Res cogitans, Stream of consciousness

Quando il bagaglio a mano è un bagaglio umano

Il funzionamento di un bambino di 8 anni non è semplicissimo da capire. Un esemplare maschio mi si è avvicinato pochi giorni fa, durante una prova di evacuazione in comune tra la mia scuola e la dirimpettaia scuola primaria, casa sua. I volontari della protezione civile avevano acceso un piccolo fuoco nel prato vicino alla palestra, e si apprestavano a spegnerlo con gli appositi mezzi.

Il marmocchio mi tira per la felpa e mi fa scendere con la testa di qualche piano, dove mi aspettano la sua zazzera e la sua vocetta.

«Ma quello laggiù è un incendio vero o l’hanno fatto loro?».

Mi è ritornata in mente quella domanda mentre leggevo del suo coetaneo sbucato da un trolley, a Ceuta, alle porte della Fortezza Europa.

Ho pensato a cosa possano avergli detto, mentre lo aiutavano a farsi piccolo piccolo. Che tutto era un gioco, forse, di quelli con la quota di divertimento tutta sbilanciata verso il finale. Che era l’unico modo, più probabilmente, per rivedere la madre e rimanerci a fianco. Forse gli hanno suggerito un pensiero da pensare forte in quel tempo infinito, una canzoncina da cantare mentalmente, una conta di quelle che se vuoi non finiscono, annoiano ma vanno avanti finché ti pare. Forse lo hanno minacciato, hanno usato le cattive. Oppure sta tutta lì la differenza, tra loro che partono e noi che bene o male li accogliamo: nel non riuscire nemmeno ad immaginare, noi, il contenuto di quel dialogo adulto-bambino. Non basta un interprete, non esiste mediazione possibile. Il contenuto di quella comunicazione rimane per noi oscuro come lo sguardo d’intesa tra due gatti, come l’ululato di un cane solitario, come il canto di una balena nell’oceano.

Poi il trolley si è chiuso.

«Ma tutto questo buio è dentro al trolley o c’è anche di fuori?».

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Ragazze davvero pronte alla vita

 

Non era male, l’idea di esser “pronti alla vita”. Ci si poteva quasi credere. Poi basta mezzo pomeriggio di strade milanesi in fiamme con il più prevedibile dibattito che ne potesse sorgere (infiltrazioni, manganelli, Alfano, figlidipapà, Genova, la Diaz, Bolzaneto, i cappucci, i servizidordine, Fedez, i tatuaggidiFedez, gli errori di grammatica di Fedez, arrestiamolitutti, arrestiamoFedez, il manifestante intervistato a TGcom24 che voleva fare “bordello”, la mamma di Baltimora, la mamma di Fedez, la mamma di quello che voleva fare bordello ma qualcuno ci pensa a quella povera mamma?, gli hashtag di Severgnini, le ragioni della protesta, la tipa in posa davanti alla macchina bruciata, quelli che “erano solo 500”, …) e tutto si ridimensiona, a cominciare proprio dai i sogni.

Non siam per niente pronti. Alla vita, s’intende.

Non è detto che non lo sia qualcun altro, però.

Come ad esempio le Skate Girls of Kabul fotografate da Jessica Fulford-Dobson, che con i loro colori sono riuscite a strapparmi dal nero dei cappucci e dal grigio delle parole, le nostre parole, in questo strambo primomaggio.

Nessun riassunto, ché si capisce tutto al volo. Quei visi sono più che sufficienti.

La prontezza alla vita, insomma, spiegata bene bene.

Per quando magari decidiamo di riprovarci.

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