Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Niccolò Fabi e la ragazza limone

Chissà se Niccolò Fabi l’ha vista, arrivando al centro commerciale che avrebbe ospitato il suo concerto, la ragazza vestita di giallo vicina a uno degli ingressi. Non era una ragazza vestita di giallo qualsiasi. Il suo lavoro, infatti, consisteva nel protendersi da un chiosco giallo a forma di limone, distribuendo dissetanti bicchieri – gialli, ça va sans dire – rigorosamente a base di quell’agrume.

Il cantautore era reduce con la sua band da un evento particolarissimo ai piedi delle Dolomiti: aveva cantato a 2000 metri sul livello del mare davanti ad un pubblico che si era guadagnato quella musica infilando i passi in un faticoso sentiero di montagna.

Abbia o non abbia intercettato con lo sguardo la ragazza-limone, dopo il terzo brano della sua performance Fabi ha confessato il suo imbarazzo: «Carissimi, ieri ho suonato in paradiso e qui, non posso fingere, è molto più difficile».

Mescolato tra i fan, assisteva al concerto un piccolo popolo di spettatori inconsapevoli, giunti sul posto per accaparrarsi qualche canottiera d’occasione. Le prime file, riservatissime, toccavano di diritto ai fedelissimi aficionados di certi corredi e di certe trapunte, possessori di una preziosa tessera-punti, del tutto ignari dell’opera omnia del cantautore romano.

Lungi da me fare della sociologia d’accatto, e lungi da me colpevolizzare il direttore del centro commerciale casualmente seduto a pochi metri dalla mia sedia – schiumante alle battute del cantautore («Ragazzi, io continuerei a suonare, ma qui ci sono delle regole piuttosto rigide…»). Ho solo intravisto in questo quadretto uno spaccato di quest’epoca fragile e ricca di contraddizioni. Con il Mecenate che invita nel suo palazzo l’Artista che forse più profondamente ha combattuto i suoi valori di riferimento.

 

Prima di partire si dovrebbe essere sicuri

di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri

Allora io propongo per non fare confusione

a chi ha meno di cinquant’anni

di spegnere adesso la televisione 

 

Non si può entrare in un negozio

e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo

se la vita è un’asta sempre aperta

anche i pensieri saranno in offerta

 

Ma le più lunghe passeggiate

le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo

non so dove l’ho comprate

di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta

perché l’argento sai si beve

ma l’oro si aspetta

 

Le canzoni, si sa, sanno scavalcare le contraddizioni, ha chiosato infine il filosofo con la chitarra. E la musica deve andare ovunque, adattandosi pure alla scenografia posticcia di un tempio consacrato allo shopping, proprio come fosse un anfiteatro dolomitico o il più blasonato dei teatri.

E chissà com’erano, i versi di Niccolò, assaporati da dentro il chiosco a forma di limone. E chissà come batteva, il cuore della ragazza vestita di giallo, ospite di un agrume il tempo necessario per pagarsi gli studi, prima di rimettersi a caccia dell’oro tanto aspettato. Giallo anche quello, in fondo.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

I diari della bicicletta

«Prof., guarda lassù, quello è il Monte…»

«No, Marcello, oggi non sono il Prof., oggi sono il Capitano…».

Proprio così, un capitano che non sa la strada, che ignora i dislivelli, le pendenze, la quantità dei tornanti. Non conosce i nomi delle montagne e fatica a distinguere dall’alto i paesi che frequenta abitualmente. Però oggi gira così, in questo giro assurdo di tarda estate, nato per gioco, quasi per caso, da un dialogo via Skype.

Alle nove in punto il mio gregario mi aspetta già in sella ai piedi del Gigante. Dico gregario con grande rispetto, pari almeno all’ironia con cui mi sono definito capitano. Marcello non è uno sportivo in senso stretto, non indossa divise e non porta con sé tessere federali. Corre se c’è da correre, pedala se c’è da pedalare. Calcia per gioco, scia per divertimento. Deve muoversi, glielo impone l’istinto, e lo sa bene chi come me tra pochi giorni tornerà a fargli da carceriere tra le mura di un’aula.

