline. Però: di divertirsi, o almeno non crepare di noia, non se ne parla. E hanno ragione.
Tuttavia, quest’anno c’era la Grammar, con le sue 14 giornate e con le 10 frasi da affrontare ogni volta contrapposti ad un compagno diverso. N° 1: analisi corretta per entrambi, zero a zero. Analisi fallita per entrambi, niente di fatto. Se uno dei due la imbrocca: goal, 1-0. Palla al centro, sotto con la n° 2. E avanti. Ne è nata una piccola epica, quella di un lungo campionato perso per colpa di un complemento di termine sbagliato. Una specie di rigore calciato alle stelle a una giornata dalla fine. Non sono mancate le polemiche, come quando l’arbitro (io) ha letto P.N. (predicato nominale) dove forse c’era scritto, ma male, P.V. (predicato verbale). Una svista, succede, ma capace di fare la differenza tra un terzo e un quarto posto.

E si è scorto pure un pizzico di malinconia, per l’alunno arrivato secondo e soprattutto in procinto di trasferirsi in un altro paese, dotato di scuola ma probabilmente privo di una settimanale competizione grammaticale. Un luogo piacevole, dove il complemento oggetto è rotondo per tutti.

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La leggenda della chitarrista sull’oceano

C’è un mercante illuminato, in Italia, che ha deciso di portare un po’ di amici a New York partendo da Genova. Constatata la presenza di un oceano nel mezzo, si è affidato ad un navigato navigatore, forse il più esperto a cui poteva rivolgersi. Ha convocato una piccola ma composita ciurma e ha deciso che a bordo si sarebbe parlato del futuro e di come navigare anche su quello.

Siccome, si sa, una nave è fulmine torpedine miccia scintillante bellezza fosforo fantasia molecole d’acciaio pistone rabbia guerra-lampo e poesia… il mercante ha voluto nel suo equipaggio la mia cantautrice preferita. Una ciliegina sulla torta a vela. Da qualche giorno – al mio risveglio, 5:18 – mi connetto e guardo un orizzonte che non finisce mai, scruto la consistenza delle nuvole, ascolto il vento, immagino una rotta, penso che – aiuto!!! – quella barca è una briciola di legno dentro a tutto quel blu. Un giorno di questi, lo sento, tra le schiume incrocio una balena.

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Le rose che non colsi, stavo facendo una prova Invalsi

Prove oggettive. Crocette. O A, o B, o C, o D. Deciditi, la risposta corretta è soltanto una. Maggio 2011, tempo di Prove Invalsi. Gli studenti italiani sono sotto la lente di un microscopio. La scuola italiana li sta misurando. Tra qualche mese usciranno i risultati della faticosissima impresa, le classifiche saranno pronte, le regioni messe in colonna. Una avrà vinto, alcune andranno in Champions, molte vivacchieranno a centro classifica e ci saranno pure gli sconfitti, anche se non retrocederanno.
La meritocrazia è partita dal basso. Tra pochi anni il paese sarà gestito dai cittadini migliori secondo specchiate procedure di selezione. Ecco, questo è il motivo per cui le Prove Invalsi mi fanno ridere.

Adesso vi spiego perché mi fanno piangere.
Prendiamo una storia. Non è una storia qualsiasi, è una storia che è entrata di prepotenza nelle aule di tutti gli ordini di scuola. Enaiatollah Akbari ha raccontato a Fabio Geda la sua incredibile vicenda personale. Ne è nato un libro bello ed efficace, un passaggio da Fazio ha sparso la voce. Quella è una tragedia greca, ma anche turca e afghana, iraniana e italiana. Il mondo è stretto dentro tutto quel peregrinare tra un deserto e un mare, tra una città libera e una città assediata. Un prof. un’occasione così non se la può lasciar sfuggire e infatti Nel mare ci sono i coccodrilli è entrato in una marea di classi italiane di ogni ordine e grado. E piace, e interessa, e appassiona. È bello quando a scuola entrano le passioni. Però a scuola stanno entrando subdolamente anche le Prove Invalsi, che sono perfette per riconoscere gli Speedy Gonzalez della logica, gli alunni dal ragionamento rapido ed efficace, ma sono inevitabilmente nemiche di altre importantissime caratteristiche degli studenti. Che infatti non riescono a far emergere e di cui – semplicemente – fanno senza. Cosette da niente come la capacità di ragionamento, di astrazione, il senso estetico, il senso critico, la sensibilità umana. Immisurabili, per loro natura. Per nostra fortuna.
La scuola si sta invalsizzando, dicevo. Ho in mano un’antologia, nuova fiammante, pronta per essere adottata in una scuola secondaria di primo grado. Chi si vede a pagina 34? Enaiatollah Akbari, manco farlo apposta. Purtroppo è soltanto un piccolo frammento di quella storia, ma ai lettori male non può fare. A far male sono le domande poste in calce al testo. Made in Invalsi, neanche farlo apposta.
Oggi sono lungo, seguitemi in medias res.
Scrive Fabio Geda:

