Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Classe operaia

Il ragazzino sembra strizzare gli occhi nello sforzo mnemonico. Dopo aver diligentemente preso nota della comunicazione dettata sul libretto personale, deve capire se la madre potrà prender parte alla riunione fissata per un tardo pomeriggio di questo aprile. Riemerge con un dato che è soltanto un suono ma sembra concreto come una tabella stampata nero su bianco, in una lingua antica e forse perduta, tuttavia per lui precisa come un ritmo messo lì a scandire lo scorrere e il sapore del tempo.

«Sì, ci sarà! Quel giorno ha sei-due».

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Almeno le scuse insincere…

Mettiamo che io dica che i Filippi, tutti i Filippi, sono stronzi. Irrimediabilmente stronzi. A quel punto mi accorgerei di aver offeso una marea di esseri umani registrati all’anagrafe con quel nome. Filippo Timi, Filippo Solibello, Filippo Inzaghi,… Forse mi beccherei qualche accidente anche dagli ammiratori del Brunelleschi e dagli amici di Maria De… Filippi, che sono pure tantissimi.
Si dia il caso, però, che ci sia stato un fraintendimento. Con le mie parole, – forti, lo ammetto – mi riferivo soltanto ai coniugi Matilde e Pancrazio Filippi, con il loro figlioletto Gianguido, bavoso stronzetto che mi sveglia ogni notte con i suoi strilli da poppante. I “Filippi”, insomma, la famiglia “Filippi” al gran completo, così come sta scritto sul campanello del loro stronzissimo appartamento.
Però non basta. Se sono una persona civile, ho il dovere di rivolgermi a tutti quelli che si chiamano Filippo, finiti a causa della mia imperizia nel centro del tifone del mio scomposto eloquio, per rivolger loro le mie sentite scuse, sperandoli amici come prima.
È proprio con questo spirito che oggi il Cardinal Bertone si è detto affranto per l’equivoco provocato dalle sue incaute dichiarazioni sull’omosessualità e la pedofilia, che erano riferite unicamente a quei sacerdoti coinvolti nelle drammatiche e scandalose vicende riemerse in queste settimane e per nessuna ragione ascrivibili alla comunità GLBT.

Sì, magari…
Certo che i Cardinali son proprio ignoranti e omofobi.
I punti cardinali, che avevate capito?!? Nord Sud Ovest Est. Soprattutto l’Est.

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Venerato Maestro

Ammesso che si tratti di scegliersi un politologo di fiducia, Edmondo Berselli era il mio. Ma era anche altro, era una lingua da ammirare e perché no smontare e studiare. Mi ero detto: un libro all’anno, quando sono in ferie. Ho tenuto fede all’impegno, negli ultimi 5 anni, pensando che lui avrebbe continuato a scrivere esattamente come io avrei continuato, fedele, a leggere.

Le sue eran pagine di leggera pesantezza o, a scelta, di pesante leggerezza. Sapeva volare lieve su questioni spinosissime e cruciali, senza banalizzarle mai; sapeva altresì dare consistenza di dispute medievali a simpatiche questioni pop, se non addirittura trash. Uno strano caso, il suo, di torre d’avorio purissimo piazzata al centro di una piazza di mercato, popolata e popolana. Morto un politologo di fiducia, ahimè, non se ne fa un altro. Lo si può, al limite, …rileggere.   

 
«De Andrè si ascoltava in silenzio rigoroso, al massimo commentando con sbalordimento certi versi particolarmente riusciti, alcune immagini come quei generali che hanno “cimiteri di croci sul petto”, o roba pesante del genere. Ma interrogato diversi anni dopo sulle ragioni del grande successo post-adolescenziale e liceale di De Andrè, il noto cantautore bolognese Francesco Guccini si era raccolto in una specie di meditazione trascendentale, aveva espirato un fiato molto alcolico e alla fine il suo spirito aveva formulato un verdetto. Inatteso. E clamoroso.

 

De Andrè piace a tutti perché parla della figa.

 

In quell’interno borghese della Bologna più democratica e antifascista, gli astanti erano rimasti drammaticamente sbalorditi. I volti si erano alzati, gli sguardi si erano concentrati sulla barba francescana, cioè di Francesco. Ma dopo un momento di perplessità, un’esitazione, un sospiro, alcuni della componente ludica avevano riconosciuto che nel giudizio gucciniano c’era qualcosa che faceva risuonare la campanella di una verità.

[…]

Mo insomma, pensateci un momento, dice Guccini: vogliamo considerare le belle rime di Via del campo? “Via del campo c’è una graziosa / gli occhi verdi color di foglia / tutta notte sta sulla soglia / vende a tutti la stessa rosa”, e qui secondo alcuni critici saremmo nel campo del simbolismo francese, ma poi alla fine lo dice lui stesso, apertis verbis – perché non dimentichiamoci che ama il latino, Guccini, non De Andrè – lo dice lui, De Andrè, che quella è una puttana. Avete capito bene, puttana: per quei tempi erano parole pesantucce, sostantivi innominabili, devianti, praticamente eversivi, e quindi altamente eccitanti, anche se politicamente non proprio influenti.