La salita scivola nel bosco morbida e costante. La strada è stretta, il fondo liscio e curato. Il capitano procede composto, sa che va dosata ogni goccia di energia. Il rapporto è agile, la postura di sfinge dipinge traiettorie regolari nemiche di ogni zig zag. Non si alza mai sui pedali e sopporta stoicamente i malesseri del soprassella. Il gregario sale invece brillante e inquieto, tra una mezza impennata e un improvviso cambio di direzione per schivare un grillo. Ha quattordici anni, lo scudiero, e nonostante il parere contrario espresso dal suo superiore, decide di rompere il silenzio dell’ascesa con gli mp3 stivati nel suo cellulare. Mi sembra di bestemmiare quel paesaggio, penso allo sguardo di altri ciclisti puristi incrociati nell’ascesa, ma in fondo anche quelle canzoni han sostenuto questa piccola impresa. Laura Pausini, Ligabue, Il cielo d’Irlanda della Mannoia, i Beatles e una versione a me sconosciuta – e ne conosco tante – dell’Alleluja di Leonard Cohen.

Usciti dal bosco e dalle sue carezze d’ombra, la strada ci ha svelato il suo disegno. Un arabesco di tornanti tatuato sulla schiena verde della montagna. Una roba da sindrome di Stendhal, se non ci fosse il serio rischio di finire stesi dalla fatica. Quindi: testa bassa e pedalare.

Finisce l’asfalto, comincia lo sterrato. All’ansia di non farcela si somma quella di bucare. A scacciare i pensieri neri ci pensa Marcello, insegnandomi nomi di montagne e di versanti, indicandomi falchi e marmotte, lepri e uno stambecco maestoso che ci scruta da un metro sotto il cielo.  «Prof., guarda lassù…». Questa volta, però, a parlare sono io.

La meta di quest’avventura in bicicletta risponde al nome di “Panoramica delle Vette”. Lo sguardo, infatti, riesce ad abbracciare distanze colossali, orizzonti senza limiti. Scendo i sentieri della memoria, fino all’ultima volta davanti ad un’emozione così: in Cina, nel 2006, giocando a rincorrere con gli occhi la Grande Muraglia fin dove andava a perdersi, dentro nebbiose lontananze.

La discesa è insieme una faticaccia e una paura. Solo per me, però: il mio compagno di viaggio, annoiato dalla lentezza che gli ho imposto, battezza traiettorie insensate e appoggia il collo del piede sulla sella, la pianta sul manubrio. Gioca. Lo sgrido, vabbè, ma andiamo davvero piano. Mangiamo fragole di bosco e beviamo altri panorami. Planare sul primo luogo abitato dagli umani, ultima frazione sulla soglia della montagna, è un sapore variegato di gioia e tristezza. Ce l’abbiamo fatta, ma com’è insipido questo asfalto di “pianura”, e come sono già lontane quelle immagini così pure, che a filtrarle con Instagram ti sembra di sottoporre ad un bombardamento nucleare.

Standard
Soletta, Stream of consciousness

Non sapersi

Amore e guerra; amore è guerra. Incauta occupazione di territorio straniero. Dentro di te, nel giorno, nella notte, nelle cose da fare, in tutto. Essere invasa. La resistenza e la resa. Resa ovvero rendimento: si potesse misurare il frutto, il vantaggio, gettando sulla bilancia da una parte sé, dall’altra quanto si offre, quanto si perde e quel che rimane. L’unica certezza il consumo: del pensiero, della ragione, del tempo che evapora in congetture. Se fantastichi ciò che vuoi lo perdi, lo sciupi? O perfezioni e anticipi una possibilità? E poi? Resto o differenza: la differenza con l’altro, l’abisso che separa, attira e chiama, il vallo da colmare, il salto da sé. Lo prendo, mi faccio avanti e prendo ciò che è mio, ciò che non lo è ancora, quello che vorrei e non so, o aspetto che mi venga deposto tra le mani? Prendere o dare? Darsi? Si fa? Stare in punta di divano, le mani ferme in grembo, un vago sorriso in volto, il cuore che si contorce nell’attesa, o sporgersi dalla finestra di notte, indovinando l’ombra nell’ombra? Ciò che si deve e ciò che si vuole. Infine, ciò che si può. Posso qualcosa, io, sola, sola e femmina al mondo, o posso soltanto volere, sperare, e alfine dire sì? Si può dire anche no? Sì la freccia che conduce al futuro, no la pietra che ti trascina a fondo e lì ti lascia, tra le alghe, stordita come morta? Padre, padre, quante cose non mi avete insegnato; siete andato via troppo presto. Accanto a voi avrei saputo distinguere, valutare. Ascoltarmi e infine capire. No, avrei solo interpretato i vostri cenni, avida e curiosa, e mi sarei portata di conseguenza, rinunciando a pensare, a decidere, in facile pace. E sarei stata contenta così. Anche quello, anche il nostro era amore. Ma non è metro che si possa usare ora. O invece mi avreste aiutato a leggermi, con pazienza devota, come decifrando una lingua sconosciuta, in trepida anticipazione del messaggio? Voi, voi che già avevate deciso di lasciarmi andare, prima di tutto, prima di questo strazio. E io ora non so niente. Io non mi so.

