Res cogitans, Tutte queste cose passare

Aylan che non si chiamava Aylan

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L’avevo letto in un articolo di Adriano Sofri. Quel bambino si chiamava Alan, non Aylan. 24 ore e lo riscrivono correttamente, avevo pensato. Che ci vuole? Son cose che succedono, la concitazione, i fischi che fan presto a diventare fiaschi.

Sono passati i giorni. Sono passati tanti giorni. Alan è rimasto Aylan. Ci è entrato in testa. È entrato nei nostri discorsi, è stato disegnato dai bambini nelle scuole, è stato proiettato durante i comizi e durante i talkshow. Con il nostro nome, però. Perché non ci siamo corretti? Perché i media non hanno detto scusate, abbiamo controllato meglio, sembrava si chiamasse così, e invece si chiamava cosà?

Il sospetto è che suonasse meglio Aylan. Pronunciato Aylàn: vuoi mettere l’esotismo? Alan prima di tutto non sembra il nome di un bambino, e poi di Alan ce ne sono un sacco anche dalle nostre parti. Aylan era perfetto. Semplice, diretto, efficace. E in fondo noi quella storia dovevamo venderla.

Oggi, dopo sei mesi, un padre chiede che suo figlio che non c’è più venga ricordato con il suo vero nome. Prova a ridircelo, di stare più attenti.

Certo, poi il problema è che di corpicini affogati continua ad essere pieno il Mediterraneo, si chiamino come vogliono.

Però non è difficile, e forse siamo ancora in tempo: tasto destro, un clic su rinomina, invio.

 

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Stream of consciousness

Camminando Gemona, quarant’anni dopo

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Ho infilato Niccolò Fabi nelle orecchie per camminare la notte gemonese. Un paio di chilometri sono stati sufficienti per raggiungere il luogo dove mi trovavo esattamente quarant’anni fa, davanti alle macerie della mia casa. Avevo un anno e pochi mesi, in quello spiazzo di disperati. Doveva essermi sembrato una specie di festa, quello che mi accadeva attorno – il correre e il gridare, il soccorrere e il disperarsi – perché ebbene sì… ridevo. Rideva tutta la mia faccia paciocca. Ho sempre provato una strana vergogna, nell’ascoltare, all’interno dell’aneddotica su quel 6 maggio, la storia del mio riso inconsapevole. Nella notte più lunga ho presto voltato quell’allegria in un pianto disperato (ho vergogna pure di quello, c’era attorno a me chi distrutto tentava inutilmente di lasciarsi soffocare dal sonno), per la tragedia piccola di un ciuccio smarrito.

Sono tornato lì, come per un appuntamento. Ho spento la musica, il tempo di sentire rumore di stoviglie, telegiornali, chiacchiere. C’era un bassotto che gironzolava libero e inquieto. C’erano quarant’anni sul selciato, come i capelli dal barbiere, canterebbe un altro maestro di quelli che si infilano nelle orecchie.

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