Imago, Soletta

Dolls

Parto dalle biciclette fotografate da un giovane fotografo francese e scopro le sue bambole. Artificiose. Morbose. Sdolcinate tra i dolci. Inquietanti. Vive, ma in quella maniera lì. Con quella costante presenza di mani e braccia altrui – adulte e bambine: a cingere, carezzare, sfiorare. Consapevole che tra 26 minuti potrebbero disgustarmi, alle 20.04 dell’8 novembre decido che queste foto mi piacciono e che meritano di galleggiare sull’acqua marroncina della pozzanghera.

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Andrei Vado fa il mondo

Gian Luca Favetto ha scritto 41 racconti. Quarantuno biografie. Non stanno dentro un librone spesso così, stanno dentro un librino spesso come la custodia di un CD. E stanno pure dentro un CD, perché l’autore ha deciso di leggerli uno per uno per Il Narratore audiolibri.

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“I nomi fanno il mondo”, s’intitola la raccolta, e porta lontano, davvero nel mondo, e mille mondi schiude, per davvero. Ad alcuni nomi ti affezioni, altri affascinano, altri spaventano e inquietano. Alvise Fantasia, Arianna Levi, Angelo Maddalena, Giacomo Bambina, Cesare Balìa, Mariko Miyranawa.
Andrei Vado.  

Era un uomo indeciso. Alto, le spalle incassate e indecise. Anche i riccioli, indecisi.
Anche la barba, qualche giorno sì, qualche giorno no, qualche settimana lunga come viene, qualche settimana curata con le forbicine. Indecisa la corporatura, tra il flaccido e l’atletico.
Si chiamava Andrei Vado. Andrei, come il nonno venuto dalla Russia, lui sì risoluto nel rifarsi una vita.
Aveva la condanna del nome: non stava e non andava, si spostava titubante di qualche metro e subito ritornava sui suoi passi, le braccia molli abbandonate lungo i fianchi.
Anche i passi erano indecisi e le braccia, con indecisione, ciondolavano.
Andrei Vado, decidi: o andresti o vai. E se non vai, non continuare a pensare che potresti andare. E se vai, non continuare a pensare che saresti potuto rimanere. Così ti perdi.
“Ma so dove ritrovarmi, almeno” – diceva sorridendo, seppure indeciso: un uomo, intero, in un’esitazione.

Quando Favetto ha scritto di Scuolamagia, qualche tempo fa, ha giocato anche con il mio, di nome. “Dicendo”, in italiano. E in effetti era ed è il succo del mio mestiere: dire.
“I nomi fanno il mondo”: 41 piccoli romanzi che ho letto/ascoltato pedalando in bicicletta, con gli auricolari e il rischio di non sentire un clacson, o sulla cyclette, nei giorni di pioggia o di poco tempo per le due ruote.
Consiglio vivamente.
Ehi, sembra un nome, Consiglio Vivamente… Brutto quanto si vuole, ma chissà qual è la sua storia…

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Gente che conta

Oggi “Repubblica” ha fatto 30. Ha dedicato due pagine importanti, illustrate da un bellissimo disegno di Gipi, a quello che secondo me, e non si tratta di una convinzione odierna, è il più importante giornalista italiano. Non è Giorgio Bocca, non è Ezio Mauro, non è Gian Antonio Stella. Non è uno che frequenta la Tv, non incrocia la penna con Belpietro e Feltri. Non va nemmeno da Fazio a presentare il suo libro, e molto probabilmente non andrà ospite da Saviano (anche se sarebbe bello stupirsene). Lui si occupa di tenere il conto.

«Il ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro in Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell’Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, fra torture e violenze di ogni tipo.» […]

Conta, Del Grande. Conta e racconta. Anche “Repubblica” conta, nel senso che “è un giornale che conta”. Sarebbe importante che potesse contare, nella sua squadra, anche sulla firma di questo coraggioso giovane. Un contratto, un bel contratto di lavoro. E farebbe 31.

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Generazione PDG

La scatola di latta è riposta nelle fauci del grande drago di cartone, vicino alla leggerìa dov’è bello sedersi per terra con le parole degli scrittori, a fianco dell’armadio con gli atlanti e il vocabolario e il disordine. In fondo alla classe, dove il sole autunnale picchia forte tra le 9 e le 10. È dalla scatola di latta che ha inizio il rito, con le mani avide che la aprono e distribuiscono i piccoli involucri viola, pronti a schiudersi all’unisono. Nato così, come nascono i riti a scuola, come nascono i riti sempre.

