Soletta, Stream of consciousness

Soltanto una scena

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La scena di un film, soltanto la scena di un film che probabilmente vi siete persi.

Prima i personaggi.

La mamma. Una donna sui 35/40 anni, malata terminale, ricoverata in un hospice, costretta a letto. Non dirà una parola, non sarà necessario. Apparirà per pochi secondi.

La bambina. Si tratta di sua figlia, massimo 10 anni, due occhi vivaci, magra come un chiodo, capelli lisci e scuri.

Il padre. Sulla cinquantina, non è il genitore della bambina e quindi nemmeno il compagno della donna malata. È il padre di un ragazzo di 25 anni da poco deceduto nella stessa struttura ospedaliera. Conosce la mamma e la bambina per aver frequentato gli stessi asettici corridoi e le stesse stanze.

Il giovane uomo. Vedendolo – la barba incolta, i capelli lunghi e spettinati, i pantaloni corti, gli auricolari perennemente penzolanti – l’avreste chiamato “il ragazzo”, ma viaggia verso i 30. Vicino di casa e amico d’infanzia della giovane vittima del cancro, di cui si è detto sopra, quella da poco deceduta. Amico d’infanzia non significa inseparabile, i due si erano persi di vista. Il giovane uomo non è quindi disperato, soffre il giusto e prova piuttosto pena per il dolore dell’altro personaggio, il padre.

La scena facciamola cominciare da qui. Il padre è distrutto: non va, vaga. Deambula per la casa e per la strada. Decide di recarsi in ospedale per reclamare una coperta colorata, coloratissima, dimenticata dopo la morte del figlio. Si fa accompagnare dal giovane uomo. Mentre parla – e un pochino litiga – con un infermiere che non si applica nella ricerca di quell’oggetto, il giovane uomo incontra la bambina. Meglio: la bambina raggiunge il giovane uomo incuriosita dalla stranezza dei suoi gesti, mentre seduto aspetta il ritorno del padre.

Si sta allenando, il giovane uomo. Ascolta musica con le cuffiette e pratica l’air guitar. Il passatempo più stupido dell’universo. Suona una chitarra che non c’è. Si contorce, il corpo e il viso. Il trionfo della cazzonaggine, l’apoteosi del suo essere un bamboccione spiantato.

Ma la bambina è curiosa e si avvicina. “Cosa stai facendo? E cos’è quella?” – indicando la chitarra che non c’è.

Stacco.

Torniamo sul padre. Chinato sul bancone della reception continua a reclamare la coperta.

Mentre discute con un infermiere ciccione succede qualcosa a cui all’inizio non fai nemmeno caso.

Arrivano correndo la bambina e il giovane uomo. Evidentemente vanno d’accordo, si stanno simpatici. Corrono e sono sorridenti. In mano hanno delle lenzuola bianche. No, non sono lenzuola, sono camici. In un attimo li indossano. Un terzo lo passano al padre, che stranito si dimentica della coperta.

Stacco. La scena si fa interessante.

Siamo ora in una corsia d’ospedale. Uguale a tutte le corsie d’ospedale: corridoio e stanze.

Fuori attendono i due maschi. La bambina esce da una stanza e li rassicura: si può fare. Ha ottenuto il consenso. Ok anche per il mare, dopo.

Entrano.

Tocca alla colonna sonora.

Una canzone bellissima.

Dolce il giusto, ma anche moderna.

Indossano tutti e tre il camice.

Si dispongono attorno al letto.

Inizia la magia.

Air surgery. A questo punto credo si possa chiamare così.

Le mani della bambina, del padre e del giovane uomo indossano guanti invisibili. Panni che non si vedono tamponano sulle fronti un sudore che non c’è.

Le dita danzano, leggere. Affondano il bisturi, immergono le mani, cuciono intrecciando fili. Sorridono, ma sono concentratissimi.

La madre – su quel letto c’è la madre – è perfettamente immobile. Gli occhi sono aperti e guardano la bambina. Sul suo corpo, una coperta colorata (!).

Le mani riemergono, hanno trovato ciò che stavano cercando. Qualcosa di viscido e sgusciante: il padre lo passa alla bambina e la scena finisce. L’intervento chirurgico è perfettamente riuscito. Anche la scena è riuscita: sì, a commuovermi a morte.

Stacco.

Le mani della bambina si schiudono. Sono immerse nel mare. L’intruso è liberato come un pesce guizzante e fortunato.

Fine.

La scena di un film. Israeliano, del 2016. Una settimana e un giorno. Dentro c’è anche molto altro, e merita davvero.

Ma questa poesia non potevo non raccontarvela.

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Soletta, Stream of consciousness

La consegna espressa del bambino virgola

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Proprio accanto al cancello della scuola su cui un’infermiera dipinta somministrava a un bambino dipinto una vaccinazione antipolio dipinta, un circolo di donne assonnate, lavoratrici itineranti del cantiere stradale poco lontano, attorniava un bimbetto accovacciato come una virgola sull’orlo di un tombino aperto. le donne stavano in piedi appoggiate a badili e picconi in attesa che il divo si esibisse. La virgola teneva gli occhi fissi su una delle donne. La madre. Gli venne l’ispirazione. Produsse una piccola pozza. Una foglia gialla. La madre posò il piccone e gli lavò il sederino con l’acqua fangosa di una vecchia bottiglia di Bisleri. Con il liquido rimasto si sciacquò le mani e inondò la foglia per mandarla a finire nel tombino. Nulla in città apparteneva a quelle donne. Non un minuscolo lotto di terreno, non una baracca in uno slum, non un tetto di lamiera sopra la testa. Nemmeno il sistema fognario. Ma adesso avevano lasciato un poco ortodosso deposito diretto, una consegna espressa spedita nel sistema. Forse quello era il primo passo per appropriarsi della metropoli. La madre prese in braccio la virgola, si mise in spalla il piccone, e il piccolo contingente si  allontanò.

Arundhati Roy, Il Ministero della Suprema Felicità

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