Le storie di Scuolamagia, Soletta

Quando la melma è melmosa, il racconto* di Marimù

Era una buia notte di settembre, il 2 settembre. Fuori pioveva, la casa era vuota, c’ero solo io, sola. Entrai nel salotto e mi buttai sul divano. Il telecomando che era sul divano, quando mi buttai, rimbalzò e io lo presi al volo.

Premetti il tasto “Entra” e finii sul canale Italia1, sul sei, dove trasmettevano “Il mostro della palude”, un film dell’orrore.

Quando, ad un tratto, apparve sul telecomando uno strano nuovo pulsante, io lo schiacciai per vedere cosa fosse e la Tv mi risucchiò nel film e mi ritrovai in una melma melmosa e viscida di color verde. Insieme a me c’erano altri tre ragazzi, anche loro risucchiati dal film. Uno si chiamava Cha Hio e proveniva dalla Cina, aveva la pelle giallastra, gli occhi marroni e anche i capelli marroni e aveva un naso grande e schiacciato. Poi c’era una ragazza argentina di nome Cristina; aveva i capelli color biondo, gli occhi azzurri e aveva una maglietta rossa con scritto “I LOVE ARGENTINA”. Da lì ho capito da dove provenisse.

Poi c’era un africano: è stato facile capirlo, aveva una carnagione scura ed era vestito non come noi, ma con una specie di tunica.

Eravamo tutti terrorizzati, quando abbiamo visto delle bolle in mezzo alla palude e da lì è spuntato un mostro di color arancio, alto due metri e mezzo e aveva due braccia grandissime, con due mani enormi, con delle unghie affilatissime. Camminava come un umano. Ci ha guardati per un po’. Noi dalla paura non ci riuscivamo a muovere. Eravamo fermi come statue.

Dopo dieci minuti si è avvicinato e ci ha detto “caliacamaciatoia”, ma nessuno lo ha capito, a parte il cinese che ci faceva dei segni. Solo dopo un quarto d’ora abbiamo capito, il mostro aveva detto “BUON APPETITO” e allora siamo corsi via, con lui che ci inseguiva. Ma noi per la paura eravamo più veloci. Poi mi sono girata e da lontano ho visto una Tv… era un po’ da pazzi il mio piano, però ha funzionato. Mi sono messa a correre ancora di più e mi sono buttata sullo schermo. Sono atterrata sul divano e ho giurato che non avrei mai più guardato la Tv.

Purtroppo non sono riuscita a mantenere la promessa.

(* mi sono assentato per un paio di mattine, qualche giorno fa, il tempo di portare i grandi in gita a Firenze… i piccoli, nel frattempo, li ho messi al lavoro indicendo una sorta di concorso letterario con tanto di giuria esterna. Il nostro premiostreghetta, il nostro campiellino… Ha vinto il racconto di Marimù, di misura su altri bravi autori esordienti… In premio, tra le altre cose, c’era anche la prestigiosa :roll:  pubblicazione sulla Pozzanghera…) 

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L’uomo che metteva gli alberi

Oggi mi ha colpito una parola. L’ha usata un boscaiolo in un video che abbiamo visto a scuola, mentre un ingegnere utopista ci stava raccontando il suo sogno di legno. Davanti ad una superpianta, centenaria, destinata a diventare trave, scelta per sorreggere un tetto, un bestione da tagliare, atterrare, stroncare, abbattere, schienare, far cadere, far stramazzare, decapitare o come cavolo avrei detto io, l’esperto mago della motosega – al minuto 0.53 – dice soltanto: “l’unico punto in cui la posso mettere…”. Mettere??? Sì, mettere, proprio come fosse una copia del “Corriere della Sera”, la custodia di un paio d’occhiali, una scatola di pennarelli.

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Per questo canto una canzone triste triste triste

Alle otto meno un quarto di sabato 19 maggio, nell’hotel forentino in cui alloggiavo coi miei alunni avrebbe dovuto suonare la sveglia. Non l’ha fatto, almeno per me e per le ragazze della 3ª C. Eravamo infatti già usciti dalle sei, per la corsetta mattutina con cui sono solito far concludere le gite scolastiche, per un saluto alla città – qualunque essa sia – ancora sonnecchiante prima dell’invasione dei turisti.

La stazione, Piazzasantamarianovella, il Lungarno, Pontesantatrinità, Pontevecchio, Piazzaledegliuffizi, Piazzadellasignoria, Viadeicalzaioli, Piazzadelduomo, Viade’cerretani, ecc.

Un sereno tour nella bellezza sempre spiazzante di una città incredibile, mentre altrove, ma sempre in Italia, in quei medesimi istanti, si stava per compiere l’itinerario opposto, la corsa verso un baratro. Anche quella una storia di ragazze, poco più grandi di quelle che hanno corso a fianco a me, sorprese dalla rinuncia a quell’impresa da parte della componente maschile della classe, stremata dalle fatiche notturne alla playstation.

