Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta

Un migrante lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia

Sul campetto d’erba sintetica planiamo in macchina dall’alto. Non stona quel prato finto, piazzato in quello scenario di boschi e montagne e cielo. Ragazzi e bambini già corrono dietro ad un buon pallone bianco (mi ero raccomandato, fissando l’appuntamento: “niente robaccia sgonfia, sbrecciata, sghemba, ovale…), qualcuno gironzola con la bici, inquieto, nel parcheggio. Tra tante parole sovrapposte, le prime, spicca “Prof.”, ma non è me che stanno aspettando. Aspettano Lui, l’ospite. Enaiatollah scende dalla macchina e si sgranchisce; viene da un duplice incontro nelle scuole. Ha parlato a più di 600 minori e la sua giornata di testimone non è ancora finita. Ora però lo attende una pausa. Un’idea di Martina – “ma facciamo una partita insieme a lui?” -, nata sul banco, le parole di Nel mare ci sono i coccodrilli tra le mani e gli occhi proiettati verso un pomeriggio di sole che verrà.

Martina ora è tra i pali, il suo nuovo ruolo dopo aver tentato una carriera da difensore. Comincia la partita. I ritmi sono blandi, come si dice: fasi di studio. Soltanto che ad essere studiato è solo quel ragazzo che è vestito di nero ma non sta sudando e non suderà, il protagonista di quel viaggio così incredibile. Ora però sta viaggiando lungo la tua stessa fascia, si muove leggero nella tua stessa area. Esiste, ci puoi sbattere contro. Se non stai attento ti può fregare il pallone. No, anzi, te lo frega anche se stai attento. Perché è forte Enaiat, è veloce ed elegante. Sembra danzare, fa le veroniche e i colpi di tacco. Ha un vasto repertorio di colpi e soprattutto ha visione di gioco. Colpisce questa simmetria con le capacità oratorie dimostrate negli incontri pubblici. Cogliere il senso di una domanda, custodirla come un pallone prezioso tra i piedi farla andare nel posto giusto: verso un concetto che allarga l’orizzonte, verso una sintesi che illumina uno scenario. Piccoli lampi di genio, su un campo di pallone così come in un teatro straripante di bambini. E tanti passaggi, precisi, sul piede, col contagiri, da calciatore altruista. Racconta di quando andava a scuola lui, a 10 anni, in un altrove lontanissimo, ed ecco che ti scodella subito sul piede, il tuo, il senso ultimo della tua istruzione, del tuo crescere apprendendo. Assist perfetti.

Il match procede, arrivano altri giocatori, altre ragazze si aggiungono a quelle già schierate.

L’unica differenza tra l’Enaiat calciatore e l’Enaiat “conferenziere” è presto detta: il primo non segna, il secondo sa fare gol. Sull’erba la rete preferisce lasciarla gonfiare a Francesco e a Manuel, che ne hanno bisogno come di respirare, a Pietro, che è piccolo e suoi gol valgono il triplo, a Cristiano, a Camilla, a Thomas, a tutti. Quando stringe tra le mani un microfono, il ragazzo che non conosce la sua età a volte tiene invece la palla per sè, come fanno i fuoriclasse, e fa quello che agli altri, a quelli normali, non riuscirebbe. Perché è giusto così, per salvaguardare la bellezza, perché le parole indimenticabili non escono dalla bocca di tutti. Così, un paio d’ore dopo quella partita, con qualcuno dei giocatori che è addirittura riuscito a farsi una doccia, ecco un giovane migrante venuto da Nava, Afghanistan, invitare un centinaio di italiani a leggere Se questo un uomo, ricordare loro quanto è preziosa la Costituzione che li tutela ogni giorno, invitarli a diffidare della democrazia esportata qua e là maldestramente con la guerra, senza diffondere quei semi di pace che saprebbero essere le scuole, i libri, le idee.

Qualcosa come una tripletta, prima del triplice fischio. Enaiatollah deve ripartire. Prima stringe mani, abbraccia. È affaticato, si vede: anche lui prova stanchezza. Poi va, non prima di aver risposto al mio alunno che scherzando gli aveva chiesto “facciamo cambio di nome?”. Ovviamente è un sì: quello strano baratto si può fare. L’importante è aver riempito quella scatola – il proprio nome – di azioni giuste e di dignità, dice.

E fa un ultimo gol, segnato a tempo scaduto. Ma è buono lo stesso.

(foto di Elena, grazie)

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