Soletta, Stream of consciousness

Celest d’imprest

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paron dal nuie o stoi

sot di un morâr 

la mê cjiase a je cheste

soredut d’istât

cuant che dut a l’è

bielzà lusôr

e maravee di forment

sì, a je vere,

mi plaseve vioditi

platâ lis bicicletis ‘tune cise

sintìti il marimont

sot dai vistîts

smenteâmi tal meracul di te

che il cîl spes al à un celest

che la vite nus da

dome d’imprest

 

Maurizio Mattiuzza

[Celeste a prestito: Padrone del nulla sto / sotto un gelso / e la mia casa è questa / soprattutto d’estate / quando tutto è / già luce/ e meraviglia di frumento / sì, è vero / mi piaceva vederti / nascondere le biciclette in una siepe / sentirti l’universo / sotto i vestiti / dimenticandomi nel miracolo di te / che il cielo spesso ha un celeste / che la vita ci dà / soltanto in prestito]

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Imago, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Lezione di didattica incendiaria


Capita di leggere saggi ultraspecialistici per professori d’assalto e non ricavarci un fico. Capita di sfogliare distrattamente, in treno, l’inserto femminile di “Repubblica” e percarci un’ideona da sbattere sui banchi dei ragazzi come un poker d’assi. Gente, casa vostra sta bruciando. Lo dice un sito molto trendy. Sì, ve ne siete accorti anche voi, quella è tutta gente fighetta piena di Canon come cannoni e di purissimo orgoglio Mac. Però l’idea è buona, fidatevi. Il salotto brucia e vi restano pochi minuti. Quel che basta per rintracciare una felpa, l’mp3 (quelli c’han l’iPod, lo so…), quei calzini che sapete voi, l’orsetto di pezza, il CD di Eminem e pedalare verso la salvezza.

Magari finisce che alla fine – sbirciate le reciproche foto – ci si conosca meglio, noi. E pazienza se il vostro letto è andato in fumo. Se siete stati svelti magari avete salvato il cuscino.

E adesso via, andate. Fate la punta alle digitali e buoni compiti. Ci si vede venerdì, prima ora, davanti al computer n. 1.

(altri compiti: qui)

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Ho visto un TrE, ah beh, sì beh…

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Ci siamo.

Avevamo Tremonti e da oggi, dopo una sobria potatura, abbiamo solo…???

«Monti!», diranno i miei piccoli lettori.

No, ragazzi, abbiamo TrE, il nuovo disco (doppio) di Giua in coppia con il grandissimo chitarrista Armando Corsi. Un progetto che vede la luce in queste ore dapprima in versione digitale e presto – a gennaio – in una lussureggiante veste da rimirare concreta concreta tra i polpastrelli.

Oggi: conferenza stampa a Rapallo.
Il 18 novembre – sempre a Rapallo, beato chi può – concerto di presentazione.

Ci siamo.
Certo, certo. Ci serve anche Monti, ma abbiamo soprattutto un disperato bisogno di bellezza.

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Il bambino che non c’è

La cosa assurda è che il primo a venirmi in mente è stato un comico. Davanti ad una scena che sapeva di morte, ho pensato subito a un volto che da sempre mi fa morir dal ridere. Mi sono ricordato dei bacini lanciati nell’aria da Epifanio, avvolto nel suo cappotto a quadretti, prima di aggiustarsi l’improbabile montatura degli occhiali sopra il naso.
In una vecchia intervista Antonio Albanese ha raccontato la genesi di quel suo inarrivabile  personaggio e di quella corporeità dolce e tragica. In un quartiere di non so quale città, l’attore si era fermato ad osservare un clochard che destinava al vento improbabili bacetti, oppure, partiti dalle labbra, li faceva riatterrare sulle pieghe della sua giacca, sui gomiti lisi, sulle spalle.

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Un sabato mattina prima dell’alba. L’atrio della stazione di Udine è deserto. Le scatole con i giornali sono già arrivate ma l’edicolante ancora non si vede. I passeggeri del primo treno rimarranno senza notizie. Il pavimento è come sempre il rifugio per molti corpi, avvolti dentro coperte di fortuna, appoggiati sopra pezzi di cartone. Non è una scena inedita, nell’Italia dei ristoranti affollati. Nell’angolo della macchinetta per le fototessere c’è una coppia di africani. Lui dorme a pancia in su, gli occhi sono due fessure sbarrate sotto un berretto di lana colorato. Non c’è cuscino, nemmeno qualcosa che funga da cuscino. Il cuscino è il berretto stesso, unica frontiera tra i capelli e le piastrelle. Lui, ma lui è come gli altri. Gli altri che dormono qualche metro più in là, poco prima del bar, o come i quattro nella vicina sala d’aspetto. Il fatto è che c’è anche lei, vicino a lui. Lei magra, lei col viso nascosto da una sciarpa viola. Lei non sdraiata. Lei seduta e vagamente appoggiata con la schiena al corpo di quel compagno assopito. Lei che non mi vedrà mai mentre la sto guardando, anche se riesco a farlo per meno di un minuto. Lei che sta accarezzando il bambino che tiene in braccio, ma tra le sue braccia non c’è niente. Lei che parla a quella creatura che non esiste o forse non esiste più. Parole che sembrano una ninna nanna e un pianto, mentre la mano affonda nell’aria come fossero capelli. Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo proprio a nessuno lo do. Lo tengo stretto, non lo mollo, è solo mio. Sembra dire, sembra.
Il treno sta per partire. È arrivato l’edicolante. Sul giornale, qualche giorno fa, ricordo di aver letto del progetto di chiudere la stazione di notte. Non ricordo chi lo proponesse. Era ovviamente una questione di sicurezza, c’era in gioco la “nostra” sicurezza. Salgo in carrozza e rivedo la stessa scena. Con quel bambino che non c’è a piangere sotto le stelle o la pioggia di novembre.   