Qualche ora dopo quel fuoriprogramma estetico-atletico, ho pensato che i miei utenti-adolescenti dovessero sapere quel che continuavo a leggere in maniera convulsa dal display del telefono. Cosa cinguettassero quei tweet. Li ho radunati, quasi al centro di Piazzalemichelangelo, la città sullo sfondo, e ho detto loro quel che sapevo. Il fatto, dove e quando, le prime ipotesi, senza protendere per nessuna, senza sbilanciarmi. Era giusto fossero messi al corrente, anche solo per un attimo prima di rituffarsi nella loro gita spensierata. Era giusto che potessero dire – per prima l’ha fatto una ragazza – “bastardi”. 

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Un migrante lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia

Sul campetto d’erba sintetica planiamo in macchina dall’alto. Non stona quel prato finto, piazzato in quello scenario di boschi e montagne e cielo. Ragazzi e bambini già corrono dietro ad un buon pallone bianco (mi ero raccomandato, fissando l’appuntamento: “niente robaccia sgonfia, sbrecciata, sghemba, ovale…), qualcuno gironzola con la bici, inquieto, nel parcheggio. Tra tante parole sovrapposte, le prime, spicca “Prof.”, ma non è me che stanno aspettando. Aspettano Lui, l’ospite. Enaiatollah scende dalla macchina e si sgranchisce; viene da un duplice incontro nelle scuole. Ha parlato a più di 600 minori e la sua giornata di testimone non è ancora finita. Ora però lo attende una pausa. Un’idea di Martina – “ma facciamo una partita insieme a lui?” -, nata sul banco, le parole di Nel mare ci sono i coccodrilli tra le mani e gli occhi proiettati verso un pomeriggio di sole che verrà.

Martina ora è tra i pali, il suo nuovo ruolo dopo aver tentato una carriera da difensore. Comincia la partita. I ritmi sono blandi, come si dice: fasi di studio. Soltanto che ad essere studiato è solo quel ragazzo che è vestito di nero ma non sta sudando e non suderà, il protagonista di quel viaggio così incredibile. Ora però sta viaggiando lungo la tua stessa fascia, si muove leggero nella tua stessa area. Esiste, ci puoi sbattere contro. Se non stai attento ti può fregare il pallone. No, anzi, te lo frega anche se stai attento. Perché è forte Enaiat, è veloce ed elegante. Sembra danzare, fa le veroniche e i colpi di tacco. Ha un vasto repertorio di colpi e soprattutto ha visione di gioco. Colpisce questa simmetria con le capacità oratorie dimostrate negli incontri pubblici. Cogliere il senso di una domanda, custodirla come un pallone prezioso tra i piedi farla andare nel posto giusto: verso un concetto che allarga l’orizzonte, verso una sintesi che illumina uno scenario. Piccoli lampi di genio, su un campo di pallone così come in un teatro straripante di bambini. E tanti passaggi, precisi, sul piede, col contagiri, da calciatore altruista. Racconta di quando andava a scuola lui, a 10 anni, in un altrove lontanissimo, ed ecco che ti scodella subito sul piede, il tuo, il senso ultimo della tua istruzione, del tuo crescere apprendendo. Assist perfetti.

Il match procede, arrivano altri giocatori, altre ragazze si aggiungono a quelle già schierate.

L’unica differenza tra l’Enaiat calciatore e l’Enaiat “conferenziere” è presto detta: il primo non segna, il secondo sa fare gol. Sull’erba la rete preferisce lasciarla gonfiare a Francesco e a Manuel, che ne hanno bisogno come di respirare, a Pietro, che è piccolo e suoi gol valgono il triplo, a Cristiano, a Camilla, a Thomas, a tutti. Quando stringe tra le mani un microfono, il ragazzo che non conosce la sua età a volte tiene invece la palla per sè, come fanno i fuoriclasse, e fa quello che agli altri, a quelli normali, non riuscirebbe. Perché è giusto così, per salvaguardare la bellezza, perché le parole indimenticabili non escono dalla bocca di tutti. Così, un paio d’ore dopo quella partita, con qualcuno dei giocatori che è addirittura riuscito a farsi una doccia, ecco un giovane migrante venuto da Nava, Afghanistan, invitare un centinaio di italiani a leggere Se questo un uomo, ricordare loro quanto è preziosa la Costituzione che li tutela ogni giorno, invitarli a diffidare della democrazia esportata qua e là maldestramente con la guerra, senza diffondere quei semi di pace che saprebbero essere le scuole, i libri, le idee.

Qualcosa come una tripletta, prima del triplice fischio. Enaiatollah deve ripartire. Prima stringe mani, abbraccia. È affaticato, si vede: anche lui prova stanchezza. Poi va, non prima di aver risposto al mio alunno che scherzando gli aveva chiesto “facciamo cambio di nome?”. Ovviamente è un sì: quello strano baratto si può fare. L’importante è aver riempito quella scatola – il proprio nome – di azioni giuste e di dignità, dice.

E fa un ultimo gol, segnato a tempo scaduto. Ma è buono lo stesso.

(foto di Elena, grazie)

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