Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

La gatta che lecca il gatto per cinquemila anni

Un bel racconto di Gipi, il disegnatore, che fa così…

Fa schifo l’Ipad.
Il mio iPad fa schifo.
Lo guardo, appoggiato sul tavolo proprio sopra un album acquarello trecento grammi al metro quadro, in conflitto aperto con pennelli e penne e blocchi di colore giganti.
Il tavolo da disegno, tavolo, che vuol dire in legno, è tutto intorno, con barattoli e acqua e matite e pennarelli e gomma. Un barattolo. Quello che lavorò come posacenere per anni e adesso (poverino) si è ridotto a contenere pelle di lapis.
L’iPad sta in mezzo e sopra a questo. Nel mezzo.
Io lo guardo e penso: che schifo.
Fa veramente schifo.

(continua qui, e farà meno schifo, poi di nuovo, poi no… e questo è il bello)

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Ragazzini corrono sui muri neri di città

Alle giornate di caldo tropicale sono seguiti giorni di pioggia battente e inconsueta. Nulla che possa fermare il fiume impetuoso di biciclette arrugginite sulle strade a 10 corsie. Affascinanti e, nella fattispecie, decisamente prive di sistemi frenanti.
Sull’asfalto tutto un fiorire di pozzanghere. Torbide come un cappuccino di Starbucks, quasi navigabili.
E proprio su una pozzanghera, casualmente vicina alla Pozzanghera che sono io, è planato ieri sera un bimbo. Simpaticamente, facendomi schizzare l’acqua addosso, coprendo il ciaf ciaf con un urletto tutto suo, che magari era anche “parola” e “senso”. Adesso arriva una mamma e lo prende a sberle, ho pensato, nonostante il suo gesto non fosse poi tanto grave. Invece non è arrivato nessuno. Anzi, è arrivato lui. Si è fatto più vicino, tendendo una manina come una piccola chela di granchio. E io l’ho presa, anzi ho lasciato che un mio dito si facesse prendere. Ancora due passetti e il bimbo – cinesissimi capelli neri, la maglietta scura, i pantaloncini sotto il ginocchio –   si è aggrappato alla mia gamba sinistra. Stretto. E ha cominciato a chiedere, straziante. Nella sua lingua. E io lì, ad aspettare ancora quella mamma – andava bene anche un papà,  una sorella, una nonna – che ormai era chiaro non sarebbe mai arrivata. Hanno dovuto farmelo capire, che il bimbo era solo e che chiedeva denaro agli occidentali di passaggio. Da solo, ho quindi visto che altre creature come lui erano pronte a fare lo stesso, nella città che a questo punto non riconosco più.
Nelle precedenti esperienze pechinesi non avevo mai visto nulla di neanche lontanamente simile. Oggi la città sbandiera la sua nuova ricchezza ma anche un rovescio di medaglia che la fa somigliare ad una calviniana città invisibile. C’è una Pechino che si veste bene, che si veste meglio, che sfreccia su auto di lusso, che cena al ristorante, che prende l’aereo e va a girare (comprare) il mondo. Ma c’è una Pechino che nel 2006 e nel 2008 mi era sembrato non ci fosse, anche se al prezzo salato delle privazioni che si sanno. Una Pechino che arranca, che non tiene il passo, che non ce la fa. E dimentica i suoi figli tra le pozzanghere.  