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Ci fanno impazzire le caramelle RICOLA al SAMBUCO, ecco. Svelato l’arcano. Solo che in 3ª C le chiamiamo PDG, alias “caramelle al piscio di gatto”. Sono buone, ma l’odore che resta nell’aria tagliata dai fiati è proprio quello, tutti d’accordo. E fa ridere. Provare per credere. Basta mangiarne una in casa di un ignaro possessore di felini. Si chiederà subito dov’è Fufi, …quel gran mascalzone. Poi se ne va subito, l’odore, ma resta in bocca il dolce dello zucchero e di un bel momento. E si ricomincia, e si riparte. Di nuovo parole, idee, fatti, storie, popoli, teorie, donne, uomini, tempi, presente passato e futuro.

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Imperativo

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Si chiama Imperativo perché proprio quel giorno, in classe, si coniugavano ordini. Argomento fugace, quel modo verbale col punto esclamativo, ché il condizionale e il congiuntivo – bestie ben più nere – reclamano spazio e ore di lezione. La sua padroncina mi ascoltava attenta e con l’espressione un po’ annoiata. Mi dimostrava ormai da mesi di saperli usare divinamente, i verbi, e quella mia grammatica le sarà sembrata uno strazio. Imperativo conteneva penne nere e evidenziatori gialli, la colla e un paio di forbici che ho cercato spesso per tagliare i quadratini di carta colorata su cui faccio viaggiare i temi per casa. Conteneva gomme, matite, tutto quel che serviva a chi lo metteva ogni giorno in cartella. Io quando passavo a controllare un quaderno, a sbirciare un disegno, gli facevo una carezza. A volte mi avvicinavo direttamente per fargli una carezza, e mascheravo il gesto fingendo di controllare un quaderno, di sbirciare un disegno. Poi, in terza, Marghe ha cambiato astuccio, forse perché era cambiata anche lei, e ne aveva acquistato uno da ragazza della sua età. Forse un po’ si sentiva in colpa, e verso entrambi: me ed Imperativo. A fine anno era tornato, evviva, con l’espressione sempre malinconica e il naso spelacchiato.
Oggi, finita la lezione, Marghe, che da qualche mese frequenta il liceo, mi aspettava per consegnarmi il suo astuccio delle medie. Io è una vita che non possiedo un astuccio. Dell’ultimo ricordo soltanto una spilla con Nathan Never. A scuola arraffo penne qua e là. Che in genere restituisco, che spesso perdo. Se mi serve una matita, so di trovarla nel libro che sto leggendo. Se mi serve una gomma, so che non posso correre il rischio di tracciare una linea storta.
Ora sto riempiendo Imperativo. Marghe forse si è sentita come il personaggio di Toy Story che è ormai diventato grande. Io mi sento grato a Marghe che mi ha regalato un ricordo prezioso.

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Memorie dal sottosuolo

Quando la corda metallica smetterà di scendere e dovrà soltanto salire. Quando il motore che cala e richiama la capsula avrà soltanto un ultimo sforzo da compiere. Quando gli oggetti di quel bivacco di fortuna staranno per essere abbandonati per sempre. Coperte e bicchieri, le carte da gioco, le tessere del domino. Quando all’ultima madre in superficie rimarrà da pronunciare l’ultima preghiera, e al ministro l’ultima parola di circostanza. Prima di richiudere la grata cigolante dello sportello, ammaccato da più di trenta tuffi nel sottosuolo. In quel momento lì, a quasi un chilometro dalla vita, nel luogo dove non tornerà nessuno, senza nemmeno una luce da spegnere, una sedia da rimettere al suo posto. In quel momento lì, ne sono sicuro, quel cileno dirà qualcosa di bellissimo.