«Ecco. Anche se ti dice [tua madre, n.d.r.] cose come queste e poi, alzando lo sguardo in direzione della finestra, comincia a parlare di sogni senza smettere di solleticarti il collo, di sogni e di desideri – che un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci, e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto, a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena – be’, anche se tua madre, mentre ti aiuta a dormire, dice tutte queste cose… ecc. ecc.».

Fino ad arrivare alla parola che è nell’aria da almeno 20 righe: addio. Una madre che ti dice addio, senza dirti davvero addio, mentre tu hai 10 anni e sei convinto che quella sia una sera come le altre.
Ma non divaghiamo e anzi, concentriamoci.
Ecco il quesito Invalsi.

La mamma, parlando, non smette di solleticare il collo di Enaiat. Perché lo fa?

A. Vuole far ridere Enaiat con il solletico.
B. Vuole farlo addormentare in fretta.
C. È un modo per accarezzarlo e dimostrargli affetto.
D. È un modo per dirgli addio.

Io mi arrendo subito. Per me son tutte vere. Oppure lo sono una alla volta. Oppure lo sono a coppie. Oppure nessuna. E soprattutto: perché bisogna sbilanciarsi? La prima sembra la più fragile, ma che male ci sarebbe se la madre si fosse limitata a provocare il piacere giocoso di un solletico? E se quella donna avesse voluto davvero che il bimbo si addormentasse (B) per interrompere lo strazio di quella sorta di congedo? E non è forse quella una dimostrazione d’affetto (C)? Qualcuno all’Invalsi è in grado di negarlo? E non fa parte, quel gesto, di un tragico e doloroso rito di addio (D)?

Sento puzza di polvere da sparo. Hanno sparato alla letteratura. E alla molteplicità delle opinioni. E alla dignità dei punti di vista. Una strage.

Resto lì, come l’asino di Buridano. Mi lascio morire, faccio obiezione di coscienza. Chiedo venga interpellata direttamente la madre del racconto, peraltro ancora viva in qualche remota provincia afghana, affinché riveli il vero significato del suo gesto. Fino ad allora nessuno osi procedere con le classifiche di merito da stilare.

Rido ancora, è un’altalena tragicomica.
Ripenso infine all’alunno che uscendo dall’aula, qualche anno fa, dopo una di quelle prove, dopo aver visto i compagni cimentarsi con calcoli e ipotesi di cui non era stato capace (brillava, eccome se brillava, quel ragazzo, ma di altre altrettanto importanti luci), mi guarda e mi dice sconsolato:

«Oggi ho capito di essere stupido».

Sa essere carogna forte, la meritocrazia.

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La marcia su Roma, pranzo al sacco

Tori 1

Raramente giudico il lavoro dei colleghi. O meglio: lo giudico ogni 7 secondi, ma evito con cura di rendere pubbliche le mie elucubrazioni. Ogni situazione è diversa, sono diversi gli approcci e le storie personali. Nessuno ha la verità in tasca e quindi spesso è meglio starsene buoni buoni nel proprio cantuccio. Capita di sentirsi migliori? Capita, ma quello è un sentimento da stivare in fretta, passando oltre. Capita pure di sentirsi peggiori, va da sé: nella stiva c’è un angolino ad hoc ed è preferibile frequentare quello.
Oggi fatico a trattenermi. Ho casualmente incrociato la circolare di una scuola che non è la mia, emanata alla vigilia di un viaggio d’istruzione. Ho strabuzzato gli occhi dinanzi a una sterminata lista di infrazioni comportamentali che il documento in questione intende scongiurare. Il catalogo di ogni possibile scelleratezza che un adolescente possa commettere. Con degli sconfinamenti nell’integralismo puritano: il divieto di indossare “magliette sbracciate e pantaloni troppo corti” (rivolto a tutti o solo a una fetta degli utenti?), il bando di un’eccessiva quantità di indumenti e dei cosmetici (e ridaglie…). L’uso del cellulare: poche e brevi telefonate, essenziali. Richieste sulla disposizione nelle camere d’albergo? Non se ne parla, poche storie e posti stabiliti d’ufficio. Andare in cesso sul treno: solo previa autorizzazione dell’insegnante.