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Figuraccia uruguagia

A Pechino ci sono 40°. Virgola sette. Quaranta uno li sopporta anche, è il virgola sette che spezza le reni. Cammino per strada aggrappato ad una coppetta gelato (mango e melone, n.d.r.) e vengo avvicinato da una giovane creatura dai biondi capelli. Prima che dal suo corpo vengo travolto dal suo accento americano, fatto di uanna e gonna. Un po’ capisco, un po’ mi perdo. La tipa parla troppo fast e poi devo gestire mango, melone e solleone, che sembra facile ma facile non è. Una cosa è evidente: questa mi sta riempiendo di complimenti. Si sta felicitando. Indossa un tailleur bianco, non sta sudando (!?!) e si rallegra con me, con me in quello stato (mango, melone ecc…). Un’altra cosa è evidente: questa pigliaperil. Sì, sì, dall’alto del suo essere una superpotenza planetaria, la biondina pigliaperil. Ricomincia: “Good luck!!! Good luck!!!” Così è troppo. Raccolgo il poco orgoglio non ancora disciolto, mi giro dall’altra parte e levo il disturbo. In direzione della direzione in cui non mi devo dirigere. Fa niente, quando ci vuole ci vuole. Faccio in tempo a vedere la faccia sorpresa e vagamente dispiaciuta. Addio, stronza di una yankee.
Giro l’angolo, faccio pochi passi. Mi specchio nella vetrina di una sorta di agenzia immobiliare. Vedo il sudore, vedo il mango, vedo il melone. Vedo soprattutto la maglietta che indosso: la bandiera bianco celeste sulla spalla, la grande scritta URUGUAY.

Uru

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Beijing mia, portami via…

Mali
Eccomi qua, sono veduta a vedere lo strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi. Sembrava dire questo, la Grandecantante sul palco sotto le stelle. Camminava dinoccolata, padrona di un mondo, lei da sola. Gli altri tutti sotto, piaccia o non piaccia. Sapeva di meritare quel posto, di esserci tagliata. Come fosse stata la musica a scegliere lei e non viceversa. Classe e mestiere, genio e tecnica, faticosa applicazione e dono di natura: tutto insieme, fuso, senza finzioni e artifici.

Veniva voglia di cantare, di camminare nella scia di una canzone. Cantare protegge, cantare è contagioso.
Scelgo canzoni da viaggio e preparo una partenza. Nei pochi mega liberi ci riinfilo anche la Grandecantante. Poi sistemo i libri: le poesie di Gianni D’Elia, il saggio di Edmondo Berselli, il viaggio di Valeria Parrella, l’inchiesta di Gabriele Del Grande. Manca un romanzo, nessuno mi ha sedotto al punto di entrare in valigia. Succede.
A presto.

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La casa della musica

Una delle tracce più apprezzate nel mio campionario di prof di italiano è quella che chiede ai cuccioli di immaginare l’interno dell’abitazione dei loro sogni. La settimana successiva alla consegna, di solito vengo travolto da fiumi d’inchiostro che raccontano case abitate da cani di ogni razza, popolate di tecnologie sofisticatissime, dotate di scivoli ad uso scale, arricchite da flipper, piante tropicali in salotto, iguane, trampolini, luci stroboscopiche e schiavi.
Ecco, dovessi svolgerla io, oggi, quella traccia, direi che la casa dei miei sogni è identica a quella dei Pomplamoose. Sì, certo, voi adesso farete finta di conoscerli da almeno due anni, i Pomplamoose, ché sono un fenomeno di YouTube, ché li avete visti in un servizio su Italia 1. Perdonate, ma io ci sono arrivato oggi e per puro caso.
E per puro caso mi sono innamorato della loro casa. Sono anche consapevole che probabilmente non esiste, quell’abitazione lì, e che in quei video c’è del buon cinema e tanta furbizia, ma tant’è. Io vivrei nella casa dei Pomplamoose, e so di dirlo come si può dire “la casa dei Flinstones” o “la casa dei Teletubbies”.
Vorrei inciampare in un basso elettrico, in una chitarra acustica. Vorrei appoggiarmi ad un pianoforte, picchiettare le dita su uno xilofono, scavalcare cavi di microfono al momento di andare in cucina. Appendere la giacca sul charleston della batteria.
Ah, sì, uguale. Però senza videocamere e YouTube.

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Manute Bol aveva un nome buffo per un giocatore di basket. In Friuli, almeno, dove la parola “manute” non fa certo pensare a 5 dita che – aperte sull’ovale di una racchetta da tennis – sconfinavano di un bel po’. Manute Bol aveva una storia, tristissima come tutte le storie degli uomini eccessivamente grandi o eccessivamente piccoli, letta ormai molti anni fa in un articolo di cui mi era parso folgorante l’attacco.

