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Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

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