Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Risolvere la questione Kyenge, così

When in trouble, go big. Lo dicono gli Americani. Io l’ho imparato dal giornalista Francesco Costa, ed è pure il sottottitolo del suo blog.

Sei nei pasticci, non ti difendere: attacca. Come un tennista che va a rete, come un ciclista che prova il tutto per tutto su una salita. Prenditi dei rischi, ma spariglia, osa, fai una mossa che smuova davvero le cose.

In trouble lo siamo oltre ogni più ragionevole dubbio. Ci sono italiani razzisti che dettano la tabella di marcia ad altri italiani razzisti affinché vadano a scagliarsi, lungo tutto lo stivale, contro il primo e unico Ministro della Repubblica colpevole di essere di colore, con l’aggravante di essere donna. Alla luce dell’attuale situazione politica, una Ministra tra l’altro talmente lontana dal poter attuare qualsivoglia proposito riformatore da mettere ancor più in luce i rigurgiti della Lega, comprensibili solo e soltanto scomodando la categoria del razzismo.

Se non è trouble questo…

Quindi che fare?

Una cosa ci sarebbe. Strana, sorprendente, e si presta a tutta una serie di obiezioni che mi sono già rivolto da solo. Però è BIG. Proprio quello che servirebbe ora che siamo in trouble.

Napolitano domani si alza, si siede allo scrittoio e nomina Cécile Kyenge Senatrice a Vita.

La motivazione? Le vogliamo bene e ce la vogliamo tenere stretta, punto. Vogliono farla dimettere lanciandole le banane? E noi la promuoviamo e le chiediamo di servirci, con lauto stipendio e onori annessi, per un numero più lungo possibile di anni.

Le forze politiche di tutto l’arco costituzionale plaudono con forza (tutte, anche quella di Peppe, ché glielo chiede la rete…).

La Lega muore.

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

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Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

Blu, una poesia…

 

BLU

 

A sbrissin i vistîts lizêrs

sbregâts, dismembrâts

de aghe sglonfe di otubar

    La tô ultime cjase:

    ramaçs secs

    e alighis di roie

e un cûr sul cuel

e un e cuarde ator dal cuel

e vergulis blu

i toi ultins vistîts lizêrs

    Un cuarp pûr

    sporcjât dal flât di chei oms

    che no domandavin nancje il to non

    La ultime olme

    des lôr scarpis pesantis

    sul to cûr

                 e vergulis blu

                        e lavris blu

                 e muse cence voi

                 e aghe, aghe

                 i toi ultins vistîts lizêrs.

 

Lucia Gazzino, Babel. Oms, feminis e cantonîrs, La Vita Felice.

 

 

BLU*

Scivolano gli abiti leggeri / strappati, smembrati / dall’acqua gonfia di ottobre / Rami secchi /alghe di torrente / la tua ultima casa / un cuore al collo un laccio al collo / e lividi blu i tuoi ultimi / vestiti leggeri / un corpo puro/ lordato da uomini /che non chiedevano / neppure un nome / L’ultima impronta / delle loro scarpe pesanti / sul tuo cuore / e lividi blu / e labbra blu / e viso senz’occhi / e acqua, acqua / i tuoi ultimi vestiti leggeri

 

 

Udine, 11 Ottobre 2004. Una prostituta è trovata strangolata ed affogata nella roggia fuori città

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Imago, Res cogitans, Stream of consciousness

Sindaci in metropolitana

Faceva freddo, ieri a New York. No, nessun superviaggio natalizio: la Pozzanghera non si è mossa dal suo solito asfalto. Faceva freddo attorno al cappotto del nuovo sindaco e nel vapore che usciva dalla sua bocca, in streaming sul sito del “New York Times”. Erano calde le parole di quel gigante buono, quelle sì, ed erano semplici e dirette come solo in quella parte di mondo. Un discorso perfetto, la megalopoli come il divano di una grande famiglia e quelle “etichette” pronunciate quasi alla rinfusa, senza gerarchie di sorta e quindi a un passo dall’essere abolite dal linguaggio: asiatici, gay, ricchi, vecchi, neri, giovani, poveri, americani… Viene quasi da invidiarla, la bella ingenuità americana, badando bene di non abboccare del tutto alle sue comode esche. Come ricorda Sofri nel suo librino dedicato all’autore del Principe, negli Usa vanno forti letture come Machiavelli & Modern Business, Machiavelli on Managerial Leadership, The New Machiavelli: The Art of Politics in Business. Lo prendono sul serio, il nostro Segretario, e non lo confinano nei ricordi della quarta liceo.

Tutta quell’enfasi democratica, tutto quel “crederci”, non possono che impressionare soprattutto noi italiani, che guardiamo le nostre istituzioni sempre con sospetto e distacco, quando non gli facciamo il verso in camicia di flanella e un fantoccio (di noi stessi) al fianco.

E poi ci sono i giornali, i nostri.

Sussultano: evviva il sindaco che va a giurare in metropolitana! Da noi non s’è mai visto! Seguono autorevoli commenti, dalla cattedra o dall’amaca.

Peccato che il sindaco uscente – data per scontata l’abilità statunitense nella rappresentazione fotografica (e spesso demagogica) del potere – usufruisse altrettanto – e da milionario – di quel mezzo pubblico. Anzi, sulla metro buttava già l’occhio su qualche scartoffia, prima di arrivare in ufficio.

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