«Manute Bol. Alzi la mano chi se lo ricorda. Beh, intanto anche così con la mano alzata, voi quattro non gli arrivate alle spalle, a Manute Bol».

Ricordavo perfettamente l’incipit del pezzo, avevo dimenticato i dettagli della vita che racchiudeva. Scherzi che fa la lingua, sgarbi che fanno i significanti ai significati.
Ieri, intanto, Manute Bol è morto.

 

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C’è PROVA e PROVA

Da lunedì mattina sulla lavagna della 3ª C c’è scritto PROVA. L’ho scritto io. In stampatello maiuscolo. In grande. Poi giorno per giorno i singoli insegnanti ci aggiungono: “di italiano”, “di matematica”, “di tedesco”. E via esaminando. Non c’è dubbio che 5 scritti metterebbero a dura prova chiunque. Però quel termine, PROVA, mi fa pensare, piuttosto, al gusto di spingersi in un luogo nuovo e sconosciuto, all’idea di sperimentare, di testare testandosi. Tutte cose che gli studenti in queste lunghe mattine non fanno. Sotto i loro occhi trovano infatti il più classico dei compiti: la solita minestra ministeriale, la solita traccia, le solite domande. Per dimostrare quello che – nel bene o nel male – han già dimostrato mille volte.

Music

Oggi pomeriggio, però, quattro ragazze e una Prof. hanno ridato senso a quella parola che ho scritto tre giorni fa come faccio ogni anno.
Si sono ritrovate nella stessa stanza e hanno “provato”. Sempre di esami stiamo parlando, ma stavolta si trattava di preparare un brano che verrà eseguito tra qualche giorno in occasione del colloquio orale. Quattro clarinetti intrecciati dentro un allegretto di Handel. Leggo (Wikipedia) che esistono allegretti moderati, allegretti normali e allegretti graziosi. Beh, per usare un’espressione cara a una delle musiciste, quello di oggi pomeriggio era senza ombra di dubbio un “allegretto scompisciato”. Hanno riso di gusto, davvero, tutte, ma hanno soprattutto preso il largo su una nuova strada, una strada difficile di tastini da raggiungere con le dita tremanti, una strada fatta di tempi da non perdere. Si sono avventurate con coraggio, anche se c’era chi le teneva per mano. E finalmente, dopo 3 giorni, in quella stanza si è materializzata una “prova”. La stavo aspettando.

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Insegnare: una faccenda di corpi

Quella dell’insegnante passa per una professione “intellettuale”. Un lavoro di “concetto”, un mestiere da fare con le sinapsi prima che con i polpastrelli. E invece no. Lo sento in giorni come questo, che seguono altri faticosi giorni di fine anno scolastico, caratterizzati da prove e da spettacoli teatrali. Rivedo il “film” e penso che sia invece tutta una faccenda di “corpi”.
C’è quello col quale spartisci il peso del pesante pannello: piccoli passetti lui avanti e tu indietro. Bisogna portarlo laggiù e laggiù è lontanissimo.
Ci sono quelli col sangue di naso, ci sono sempre e sono tantissimi. Sai già che per definizione non portano con sé fazzoletti e non hanno cognizione di come fermare quel fiume che gli ha invaso la faccia.
C’è chi ti chiede se ti può stringere forte la mano per sfogare l’ansia. Ti concedi, e ti accorgi che forse pure funziona.
Ci sono migliaia di pacche sulla spalla, e le tue mani che trascinano lembi di t-shirt per portarli nel posto dove dovrebbero essere.
Ci sono starnuti allergici, rutti di lattina, sudori di maglietta.
Ci sono abbracci, ci sono 5 da battere. E c’è da dare il gomito.
Ci sono teste che si abbassano per un rimprovero, guance che arrossano per un complimento sincero.
Si constatano bellezze, si misurano forze.
Ci sono passi nervosi.
Ci sono sbuffi di sollievo che volano ad altezza di bambino.

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Il tuo sorriso è il mio unico viaggio

Un papà e una figlia. Una figlia che cresce. Un papà, una figlia e l’ultimo giorno di scuola. Dal blog di Maurizio Crosetti, Rimbalzi.