 

Beatrice Masini, Tentativi di botanica degli affetti, Bompiani

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

Standard
Cineserie, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Quelli che fermano i carrarmati

C’era un ragazzo che come noi amava la vita e la libertà.

Ce lo ricordiamo tutti.

Ci siamo chiesti tutti cosa contenessero le sue borse di plastica.

Ma è passato tanto tempo, e forse qualcuno nemmeno se lo ricorda più, quel ragazzo. È passato talmente tanto tempo che nemmeno le borse di plastica esistono più.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo invece è appena ieri.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo è sangue che bisogna ancora lavare, se non verrà coperto da altro sangue.

Immagino che Beppe Grillo abbia a fianco a sé un giovane smanettone, uno che alla bisogna compone i fotomontaggi per il blog più seguito dagli italiani. Ligio ai suoi doveri di attivista, quel ragazzo taglia la testa ad Enrico Letta e la deposita sul corpo di un vampiro, ah ah ah, cose così.

Ieri, Grillo ha commissionato questo.

chistateproteggendo.jpg

Voi che lo votate, un italiano su tre, pensateci a questa perfetta “scelta di tempo” del vostro leader.

Ripetetevi che lui è fatto così, che son fatti così i comici. 

E continuate pure a prepararvi all’autunno.

 

Ah, il ragazzo, quello colle borse e senza Photoshop, si avvicinava al carrarmato fino alle strisce pedonali.

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness

Come WU MINGhia parli?

C’è un parlamentare grillino in ferie che sale in cima a una montagna e pensa bene di filmarsi per comunicare con tutto il movimento e tracciare una sorta di bilancio. Sembra un invasato, sarà l’altura, sarà lo scranno che occupa da qualche mese. Parla dei cittadini ancora da conquistare e il suo ragionare è a dir poco tortuoso: “Siate accoglienti con le persone che pensano di pensarla in maniera diversa da noi e invece no”.

 

Sfoglio “Repubblica”, stamattina, e la parola passa al collettivo dei collettivi, interpellato sul significato del concetto di “sinistra”. Un altro soggetto che ama rivolgersi al popolo, alla società e ai suoi movimenti. Sentite qua:

 

«Sinistra è una parola, è una visione del mondo. Non è fatta per un soggetto immaginario, cambia secondo la posizione da cui la dici. Come parola disincarnata è solo un’imperfetta metafora spaziale, bidimensionale, dunque inadeguata perché il mondo è pluridimensionale, e poi ha un sottotesto “parlamentare” che pesa perfino quando la usi in modo extraparlamentare…».

 

Chiaro no?

(Poi dice che uno vota Matteo Renzi…)

Standard
Imago, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Pensosa sul campo

La lettura di una fotografia può portare ad un numero di interpretazioni pari al numero degli interpreti: a ciascuno la sua. Giusto così. Questa ad esempio, in prima pagina oggi su un quotidiano delle mie parti, nella sua versione online è oggetto di commenti sferzanti: la gente ha bisogno e loro rivolgono lo sguardo dall’altra parte…

Io ho deciso di vederci l’esatto contrario e la faccio rimbalzare nella Pozzanghera come una buona notizia, dal fronte di una politica nuova.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

I numeri del Barcellona (anche lasciando Messi e Neymar in panchina)

Stavo annaspando nella calura agostana. Il mouse era sudaticcio come le news su cui cliccavo. Poi all’improvviso ho guardato l’immagine di un calciatore di spalle. La notizia era quella del suo debutto nella formazione che l’ha acquistato a peso d’oro. A colpirmi, però, è stato il numero sulla maglia. Un undici particolare, strano, vagamente a sghimbescio, somigliante al profilo stilizzato di due montagne, o al muso appuntito di due cavalli. Non ho pensato “bello”, ma mi ha incuriosito come sanno fare tutte le cose un po’ fuori posto, e tutti i frutti del pensiero divergente. Sono quindi finito su Twitter, digitando le parole chiave “numeri” e “Barcellona”, ed ho trovato reazioni di marca italiana estremamente severe: quanto sono brutti, fanno schifo, che roba è? Fino ad un emblematico: li ha disegnati uno spastico?

Fuochino (…e figura di merda).