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Cervelli in foga

Ho raccontato in classe un aneddoto che ho appreso in una conferenza. L’ho semplificato a dovere, un po’ per mediare il linguaggio degli scienziati davanti a dei cuccioli, un po’ perché dubito pur’io di aver capito proprio tutto tutto tutto per benino. Insomma, sembra che il loro – il loro = degli adolescenti – sia il miglior cervello che un essere umano ha a disposizione in vita. È a 15 anni che guidiamo, spesso privi di patente, una Ferrari, una Porsche, una Lamborghini. Piano piano, in seguito, ci adattiamo all’anonima  comodità di una Punto diesel. È la natura, baby, anche perché 90 anni sulla fuoriserie sarebbero insostenibili, decisamente fuori portata. Il conferenziere, molto più poeticamente, con me ha utilizzato la metafora dell’albero, mai così frondoso e fiorito come nell’età dei brufoli. Crescere, giocoforza, sarà una sorta di costante potatura, al cospetto di un tronco che una chioma troppo rigogliosa non la può proprio reggere.
E in classe ci sono rimasti male. Lusingati, all’inizio, abbacchiati alla fine, mentre ripetevano nell’aria il gesto definitivo della sforbiciata che sfronda.
Mannaggiamme.

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L’immagine è tutto

Attività da primi giorni di scuola, quando gli insegnanti alle latitudini di Scuolamagia, loro malgrado, sono più rari dei panda nei boschi del Sichuan. E a me tocca “accorpare” cuccioli appena affacciatisi oltre i confini della scuola primaria insieme a cuccioli in preda a palesi arrembaggi ormonali.
Dico facciamo un giornale. Anzi, dico: un giornale a testa di cui siete i DIRETTORIRESPONSABILI. Do qualche dritta e abbozzo una bozza. Regalo esempi e ricordo che il computer per questa volta se lo devono scordare. Sarà un prodotto artigianale, il “Giornale delle loro Vacanze”. Dopo un po’, però, cedo alle richieste dell’alunna che ha già riempito fogli di protocollo di parole e disegni e c’è proprio quella cosa che con la matita non si riesce a rappresentare per eccesso di complicatezza. Prometto una stampa dal pc. Alcuni vivono il gesto come un’insopportabile privilegio ad personam e protestano vivacemente. Sono troppi, sono una prima una seconda e una terza ma a me sembrano un quarto stato. La politica a scuola funziona così, e dopo pochi minuti è bell’e promulgata una LEGGE: scenderò in aula informatica per stampare da GOOGLE IMMAGINI una fotina per ognuno dei miei giornalisti-alunni. Sarà compito loro precisare su un apposito foglio l’oggetto del desiderio e soprattutto dei loro racconti.
Ecco. Si pensa e si dice spesso che siano “tuttiuguali”, i ragazzini di questo tempo, vittime di omologazione e di marketing standardizzante. Ogni tanto lo sospetto pure io. E invece no, ed è ad uso e consumo di questa visione ottimista che riproduco la macedonia infinita di quel foglio stropicciato con i loro desiderata.

Un koala
Uno smartphone
Una scatola piccola di Mikado
Una spiaggia della Sardegna
Un candelabro a sette braccia e una croce cristiana
Un trattore DEUTZ-FHAR 600
Una bicicletta
Caorle
Una motosega STHILL 36
La copertina del libro: “Un progetto super segreto”
Una chitarra
Uno snowboard BURTON (visto davanti e dietro)
Una foto di Ibra, possibilmente che esulta dopo aver segnato contro l’Auxerre
Un orso polare
Un paio di All Star Converse
Un Kinder Bueno
Una foto di Giua
ADSL senza limiti
Una baita
Pato, Ronaldinho e Robinho
Un fucile da biathlon

Richiesta particolare: “per favore mi verifica su Wikipedia la data di morte del pilota Tomizawa?”.

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I piccoli signori delle mosche e 2 sui quali le mosche si rifiuterebbero di planare

Mi ponevo astratte questioni di stile, mettendo l’ultimo lavoro di Gabriele Del Grande a confronto con il precedente lavoro di Gabriele Del Grande. Mi interrogavo su quale fosse la copertina più azzeccata, e su come fosse evoluta la scrittura del giovane e coraggioso giornalista. Mi sono subito chiesto cosa stessi facendo, però, sentendomi all’improvviso come uno che disperso nel deserto sta a disquisire sul colore dell’acqua di due pozzanghere. Invece di berle entrambe per intero, perché solo così si può sopravvivere.

Oggi che un ministro del governo del mio paese ha giustificato la routine degli spari sui clandestini, sottolineando che mai e poi mai i libici aprirebbero il fuoco sui pescatori italiani.
Oggi che un importante esponente della maggioranza ha dichiarato questo:

«Abbiamo un interlocutore che è Gheddafi, che presenta caratteristiche singolari, ma con il quale dobbiamo fare i conti. Può scaricarci migliaia e migliaia di immigrati sulle nostre coste».