«Il primo giorno di scuola in prima, lei seduta al banco con lo zaino che era il doppio della sua schiena, le caramelle di cartapesta appese al soffitto. Poi il soffio delle elementari, le voci in cortile, Paolo che non c’è più, l’albero con i fiori rosa. E le medie, all’improvviso, lì si va con l’auto, era bello aspettarti al portone come una fidanzata, quanto piove oggi, quanta neve sulla collina, che tiepido questo primo sole del mattino, tesoro non ti sarai vestita troppo poco? E domani, ecco, ti porterò a scuola per l’ultima volta. Il tuo sorriso è il mio unico viaggio».

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La Scuolamagia di Bantianxiao

Si può anche continuare a fare finta. Si può continuare a non parlare del fatto che Scuolamagia – il piccolo luogo senza il quale questa pozzanghera non si sarebbe mai formata – ha gli anni scolastici contati. Si potrà cominciare, a settembre, una nuova avventura fatta di parole e musiche, fantasia, mondo e teatro, e mondo della fantasia, e il gran teatro del mondo. Si potrà, ma sarà per l’ultima volta. A giugno 2011 suonerà l’ultima campanella e tanti saluti. Soffro troppo il qualunquismo e forse sono troppo snob per mettermi a elencare gli sprechi veri del paese, i rivoli di denaro pubblico, le risorse gettate al vento. Ci sarà da lottare, certo, e bisognerà essere in tanti, ma questa volta sarà durissima.

Così, oggi festeggio la Repubblica lasciandomi incantare dalla storia di una minuscola studentessa cinese. L’allieva di una scuolamagia collocata in un villaggio sperduto nella provincia del Fujian. L’allieva, non un’allieva. A Bantianxiao è la sola ad entrare in classe, ogni mattina, insieme ad un maestro dalla faccia austera che scommette sulla brillante preparazione della bimba. E che riceve un contributo per il carburante della moto con cui ogni settimana raggiunge il posto di lavoro.

I cinesi certamente non fermeranno il loro frenetico sviluppo. Nella fattispecie, però, sembrano fornire una lettura originale alla storia della piccola Liu Lian. Il problema non è lei, ma l’assenza di quei bambini che il flusso di popolazione rurale verso le aree metropolitane ha costretto a disertare quell’aula.
La scuola primaria di Bantianxiao, quindi, non chiude. Lunga vita alla scuola primaria di Bantianxiao.

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Ali di Ali

Dopo averla ascoltata una sera d’estate a Topolò, mi era rimasta impressa come la poesia “quella dell’occhio”. In realtà, dovrebbe essere più normale ricordarla come “quella delle ali”. Oggi l’abbiamo letta in classe. Era la prima volta. Ha riscosso un discreto successo e alla fine tutti hanno detto qual era il loro paio d’ali preferito. Quello che avrebbero comperato, fossero stati lì.
Nella pozzanghera hanno già nuotato, queste parole, ma le ripropongo per chi si fosse imbarcato in un tempo successivo, e per chi fa ciaf ciaf nel blog su Facebook.