I numeri li ha disegnati Anna Vives, che non ha lesioni di nessun tipo al cervello ma è una giovane donna con la sindrome di Down. Dopo una prima esperienza lavorativa in un supermercato, ha deciso di dedicarsi con successo al disegno e alla grafica. Probabilmente nelle partite ufficiali (quello di ieri sera era “calcio d’estate…”) la squadra catalana tornerà a sfoggiare i numeri “tradizionali” pensati dalla Nike; tuttavia, l’idea del calciatore Iniesta rimane molto dolce e suggestiva. Come lui, anche altre star dello sport spagnolo, il motociclista Lorenzo e il cestista Gasol, hanno voluto regalare notorietà al lavoro di Anna. Perché di lavoro si tratta.

 

Nel prossimo anno scolastico mi sa che a Scuolamagia scriveremo con Anna.

 

(Il font Anna, comprensivo di numeri e segni di interpunzione, si può scaricare gratuitamente, ma sul sito è possibile effettuare una donazione…) 

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Se il Principe diventa solo un tizio

 

Francesco De Gregori ha detto la sua in un’intervista al “Corriere della Sera”. Al solito l’ha fatto in quella maniera un po’ così, che sta alla simpatia come il giorno sta alla notte. Ha sparato nel mucchio della politica, affermando alfine di averne preso le distanze, dal mucchio. Ognuno è libero di concordare o meno con i singoli concetti espressi dal cantautore, di condividerne o no lo sguardo pesantemente disincantato.

Colpisce, tuttavia, il tono di alcuni commenti un tantino tranchant, e a titolo d’esempio cito quello del giornalista dell’Espresso Gilioli:

“Poi qualcuno mi spiega il senso di un’intera pagina di intervista politica a un tizio che fin dall’inizio spiega di seguire poco la politica, di non sapere chi è ministro di cosa, e che preferisce guardare dai finestrini invece di leggersi un giornale”.

Un tizio. Poi dice che è Grillo quello che storpia i nomi dei suoi interlocutori.

Il tizio scrive e canta da quarant’anni pezzi che – piacciano o non piacciano – raccontano l’umanità tutta e nello specifico questa sua piccola fetta che risponde al nome di Italia. Il tizio ha cantato il lavoro e le migrazioni, vecchie e nuove. Il tizio ha cantato i poveri, stivati sempre qualche piano al di sotto dei ricchi. Il tizio ha cantato la Storia: la guerra, il Fascismo e la Resistenza, spingendosi pure in quel ginepraio che è stata la Repubblica di Salò (e non gliel’hanno mai perdonato, troppo poco ortodosso, nonostante le parole inequivocabili: “parte sbagliata”). Il tizio ha cantato il terrorismo e le brigate rosse prima e meglio dei romanzieri e dei saggisti. Il tizio ha messo in una canzone il 12 dicembre 1969.

 

[Per non parlare di come il tizio ha cantato l’amore ché quello è un altro discorso.]

 

Se il tizio – invecchiato, imborghesito, insalottito, quelchevoletevoi – desidera quindi esprimersi su quest’Italia e le sue magagne, su chi tenta di governarla e su chi tenta di raccontarla, su Berlusconi e Renzi, sulla CGIL e l’Ilva di Taranto, io glielo lascerei fare e lo ascolterei anche se non sa quale sia il ministero guidato da Enzo Moavero Milanesi e anche se gli è sfuggito l’ultimo articolo (o l’ultimo post su Facebook) di Alessandro Gilioli.

Perché certe voci – liberi di dissentire – vanno ascoltate.

Ascoltiamoci, è un modo di resistere (con gli occhi aperti nella notte triste).

Standard
Piccola posta, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Lettera a Erich Priebke

Gent.mo Erich Priebke (!!??!!??),

 

vede com’è difficile già soltanto cominciarla, questa lettera? Capirà come non avrei mai potuto scrivere “caro,”, ma anche il “gentile” quello delle lettere formali, quello che non si nega a nessuno, quello che si scrive anche quando poi nella missiva si va al sodo di contestazioni critiche e reprimende, ammetterà che suoni strano, davanti alla palese non gentilezza di alcune sue prese di posizione e più in generale della sua condotta da quando nel 1995 è stato estradato in Italia.

La notizia è che lei sta per compiere 100 anni e soprattutto che qualche italiano sembrerebbe intenzionato a festeggiare il suo genetliaco e di farlo spudoratamente in un luogo pubblico. Non è di questo che le voglio parlare, tuttavia. Esistono i mezzi per evitare quello scempio e mi auguro che chi è nelle condizioni di utilizzarli lo faccia prontamente.