Oggi che… “SCARICARCI”.
Come si dice (fa notare il blog METILPARABEN) dei rifiuti, dell’immondizia.

Del fango.
Della merda.
Oggi.

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La piccola signora delle mosche

Si sa, su Facebook si fanno cose che hanno decisamente poco senso. Tipo: diventare amici della moglie di un dissidente cinese. La moglie di uno che è stato fatto sparire, imprigionato. Una ventisettenne che vive da anni agli arresti domiciliari. Uno legge la sua storia triste e coraggiosa di attivista dei diritti umani, di cyberdissidente, e della sua prigionia in un quartiere paradosso: “La Città della Libertà”. Poi, grazie a YouTube, ecco il suo documentario di lotta e di protesta: Prisoner in Freedom City, altro capolavoro di coraggio, con quel cartello mostrato in strada ai poliziotti in borghese sempre pronti a pedinarla. Quando si dice: protestare, far sentire la propria voce. Altro che fischi a Schifani.
Infine, ultimo passaggio, si digita il nome sul motore di ricerca di Facebook e si aggiunge Zeng Jinyan ai propri amici, tra gli alunni e gli ex compagni di classe. Ma perché?
No, un senso sembra proprio non esserci.
Poi una mattina leggi uno status, in quello spazio dove la gente scrive che è triste o che è felice, scrive “che palle!”, scrive “son finite le vacanze”, leggi uno status – o, meglio, te lo fai leggere da chi sa, ché Zeng Jinyan scrive in cinese – e te lo porti appresso per tutto il giorno e provi a renderlo in italiano come se tu fossi quello che traduce Shakespeare per la prima volta. Perché quella è la vita vera, ma è anche una poesia meravigliosa. E perché dai diamanti non nasce niente, da Facebook possono nascere fiori.

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«Si è rotta una finestra, l’ho riparata; la lampadina si è spenta, l’ho cambiata. Una mosca ronza per la casa da parecchi giorni e non io non sono riuscita a fare niente; Hu Jia fai presto, torna a casa e scacciala».

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Il piccolo signore delle mosche

C’è la foto del bambino con le mosche e c’è il bellissimo articolo di Adriano Sofri che mi ha afferrato per un orecchio come si fa con uno scolaro discolo, e mi ci ha ricondotto davanti per un’appendice di pensieri. Quelli pensati davanti al colonnino del giornale online, tra le rovesciate volanti dei campioni e le tette svolazzanti delle soubrette, non erano abbastanza.
Così, è venuto in mente anche a me come a Sofri l’aneddoto di Giotto, di Cimabue e della mosca dipinta più vera del vero. E anche il disegno sulla scatola dei pastelli intitolati al grande pittore.
Però mi sono ricordato soprattutto della storia di Kevin Carter, il fotografo premiato per la foto della bambina la cui morte per stenti era attesa da un paziente avvoltoio. Una tragica foto, tragica fino al punto di spingere al suicidio il suo autore, incapace di perdonarsi l’essere stato a sua volta avvoltoio paziente, con il suo zoom e il suo clic da premio Pulitzer.

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La lingua PRECARIA di Dell’Utri

Le cose della vita: uno sta più di un mese senza scrivere una riga e poi prova a ricominciare parlando di Marcello Dell’Utri. Non avevo niente di meglio da fare? In effetti…
Fatto sta che il buon (?) Marcello ha preso carta e penna per scrivere a “Repubblica”. E qui potrebbe sorgere spontanea un’obiezione: figuriamoci se la lettera l’ha scritta lui; il politico avrà come ogni personalità che si rispetti delegato un ufficio stampa, un ghostwriter. Però, nella fattispecie si trattava di replicare, sul tema dei presunti diari mussoliniani di cui Dell’Utri è in possesso, a un caustico (al solito) articolo di Francesco Merlo, uno che se ti rade al suolo ti sta facendo un complimento. Uno così feroce che mentre lo leggi, anche se ha pienamente ragione, solidarizzeresti col suo bersaglio polemico anche se si chiama Marcello Dell’Utri. (Update: no, se si chiama MD’U no…). Insomma, non si trattava di una precisazione puntigliosa, era una vera battaglia campale.
Conclusasi, vengo al punto, con un invito del giornalista di “Repubblica” al senatore del Pdl, in un brevissimo corsivo, a mettere da parte gli interessi storiografici per dedicarsi piuttosto alla cura della sintassi. Cosa c’entra la sintassi?
Nei giorni in cui la scuola italiana lascia a casa migliaia di professionisti di cui si è servita nel corso degli anni, quello che nella maggioranza governativa passa per uno dei più raffinati intellettuali, il bibliofilo Marcello Dell’Utri, infila 3 errori da penna blu in una missiva di 10 righe. Errori veri, roba grossa, mica refusi imputabili al precario di “Repubblica” (chi è senza peccato scagli ecc…) che ha fatto “copia e incolla” per impaginare la risposta a Merlo…
Parli e scriva quanto vuole, il discusso uomo politico, dei diari del Duce e pure di quello di Hello Kitty. Ma basta dargli dell’intellettuale, please. O dare per scontato che lo sia.