Servirà che tu metta le ali
se vuoi veramente andartene via
disse mia nonna quando avevo sei anni.
Così, entrai in un grande negozio,
una vecchina dallo scaffale più alto prese a fatica
un grande scatolone e mi disse
prego, serviti pure.
Io, intimidito, cominciai a cercare.
C’erano ali per ogni utilizzo
ali bianche in tinta coi denti
ali scure per avari di cuore
ali di pizzo ali alla moda
ali per abiti bianchi da sposa
ali meccaniche per gli ingegneri
e ali da piedi per i corridori
ali a vela ali a motore
ali finte da sognatore
ali grandi per andare all’inferno
e minuscole per cadere in eterno
ali corte ali rosse ali rotte ali morte
ali scontate pescate a sorte
ali di carta ali di legno
assicurate contro l’incendio
ali vive che mai stanno ferme
ali di plastica contro le tarme
ali usa e getta per gli spendaccioni
ali di piombo per vili assassini
ali da drago ali da fata
ali a noleggio per una giornata
ali nuove a km zero
ali comprate mai usate davvero.
E poi ali immense per gli innamorati
ali proibite per fare all’amore
ali di gomma ché non si sa mai
ali per te se mi perdonerai.
Ali regalo di San Valentino
ali da mamma con il passeggino.
Ma ali di male a chi sta soffrendo
ali dolore a chi non vuol più volare
ali di neve per suicidi d’estate
ali di foglie per quelli d’autunno
ali col buco per chi vuol morire
nelle altre stagioni dell’anno.
Ali di rabbia a chi deve incazzarsi
ché gli hanno ammazzato fratelli ed amiche
ali vendetta d’acciaio e benzina
per abbattere torri nemiche
ali da guerra a vendicare vendetta
ali atomiche che uccidono in fretta
ali di fame ché i bimbi non muoiono
ali di mine che le gambe non servono
ali da ricchi che vai dove vuoi
ali giustizia non si trovano mai.
E allora ali divine, di vini e di birre
ali diverse, di versi e parole
ali di ali per chi fa poesia
ali di vita e ali di morte
ali per tutti noi anime rotte.
Scelsi.
Hai preso le ali più rare
mi disse la furba vecchina
una apparteneva a un demone astemio
l’altra ad un angelo sempre ubriaco.
Sono antiche, molto preziose,
ti costeranno un occhio della testa,
sei sicuro di potermi pagare?
Ma io non dissi nulla, presi le ali,
lasciai un occhio sul banco del negozio.

Gli ammutinati, collettivo di poeti triestini

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Buongiorno, Salisburgo

Saliscorsa
Come sono belle le città all’alba. Il silenzio rotto dai camion della nettezza urbana, il rumore delle prime serrande che si aprono. Un corso d’acqua, se c’è, che non è coperto dal fiume del traffico. Sull’asfalto persone pensose muovono passi accompagnate da cani pensosi. Delle poche biciclette puoi distinguere il suono dei raggi, gli acciacchi delle catene arrugginite.
Anche la mattina salisburghese è fatta così. Anche quest’anno la gita è finita testando la consistenza di un’alba con una sana corsetta mattutina. Sette ragazzi e due proff. Una specie di tributo da pagare alla città, un’indulgenza da chiedere dopo certe camminate distratte, dopo lo sgarbo della noia davanti a vestigia e monumenti che parlano, certo, eccome se parlano, ma lo fanno sottovoce, troppo sottovoce. Una sorta di grazie per la fastosa accoglienza, o forse un piccolo richiamo davanti al flusso continuo di corpi che camminano senza lasciare traccia o segno. Ehi, grande città, ci siamo anche noi e ti abbiamo percorsa a lungo, a modo nostro studiata. E ti ricorderemo. E scusa se adesso, alle 6 di mattina, siamo qui a farti il solletico sulla pelle col nostro correre, con i nostri piedi colorati.

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In ricordo di Marta Lunghi, bibliotecaria

MARTA

Piccola postilla al Primo Maggio, i miei 25 lettori perdonino il ritardo. Volevo ricordarmi di Marta Lunghi, conosciuta mercoledì scorso cinque centimetri sotto la faccia accigliata di Augias, nella pagina delle lettere di “Repubblica”. Un lettore chiedeva che non venisse dimenticata. Quel lettore aveva ed ha perfettamente ragione. Marta viveva in provincia di Pavia, in un paese di mille abitanti o poco più, vicino ad un fiume che si chiama Arbogna, affluente di un altro fiume che si chiama Agogna. E chissà cosa agognava Marta, morta a 22 anni mentre stava inscatolando uova per 5 euro all’ora. Rigorosamente in nero. È rimasta impigliata in un nastro trasportatore, lei che sognava di fare l’interprete e di girare il mondo con le lingue che aveva studiato. Anche lei a modo suo un piccolo e fragile guscio d’uovo, l’unico infrantosi dentro questa storia dove il mondo è un rumorosissimo nastro che ci trasporta dove solo lui sa.