Ieri tutti i siti dei giornali hanno pubblicato un video in cui lei sta camminando su un marciapiede romano accompagnato dalla sua badante. Una scena come se ne vedono tante in giro per le città e per i paesi. Abbiamo infatti riscoperto la sua esistenza. Quel 100 tondo tondo ci ha ridestati dal sonno e abbiamo di nuovo incrociato quel suo corpo possente, certo invecchiato, ma ancora in grado di deambulare, seppur sostenuto, in maniera sostanzialmente dignitosa. Mi sono chiesto cosa volessero i nostri occhi da quelle immagini. Che lei incespicasse e sbattesse la faccia sull’asfalto? Che lei provasse vergogna nel veder catturata ed esibita la sua fragilità di vecchio? Pensi che lo showman Fiorello, su Twitter, ha appena associato la sua condizione di centenario alla morte di quel giovane motociclista avvenuta a Mosca pochi giorni fa. Sottinteso: come sono ingiuste le cose del mondo, un venticinquenne innocente ci saluta tanto presto e invece Priebke… Pochi istanti fa, invece, lo scrittore Erri De Luca sullo stesso social media le ha augurato di viverne altri 100, di anni: “possa trascinarsi per un altro secolo il suo nome maledetto…”.

Il suo caso ci interroga sul significato profondo della Giustizia. Lei è stato dichiarato – seppur dopo un iter giudiziario rocambolesco – colpevole per crimini orribili. Una giuria ha fatto i conti con prove certe, con riscontri oggettivi. La sua difesa ha avuto modo di giocare le proprie carte. Il verdetto nel condannarla ha tenuto presente la sua età avanzata, così come prevedono ordinamenti “uguali per tutti”, dal ladruncolo al boia nazista. Un difficile esercizio di ricerca della verità è stato portato a termine. Funziona così, in democrazia. Noi siamo “i buoni” e con i nostri strumenti da “buoni” abbiamo messo sotto la lente un tempo lontano in cui erano prassi le azioni di “cattivi” come lei. “Cattività” da cui, a quel che mi risulta, lei non ha mai preso le distanze.

Nei prossimi giorni si eserciteranno in tanti sul tema del suo compleanno. La immagino impermeabile agli insulti che nel tempo le saranno piovuti addosso in quantità, magari anche nel corso delle sue normalissime passeggiate colla badante. Ci saranno gli editoriali e le battute sagaci. Ci saranno le volgarità e le minacce. Ecco il punto: forse noi “buoni” non dovremmo cadere in questa trappola. Proprio perché non siamo come lei, proprio perché noi gli istinti li dobbiamo frenare, dobbiamo aiutarci vicendevolmente a farlo. Può capitare che qualcuno non si trattenga, è umano, ma ci dev’essere qualcun altro vicino che lo quieta indicandogli battaglie più urgenti su cui concentrare le energie.

C’è un vecchio criminale nazista che non schioda dalla vita e gode invece di ottima salute. Ma è stato condannato. La Giustizia si è pronunciata. La sua infamia è scritta, e può essere raccontata a chi verrà. Dovrebbe essere sufficiente. Perché, altrimenti, rischiamo di diventare al solito paradossali, noi italiani: prendere lei come facile obiettivo – lo sanno tutti cos’è un nazista – e gettare la spugna sul fatto che ormai moltissimi giovani ignorano che gente della sua risma, trent’anni dopo la guerra, faceva saltare le stazioni ferroviarie stracolme di innocenti. C’è talmente tanta Giustizia da fare, in questo paese e in questo mondo, per sprecare la propria rabbia e la propria indignazione su quella che – al netto dell’orrore che rimane e deve rimanere – è già stata fatta. Io la sua faccia, Signor. Priebke, me la ricorderò finché campo, e anche certi suoi infimi sorrisetti, ma la sua pratica mi devo sforzare di metterla in un’altra cartella. Io gioco coi “Buoni”, e i “Buoni” non stappano una bottiglia nemmeno quando muore un “Cattivo”. Se no che “Buoni” sono? Se tra buoni e cattivi non ci sono più differenze, o sono marginali, allora tanto vale che ci si definisca “i verdi” e “i blu”.

Qualche anno fa, l’allora responsabile della comunità ebraica italiana Tullia Zevi ebbe a dire, con riferimento al suo ergastolo: “noi teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo che il condannato resti in galera e ci muoia”.

Oltre a riportare questa citazione della Zevi, Adriano Sofri ha scritto nel suo Chi è il mio prossimo:

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.»       