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Anna, Enzo, Pamela, Claudio e Lucia

The road
Complici il mio viaggio in Cina, il navigare intermittente tra le maglie della censura e l’inevitabile finire un po’ fuori dal mondo che prende in quelle lande, mi è sfuggito un post di Anna Gattico, sul suo blog paralimpico. Figuraccia, la mia, di quelle grandi. Perché lo scritto di Anna parla di me e di Scuolamagia. E di Lucia, che a malincuore a Scuolamagia si è laureata a giugno “ragazzadascuolasuperiore”.

Con venti giorni di ritardo, un grazie grande a tutti i protagonisti di questa piccola grande storia. Una storia di sport e di scuola, e di quando sanno andare a braccetto.

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Le canzoni oneste di Giua

In un suo vecchio rendiconto dal Premio Tenco, Gianni Mura faceva le pulci ad alcuni grandi nomi del cantautorato italico. In quell’edizione c’erano Ivano Fossati – “la sensazione è quella di stare dentro un bicchiere di ghiaccio” (!!!) – e Eugenio Finardi – “come stare dentro un bicchiere di miele, e non è certo una sensazione migliore”. Per dire, nessuno è perfetto. E de gustibus non est disputandum, anche. E nemmeno “sputa(na)ndum”, oibò!, come Gianni Mura faceva con Fossati, che algido proprio non è e anzi può darti fuoco quando vuole con due scintille di pianoforte.
Io un giorno ho scoperto le canzoni di Giua e un difetto glielo devo ancora trovare. Certo, sono ancora poche, ma lì è solo questione di pazienza. La notizia è che tra alcuni giorni, il 3 agosto, Giua suonerà nella mia cittadina, lo farà in uno scenario suggestivo (ma che cose banali scrivo: da che mondo è mondo tutti gli scenari sono suggestivi…). Lo farà accompagnata dalla sua chitarra. E la chitarra accompagnerà – mano nella mano – i testi delle sue canzoni.

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Piccolo bignami, quindi, giusto per rendere l’idea.

«E penso ogni tanto a quello che sono / una cattiva vendetta, un cattivo perdono…»

«Le tue mani conoscono il freddo / e la pioggia che ha intriso i tuoi pantaloni…»

«Belle le domeniche di cicale / a imparare un rumore / al fremito, al desiderio / di mare. / Bella la tua faccia di donna / e il suo gioco di ombre / bella la tua vita non mia…»

«Che nessuno la baci / la tua faccia bianca di cera / e che il tempo migliore ti accompagni la sera…»

«Tagliano i denti tagliano / parole di vetro e i pensieri si sbagliano / tu scrivimi dall’ombra di un foglio / e ti dico che niente, niente / poteva andar meglio…»

«Stoppa gialla, malva, marna, madido / sorte sorta senza calma, ispido. / Sei tu, tremore lucido…»

A scanso di equivoci, Giua non è la musicista da torre d’avorio, la cultrice dei palati fini. Giua si colloca al di fuori dell’eterna lotta tra i fenomeni di nicchia e i fenomeni da baraccone. Giua è il miracolo che si ripete (ma mica tanto spesso, si ripete…) delle canzoni quando sono belle e lo sono in se stesse e soprattutto… arrivano al dunque di un’emozione. Il miracolo della musica leggera, “ma come vedi la dobbiamo cantare”.
In fondo, parafrasando un grande poeta, ai cantautori non resta altro da fare che le canzoni oneste.
Siete tutti invitati a sentire le canzoni oneste di Giua, il 3 agosto a Gemona.

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