Marta Lunghi ed io avevamo anche una piccola cosa in comune. Anche lei aveva a cuore le sorti di una piccola biblioteca di provincia, quella del suo paese. Grazie a lei quel luogo rimaneva aperto, e ben due volte alla settimana. Grazie a lei era un luogo accogliente. Scopro navigando qua e là che sulle pareti della biblioteca c’erano i suoi disegni. Affreschi di bimba, freschi e colorati, firmati con un numero – Marta ’87 – che fa gridare. Millenovecentottantasette, ieri l’altro.
Il Presidente Napolitano, nel suo discorso per il Primo Maggio, si è ricordato di Marta, parlando della necessità di una “ribellione morale”.
Già. Da dove si comincia?
Oggi dagli occhi di Marta che non c’è più, che fan brillare di luce l’acqua della Pozzanghera.

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Teoria dell’abbraccio

«Nelle storie di oggi ci sono quasi sempre queste mamme. Ma io non ho capito bene. Cos’è una mamma? Se magari me lo spiegate…» disse, esitante, dardeggiando sguardi intorno come se avesse paura di essere preso in giro.
Tom sospirò. Ecco, ci siamo, si disse. E adesso, come me la cavo?
Digli la verità, sussurrò una voce dentro di lui. Digli le cose che sai, sono tutte vere.
Ma non me le ricordo, replicò lui.
Sì, invece, insisté la voce. Sì che ti ricordi.
Tom scrollò la testa per zittirla e si guardò intorno. Lo fissavano tutti, in attesa. La luce radente dell’Aster giocava sulle loro facce, accendeva i loro sguardi. Sospirò ancora e cominciò.
«È una donna. Che ti fa mangiare e ti dice delle cose…»
«E ti lascia nel bosco» lo interruppe subito Dudu.
«Non in tutte le storie» osservò Tom.
«No, infatti. In certe muore subito, all’inizio, e ti lascia da solo» disse ZeroSette.
«Ma allora a cosa serve?» s’inserì Hana. «Se poi alla fine, o magari anche all’inizio, ti lascia solo.»
«Non è che serva a qualcosa» spiegò Tom. «È che c’è.»
«Tipo il cielo?» chiese Orla. «Tipo l’acqua, e l’Aster, e le piante? C’è e basta?»
Tom tacque, cercando le parole. «Tutti hanno una mamma» disse infine.

[…]

«Tu ce l’hai avuta?» la domanda era di Hana: difficile, diretta. Tom deglutì, cercando la risposta.
«Credo di sì.» Eccola. La verità. Lo punse, ma solo all’inizio. Poi non sentì più niente. Anzi, sentiva un tepore dentro che si allargava e lo invadeva.
«E com’era» insisté Hana. Tom non ne cercò lo sguardo, ma lo sentiva: indagatore, quasi aggressivo.
«Era… bella. Mi abbracciava.»
«Per fare la lotta?» chiese Glor.
«No. Per farmi capire che mi voleva bene.»
«Allora non ti stringeva troppo» tentò Glor.
«No. mi stringeva giusto. Per farmi star bene. Come una coperta, però viva. Una cosa così.»
I bambini si guardarono. Avevano solo una coperta, nello zaino di Glor, e la poteva usare soltanto chi era malato.
«Ma eri ammalato?» chiese infatti Ninne.
«Ma no… gli abbracci sono per star bene, non per guarire. Per star bene e basta, un giorno qualunque, un momento qualunque…» Tom era confuso. La voce dentro di lui era sparita.
«Mi fai vedere come?»
In un attimo Ninne era in piedi. Fece un passo avanti verso Tom e gli tese una mano.
«Io non…» Tom esitò. Incrociò lo sguardo di Hana, che gli rivolse un segno impercettibile. Prese la mano di Ninne e fu in piedi. Lei si avvicinò, la cinse con le braccia e la strinse a sé.
«Cosa devo sentire?» chiese Ninne dal cuore dell’abbraccio. Aveva alzato la testa a fatica e lo fissava, lo fissava.
«Mah, così cosa senti?»
«Il tuo odore.»
«Ma no. devi sentire qualcosa dentro. Qualcosa che ti scalda.»
Ninne strizzò gli occhi, come per concentrarsi. E poi fece un gran sorriso.
«Mi sa che lo sento… ecco… ecco qui. Ma è bello!»
Orla fu in piedi accanto a lui in un baleno. Gli si avvinghiò al braccio, cercando di allentare la stretta. Gelosa, curiosa. «Adesso fai provare me?»
Provarono tutti, a turno. Erano goffi, spigolosi; la sensazione delle loro ossa appoggiate contro le sue, il calore della loro pelle, l’aroma intenso che si annidava nelle pieghe del collo, di sudore, ma anche di qualcos’altro – qualcosa di buono – lo sconvolse. I piccoli avevano un sentore di frutta sbucciata; Hana sapeva di erbe calpestate. Il grosso Glor rimase per ultimo, incerto, ma alla fine si fece avanti, e si ritrasse dalla breve stretta con un bel sorriso. Alla fine ridevano tutti, percorsi da una specie di euforia che durò a lungo.
E da allora cominciarono ad abbracciarsi tutte le sere prima di andare a dormire.