La vecchia donna, sua moglie, è nel frattempo mancata in quel di Bariloche, Argentina. Del suo video a spasso per Roma non mi ha colpito la sua fiera fragilità di vecchio, bensì la dedizione e l’amorevole cura della sua badante. Un’altra donna. Italiana? Ispanica (in fondo lei ha trascorso decenni in Sudamerica…)? Originaria dell’Europa dell’est come capita spesso? Chi lo sa e cosa importa. I malpensanti avranno buon gioco nell’immaginare questa signora avidamente attratta dai beni che le rimangono, e dal fatto di poter “alzare il prezzo” davanti ad un utente così fuori dal comune. A me, invece, piace pensarla come una donna che ha ben chiaro un concetto: un uomo rimane un uomo, molto prima della feccia delle sue idee e delle sue azioni. Una che gioca tra “i Buoni”, insomma, quelli di cui ho voluto parlarle in questa lettera. Me la saluti.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Tutte queste cose passare

Ugo Riccarelli: nei suoi libri l’amore si faceva così

 

Allo stesso modo, quando fu nell’oscurità della stanza di Cafiero, stesa accanto a lui, le piacque perdersi nei suoi abbracci, lasciare che lui imparasse a conoscerla come un viaggiatore un Paese sconosciuto, così come per tanto tempo aveva immaginato che avrebbe fatto Sole alla ricerca di Oriente.

E a sua volta si fece vincere dalla curiosità di esplorare il continente che le stava accanto, e allora si stupì che sua madre avesse sempre raccontato l’amore tra un uomo e una donna come il tramestare d’animali che, quasi per conferma, l’Ulisse aveva poi esercitato nei confronti della Mena. E invece, mentre Cafiero per la prima volta entrava in lei, l’Annina gli si strinse contro e le parve di essere lei a possederlo, di essere un cielo così vasto da riuscire a tenere quella nuvola di carne tutta dentro il suo piccolo abbraccio, di portarselo dentro a conoscere luoghi che non avrebbe mai immaginato, e fuori di sé, di corsa e lentamente, in una camminata senza fine.

E il cielo sognò, più tardi, sfinita da quel viaggiare, e sognò anche le nuvole e l’Oriente, e l’acqua che risaliva i fiumi, e una notte piena di luce, e un treno che procedeva in retromarcia, e la Mena che seppelliva i propri vestiti, e lei che finalmente dormiva tranquilla sopra un nocciòlo.

Nei giorni seguenti, sola nella casa vicina alle mura, sentì questa tranquillità come qualcosa alla quale non avrebbe mai potuto rinunciare, qualcosa che era saldato col sangue a Cafiero, e quando si accorse di sentire ancora su di sé l’impronta del suo corpo capì che non avrebbe mai potuto rinunciare a quel peso, né per le chiacchiere del paese, né per il Prataio, né per il buon nome dei Bertorelli.

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori.

 

Standard
Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Stringendo l’occhio, guardando il fiore del grano

Non ho mai letto un libro di Vincenzo Cerami, al massimo qualche suo intervento sui giornali. Non ho motivo per piangerne la scomparsa o per lodarne l’opera semplicemente perché non ne so abbastanza. Tuttavia, un piccolo senso di colpa mi ha punto in questi giorni, per aver sbeffeggiato il suo racconto protagonista della Prova Nazionale Invalsi del 17 giugno. Il testo, non credo rappresentativo della grandezza dello scrittore, era in realtà incolpevole; a farlo precipitare nei bassifondi del ridicolo sono state ovviamente le domande apposte in calce dal carrozzone nazionale preposto alla valutazione del sistema scolastico.

Leggendo qua e là, però, ho scoperto che alla penna di Cerami – il Cerami sceneggiatore – devo alcune pellicole a cui mi legano ricordi piuttosto tenaci. Nessuna pietra miliare della filmografia mondiale, d’accordo, ma piccole storie tutte venate da una loro ingenua purezza, tutta roba che oggi non potrebbe esistere e finirebbe inevitabilmente dentro la centrifuga del cinismo. Erano storie di padri magari tutti sbagliati, sbalestrati, perduti, ma che non perdevano la forza di guardare negli occhi, con dolcezza, bambini incapaci di recitare come tutti i bambini dei film, almeno di quelli italiani. 

 

 

Standard
Res cogitans, Soletta

Miss Charity

Stavo subito per commettere uno sbaglio, scrivendo che il nuovo libro di Marie-Aude Murail dovrebbero leggerlo tutte le ragazze dai 10 a 94 anni. In realtà sarebbe molto meglio lo leggessero i maschi, nonostante l’edizione italiana strizzi pesantemente l’occhio a un pubblico di genere, con coniglietti e foglioline color glicine. La coraggiosa emancipazione di Miss Charity nell’Inghilterra di fine ‘800, dove avere successo in una professione, per una donna, equivaleva ad una sorta di crimine e criminali erano per tutti semplici azioni come andare a teatro o imparare a memoria un sonetto di Shakespeare, è un processo lungo quasi 500 pagine, coloratissime e piene zeppe di humour. 