E buon divertimento. No, buon divertimento non c’era scritto. C’era scritto invece che i trasgressori, dopo essere stati prontamente denunciati ai genitori competenti, saranno rispediti a casa (600 km…).

Reduce dalla mia gita torinese, consapevole che la responsabilità di un insegnante è cosa seria, che un numero maggiore di alunni (ma mica poi così tanto maggiore…) comporta una proporzionale crescita delle responsabilità), penso all’unica raccomandazione fatta ai miei “terzini” alla vigilia della partenza. Le regole, in fondo, sarebbero state quelle di sempre, soltanto portate in trasferta. La questione seria era un’altra.

«Mi raccomando: ricordatevi delle caramelle al piscio di gatto!».

Le ha portate Camilla, alla fine, ma io ho infilato comunque un pacchetto di Ricola al Sambuco nello zaino.
Coi ragazzi di oggi, non si sa mai.

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Il film che mi ha guardato

After

L’estate scorsa, a Pechino, uscivo dal grande compound che mi ospitava e la prima cosa che incrociavo con gli occhi, prima di immettermi nella strada brulicante, era un grande manifesto affisso vicino alla fermata degli autobus.
Era la pubblicità di una pellicola in uscita e il pensiero, ricordo, era quello di far diventare un pezzo su questo blog la strana sensazione che veniva a crearsi. Abituato come tutti a guardare i film, mi trovavo nella paradossale situazione di ESSERE GUARDATO DA UN FILM. Gli occhi di quella bambina sul manifesto, non c’erano dubbi, mi puntavano con intensità qualunque fosse la mia direzione, qualunque fosse il mio umore, avessi o non avessi fretta. Mi inchiodavano alle responsabilità di possibile fruitore di quel film, mi invitavano allo sforzo di non rendere vani la fatica di quel lavoro grafico, la perizia di quell’inquadratura, la potenza di quella storia.
Aftershock, del regista Feng Xiaogang racconta la tragedia di Tangshan, la città colpita da un terribile terremoto nel 1976. Alla fine ci sono proprio dovuto andare, a vederlo, in un multisala della capitale cinese. Ma ho preferito sempre pensare di essere stato io ad essere cercato da quel film e da quegli occhi. Prima di rientrare in Italia, ho scattato una foto a quel manifesto, rimasta stivata nel computer, e mi sono ripromesso di scrivere del film che mi aveva guardato, contraddicendo la banale logica che sottostà alla magia del cinema.

Oggi pomeriggio, a Udine, nell’ambito del Far East Film Festival, rivedrò la bimba di Aftershock. Stavolta sarò io a cercarla con gli occhi. Gran bella idea, proiettarlo un 6 maggio in Friuli, quel film. Nel giorno in cui apprendo dall’inno dei cosiddetti “Responsabili”, stampella del governo del mio paese, che “in questo mondo di ostinata follia” dobbiamo essere “pronti a difenderci da mondi lontani”, sono felice di ricordarmi del terremoto di quando avevo un anno attraverso un altro terremoto, lontanissimo e ignoto ai più.

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La notte (bianca) della Repubblica

CISL

«Musica elettronica ad altissimo livello in piazza Annigoni con Kurokawa. Le immagini di Firenze contro il resto del mondo campeggiano sulla basilica di Santo Spirito. Migliaia di persone girano per la città ancora. E abbiamo pure arrestato in flagrante uno spacciatore in via Tripoli. Prossimo appuntamento: cappuccino in palazzo vecchio alle cinque…»

Certo, non è un documento ufficiale, e non è nemmeno una nota rilasciata da un ufficio stampa. È solo uno status su un social network, ma tant’è. I cortocircuiti stridono ugualmente, come musica elettronica di basso livello. È il Primo Maggio e Firenze festeggia con le serrande alzate – sciopero permettendo – e il suo sindaco sceriffo in piena forma.
“Abbiamo arrestato”: complimenti. Noi? Tu e chi? Tu e l’assessore alla viabilità? Avete fatto anche la foto? Il passo è breve: bastava aggiungere “marocchino”, o “rumeno”, e potevamo essere a Treviso. Il passo è breve. Però siamo a Firenze, però quella è Firenze.
Arrestatelo, lo spacciatore. Gli spacciatori si arrestano anche il Primo Maggio, i lavoratori preposti lo sanno dal giorno in cui sono stati assunti a tempo indeterminato, e c’hanno fatto il callo.
E buon riposo a chi può, anche a Firenze. Riposassero anche i sindaci, se lo meriterebbero. Alcuni lavorano troppo, tra una delibera, un arresto in flagranza di reato e un cappuccino all’alba.

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