Beatrice Masini, Bambini nel bosco, Fanucci

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Ma se una radio è libera, ma libera veramente…

Bella davvero, la storia di Paolo. Uno che tutto da solo si costruisce un mondo. Uno che, stufo della monotonia che a volte avvolge il suo paesello, si tuffa nelle rete per cercare una via d’uscita e la trova dentro certi saltelli – ma tanti, mica due o tre – fatti a ritmo di musica. Una tecnica di ballo che ha le sue radici nelle polke russe e in certe danze urbane olandesi, oggi sempre più diffusa nel mondo grazie a YouTube. Ed è su YouTube che Paolo ha imparato ad essere jumper, studiando per ore i vari tutorial messi on line da ballerini più esperti, fino a riuscire ad entrare nella rosa dei primi 4 acrobati italiani della Jump. Roba virtuale, la Jump, ché mica puoi andare ogni giorno a ballare con uno di Roma, ma Paolo parla di fitti scambi di materiali e di idee, di una rete di conoscenze che se non sono amicizie vere davvero poco ci manca.

La sua marcia in più? La passione, certo, ma ovviamente colpisce la novità del primo jumper di montagna. Gli altri, tutti gli altri, nelle loro metropoli saltellano tra un parcheggio e un cavalcavia, sullo sfondo perennemente grigio di cemento e asfalto; Paolo, invece, vola tra prati e cataste di legna, cumuli di neve e scorci di montagna incontaminata. 

In paese qualcuno storce il naso, i giovani sembrano capire meno dei vecchi. Una volta i carabinieri l’hanno pure cacciato mentre registrava uno dei suoi video sul sagrato della chiesa. Proprio vero che la poesia non la capiscono tutti. Ma Paolo tira avanti. E pensando ai passatempi più quotati tra i giovani della sua età, verrebbe da fargli un monumento. Ma un monumento che saltella. 

Radiomagia1
Piccola autosoletta a Radiomagia (qui su Facebook), costola nell’etere di Scuolamagia. Le trasmissioni hanno avuto inizio da qualche settimana. Si è trattato di prendere le misure con una marea di gesti, di affinare qualche competenza tecnologica, di fare – molto sul serio – finta. Ora tra i cuccioli c’è già chi mi chiede (in prima…) cosa ne sarà della radio dopo che lui sarà volato alle superiori, praticamente fra tre anni. E io non so nemmeno se andremo in onda lunedì pomeriggio, il prossimo lunedì pomeriggio.

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Io sto (ma una volta stavo di più) con Emergency

dado2
Mi è venuta in mente una foto. C’è un ragazzino che adesso ha 20 anni e all’epoca era un mio alunno di 12. Siamo all’aperto, in un bosco a 10 minuti da Scuolamagia. Tra le fronde dei pini, quella era una lezione. Una lezione nata in una fase di minor disillusione, in cui “stare con” era più facile, nonostante quell’ ottima causa sia rimasta più che mai ottima. La pubblico, quella foto – chiedendo scusa al giovine protagonista, che però probabilmente non vedrà mai questo post – in memoria di quel tempo semplice, puro, vero. Un tempo bianco con le scritte rosse.

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