A dare un ritmo da commedia al romanzo, la trascrizione dei dialoghi nelle modalità del testo teatrale, idea originale e soprattutto efficace.

 

KENNETH ASHLEY

Ccc…osa vi è successo?

 

MISS CHARITY

Quello che succederà alle donne.

 

KENNETH ASHLEY

?

 

MISS CHARITY

Mi emancipo.

Standard
Soletta, Stream of consciousness

Il Medioevo prossimo venturo (non è un post su #Calderoli)

 

La bambina se la molli libera in un prato comincia a fare la ruota. Una ruota, due ruote, infinite ruote. Trova energie impensabili e non suda. Poi si siede composta e stringe di nuovo nella manina il suo A4. Quel foglio è la fotocopia di un manoscritto medievale. Sopra ci sono i neumi, per farla semplicissima gli antenati delle note, e quello è un’alleluja del IX secolo. Finita la piccola pausa, si ricomincia a cantare.

Ho incontrato quella bambina e un’altra ventina di ragazze e ragazzi dentro un campeggio estivo decisamente sui generis, a cui sono stato invitato per portare un minuscolo contributo teatrale.

Una meraviglia. L’annuale ritrovo di quel giovanissimo coro, sempre ospitato tra una fresca cornice di monti, prevedeva una full immersion, appunto, nella musica medievale. Quanto di più lontano uno possa pensare dalle menti e dai corpi di bambini e adolescenti. Potenza della musica e di ottime insegnanti, invece, ho visto canti gregoriani sorseggiati come bicchieri d’acqua, con smorfie di fatica, certo, ma mai di noia. Mai.

Ho visto cose che voi umani manco vi immaginate.

Ragazzi che giocano con racchettoni e volano cantando il latino. Ragazze che controllano un po’ furtivamente sul display se è arrivato un sms, ma non smettono nemmeno in quel frangente di produrre suoni celestiali degni un monaco camaldolese. Un bambino con la maglia del Barcellona in grado di eseguire un brano nel francese del 1200 con la stessa disinvoltura con cui palleggiava imitando Neymar.  

Canto colorando coi pennarelli, canto mangiando le carote, canto allacciandosi la felpa. Canto libero, senza imposizioni, ma anche senza scorciatoie. Così come doveva essere in quei tempi là. Che a scuola ci insegnano fossero estremamente bui, ma che io ho visto risplendere di luce come poco altro prima d’ora.

Standard
Soletta, Stream of consciousness

Ho trovato una poesia con dentro Margherita Hack

 

quando il sole si spegnerà

di colpo

impiegheremo 8 minuti ad accorgercene

 

mi ricorda quella volta che mi guardasti in faccia

e mi dicesti

– sappi che non ti amo più

 

impiegai 14 minuti a capire

passarono 13 minuti e 59 secondi

prima che calasse il buio

e il freddo

 

eri già più lontana del sole, allora

 

non è chiaro come sopravvissi

non è chiaro come ti riaccendesti

 

bisognerebbe chiedere a Margherita Hack

ma probabilmente c’ha di meglio da fare

 

 

14 minuti, Guido Catalano

(tratta da Piuttosto che morire, mi ammazzo, Miraggi Edizioni) 

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Il fatto che non piangiamo

Mi schiaffeggio. Verifico di esser sveglio, di esser vero. Il genere letterario che maneggiano le mie pupille sul laptop è proprio quello, non c’è verso. Sto leggendo un’omelia. Maquandomai? E mi convince pure, non c’è santo. Anzi sì, c’è, ed è colui che l’ha pronunciata, oggi, a Lampedusa. Sono ancora ricoperto da una fitta tela di ragno di pregiudizi, mi sembra tutto così assurdo, ma quello che vedo davanti a me è un gigantesco supplente. Nessun leader politico sarebbe andato lì, e in quel modo, nemmeno dopo aver vinto le elezioni col 79%. Questo va lì e dice: è colpa nostra. Questo va lì e dice: cazzo, abbiamo un problema, quelle morti non ci fan piangere. Cioè, cazzo Lui non lo dice, ma non possiamo non dirlo noi che è proprio quello, il fottutissimo problema. Il mio, il vostro, quello di tutti, anche se Lui non dice neanche fottutissimo.