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Quando si porta in classe una storia come quella di Beatrice Bebe Vio ci si sente quasi inutili. Non servono particolari doti di eloquenza, non serve nessuna capacità nel conquistare l’uditorio ragazzino. La storia prende il sopravvento e si racconta da sé. Scorre. Dalla pagina da leggere fino in fondo agli occhi. Dal video da guardare fino in fondo all’anima. Bebe è un anno più vecchia dei miei alunni, ma in un filmato della primavera scorsa si dice spaventata per lo stesso esame che dovranno sostenere loro tra qualche mese. Studia addirittura le stesse noiose nozioni di geografia. E poi si prepara per l’allenamento, proprio come fanno loro ogni pomeriggio. Fa una sostanziosa merenda, come farebbero loro ogni 13 minuti. Ride, si imbarazza, scherza. Dice “prendere per il culo”. Scrive, disegna e sogna: tutto uguale. Con una forza ed un coraggio, però, che i miei giovani virgulti proprio non si spiegano. E forse non serve nemmeno, sapere perché qualcuno è tanto straordinario. L’importante è poter attingere a quel talento, come da una fontana pubblica.

Alla storia e alla testimonianza di Bebe Vio attinge anche art4sport, la onlus che supporta le famiglie dei bambini e delle bambine amputati nell’ottenimento di costose attrezzature sportive, supplendo – mirabilmente, ma che tristezza… – al ruolo che dovrebbe essere dello Stato e del Sistema Sanitario Nazionale.

Fino al 5 novembre, con un SMS al 45596 è possibile sostenere art4sport donando 1 euro.



Fatto? È valido anche con il telefonino degli altri, anche a loro insaputa.

E adesso, tutti a scoprire cosa pensa Bebe della Vita!

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All’inferno con Chuck

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«Mi sente, Satana? Sono io, Madison. La prego di non prenderlo come un rimprovero. Consideri ciò che sto per dirle come un feedback esclusivamente costruttivo. Di buono c’è che lei gestisce una delle aziende più grandi e di successo nella storia del… be’, della storia. È riuscito nell’impresa di ampliare la sua quota di mercato malgrado la spietata concorrenza di un competitor diretto nonché onnipotente. Il suo marchio è ormai sinonimo di tormento e sofferenza. Tuttavia, se posso essere brutalmente schietta, il livello del vostro customer  service fa davvero schifo.»

Chuck Palahniuk, Dannazione

 

 

Concedersi una pausa Palahniuk. Ogni tanto serve. Una volta all’anno si può. Ci si mette lì, inermi. Come un quindicenne davanti al filmdinatale.

Questa volta ho imparato…

Che all’inferno finisce ogni schifezza che sulla terra ci illudiamo di occultare, dalle caccole alle unghie tagliate.
Che quando suona il telefono, stai mangiando ed è un venditore di qualcosa o il call center di un istituto demoscopico… ecco, in realtà stai parlando con l’inferno e dall’altra parte c’è un morto.
Che nel girone più infernale dell’inferno, il top del top dell’inferno, i dannati sono costretti a verdere – ad libitum – Il Paziente inglese.
Che certe cattive ragazze posso essere apostrofate come delle Zoccole Vanderzoccols, come delle Mignotte MacMignotts, come delle Vacche Van Vackenberg, come delle Ochette Von Ocherville, come delle Luride Von Luridberg, come delle Cagne Vandercagnis e qui mi fermo che se mi legge qualche alunno poi chi lo ferma.
Che finire all’inferno ci vuol poco: bastano 500 + 1 colpi di clacson, oppure aver superato il limite consentito di puzzette in ascensore.
Che all’inferno i demoni preposti muovono una farraginosa burocrazia, complicata da sgangherate stampanti ad aghi.
Che…

Adesso si riparte con i saggi e le altre letture seriosissime, ma una volta all’anno, un Palahniuk non è peccato. Almeno credo.  

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