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

L’arte tutta femminile di incastrare le corriere

 

Immaginavo fosse dura leggere di un Tour de France senza la penna di Gianni Mura, la sua passione per le storie incastonate come perle dentro la cronaca, le sue sublimi divagazioni, ma così è davvero troppo. La Grande Boucle si apre con una tappa pasticcio, un inconveniente dietro l’altro, e un episodio tra i tanti riconcilia teneramente con la fallacia degli umani. Un superpullman guidato da un superautista (uomo) si incaglia maldestramente sotto l’arco del traguardo montato da tecnici (uomini, con tutta probabilità) nell’ambito di una corsa di corridori (uomini) organizzata e diretta da importanti personalità (uomini) del ciclismo francese, prima di venir soccorso da una provvidenziale squadra di pompieri (uomini). Il tutto davanti a qualche centinaio di milioni di telespettatori (per gran parte uomini) sparsi per il mondo.

Ecco la cronaca dell’inviato (uomo) di “Repubblica”.

 

«Il genio al volante (c’è un filmato già cult) alza gli occhi e,

come vostra moglie al parcheggio dell’ipermercato,

decide che sì, lì ci passa».

 

Chiudo il giornale, se non ora quando?

 

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due vite in una

 

Ho notato uno strano pudore nei ricordi commossi del calciatore Stefano Borgonovo. È stato giustamente messo in luce il suo coraggio, è stata con forza raccontata l’impari sfida alla malattia che ne ha fatto un eroe. Si è detto dell’infinita dignità e della generosità.

Il pudore che non comprendo riguarda il prima. Perché non ricordare anche l’atleta nel pieno della forma, perché non mostrare in Tv gli stacchi imperiosi, le rovesciate acrobatiche, gli slalom tra i difensori avversari… Come se la seconda vita di Borgonovo avesse in qualche modo oscurato e vanificato la prima, come se tra quelle due esistenze ci fosse un’incompatibilità di fatto. Essere stato l’emblema della vigoria fisica a mio avviso non ostacola e anzi sublima la successiva struggente testimonianza di quell’uomo che della vita ha bevuto davvero tutto il succo.

Ci pensavo, ieri sera, e mi è venuto in mente un pomeriggio allo stadio. La squadra di casa, a rischio retrocessione, offriva biglietti a prezzi stracciati per richiamare in curva sostenitori depressi. Una delle tre partite a cui ho assistito dal vivo, tutte da adolescente o poco più. Udinese-Cremonese 3-3. Con doppietta di un elegantissimo, regale, felpato Stefano Borgonovo. 

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

La verità di Alice

Le avventure di "Alice in Newland".
 
No. Io non sono una bambina affettuosa.
Non nell’accezione che di solito si dà ai bambini affettuosi.
Se mi chiedi un bacino non te lo darò mai.
Neanche se sei mia madre, mio padre, mia nonna, la mia migliore amica. 
Neanche se sono mesi che non ci vediamo. 
Mai.
 

 

Questo post è stato pubblicato il giorno in cui a scuola cominciavano gli esami. Fuori tempo massimo, quindi, per entrare a far parte dell’Antologia dei miei alunni. Da qualche anno, infatti, ho smesso di affidarmi ad una raccolta ufficiale di testi letterari. Ho detto basta con quel gran calderone messo insieme da un arbitrio che non era il mio, in cui magari i curatori pensavan bene (maleee!!!) di ammazzare i brani con qualche domandina “Invalsi style”, per allenare i ragazzi alla comprensione di ciò che gli adulti desiderano con intransigenza essi comprendano.

Così, l’Antologia nasce giorno per giorno nelle mani degli alunni, attraverso fogli stampati o fotocopiati che si accomodano nelle bustine traparenti di un quaderno ad anelli o in quello che tecnicamente si chiama “portalistino” e viene via a pochi euro in qualsiasi cartoleria. Il numero esiguo di alunni non mi fa nemmeno sentire troppo in colpa per lo scialo – davvero minimo – di fotocopie.

Per rendere più gradevole l’oggetto, ogni tanto ci concediamo un foglio colorato o la stampa di una bella immagine; ognuno poi è libero di inserire disegni e di personalizzare la copertina.

Ma torniamo al post di cui sopra, tratto da un blog di cui ho già scritto e che “a volte ritorna” nell’Antologia di Scuolamagia. Senza che nessuno studente si sia mai lamentato, senza che nessun dodicenne maschio abbia mai sollevato sospetti di cicciopucciosità da ragazzine.

No, ad Alice si sono affezionati tutti, e chi rimane assente il giorno in cui leggiamo un post reclama quando torna la fotocopia mancante. Un gesto che viola e contraddice ogni statuto di vita studentesca. 

Il perché di questo successo?

Credo abbia a che fare con il fatto che quella bimba esiste davvero. E che quelle pagine trasudano verità. Tutta la verità, nient’altro che la verità. E tutto questo – com’è giusto – Alice non lo sa. 

Standard