E forse vogliamo discutere di Bocca di rosa, soggiunge Guccinius, stappando un’altra bottiglia di Grasparossa di Castelvetro, l’amore sacro e l’amor profano, e lei, quella scriteriata eroticamente anarchica, che lo faceva per passione? Sono questioni di gnocca, diano retta a un cretino, si lascino servire…».

 

E. Berselli, VENERATI MAESTRI, operetta immorale sugli intelligenti d’Italia

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Tacere parole

Ancora parole che non arrivano. Vorrei scrivere di tutto. Tutto quello che mi appassiona. Tutto quello che mi indigna. Tutto quello che mi emoziona. Scriverei di Messi e dei preti pedofili, scriverei del cinema che vedo e della musica che sento. Oggi avrei scritto della donna che ha abortito a Bari con la pillola RU486. Nei giorni scorsi avrei scritto dell’I-Pad e del Pd, di un cane che ho conosciuto e di un panorama che ho visto da un paesino di montagna. Però sto fermo, non pigio sui tastini grigi e mi chiedo perché.
La risposta la trovo in queste righe di Gian Luca Favetto, nell’angolo della rete in cui da qualche mese ha ripreso a tessere trame…

A proposito dei nostri tempi, del parlarsi addosso e l’un contro l’altro, degli schieramenti armati di verità. Tutti usano le parole. Loro sono lì, aspettano, e tu le scegli. Pronunciandole, le chiami in campo, le metti in azione. Dovresti farlo con cura, con attenzione, perché dirle e scriverle ha la sua importanza. A volte – non è così raro – le parole, dopo che tu le hai usate, usano te. Facendolo, ti snudano, ti sbugiardano, minano il piccolo piedistallo che ti sei costruito.
Pensavo a questo, considerando l’abuso, lo strabuso che delle parole si fa, e come esse si vendichino seppellendoti sotto una coltre di chiacchiere, girando a vuoto, perdendo senso e direzione, facendolo perdere a te. Chi con le parole, la memoria, la ragione e i sentimenti lavora, chi ne ha a cuore le sorti, deve essere preciso. Deve usare parole precise. Deve incarnare le parole che dice. La precisione appartiene all’onestà. Accade spesso, invece, che si usino parole per non dire ciò che esse dicono, ma per rinviare ad altro, sviare, evocare un pregiudizio, confermare comode opinioni consolidate. Luoghi comuni e slogan sono preferiti al dubbio e alla messa in discussione. Bisogna portare il dialogo là dove bivacca il monologo.
Il tuo primo compito non è risolvere all’impronta i problemi, ma abitarli e condividerli. Il primo compito è l’ascolto. Nell’ascolto cominciano la condivisione e le soluzioni. Il tuo compito non è la risposta, è ancora la domanda. Si arriva alla risposta insieme, stando nelle parole che si dicono, scegliendole con lealtà. Le parole sono leali. Le parole hanno le ali, volano. Sei tu che le zavorri, usandole come strilli di giornale, urli di propaganda, bavagli. Impedisci loro di raccontare. Di essere.

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Cortocircuito

Piumetta da qualche settimana lancia in maniera piuttosto solitaria accorati appelli giornalistici: ci dice (qui per iscritto, qui radiofonicamente) in soldoni che un numero infinito di cinesi sta morendo di sete. Sul tema siccità in Cina arriva oggi anche “Repubblica” con una dettagliata corrispondenza del suo inviato. La pagina funziona così: una foto strepitosamente eloquente, una distesa di terra spaccata, due biciclette in cammino cariche di taniche di fortuna, il titolo (“Il grande deserto…”) e il pezzo, 4 colonne, 2 lunghe ai lati, 4 cortissime (3 righe ognuna) al centro. La cornice perfetta per un’inserzione pubblicitaria. Il vero centro della pagina, con il suo strillante arancione.
Noi di questo mondo possiamo permetterci l’edizione vintage del Chinotto, che “ristora le signore, disseta i signori”.

Siccità

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Poveri noi

Ebbene sì, i poveri esistono, ci sono ancora. Ieri mattina ne ho visto uno mentre rincasavo dall’edicola con la mazzetta dei giornali.
Il cielo era coperto, l’aria umidissima. Imbacuccato in un piumone bianco e liso, il viso nascosto da un berretto di lana blu, un giovane di colore si è avvicinato al condominio dove abito e dove, al piano terra, ha sede la filiale di una banca. Assorto in chissà quali pensieri, un friulano di mezza età stava armeggiando con il bancomat. L’oracolo elettronico ha dato il suo responso di banconote e ha risputato la tessera, quindi il ragazzo di colore ha preso coraggio e ha sfoderato un sorriso e una domanda.

«Buongiorno, puoi dare qualcosa? Io fame…».

La mano destra, avvicinandosi alla bocca, ha ribadito.
Il friulano, allora, non c’ha visto più. Ha detto qualcosa a proposito del suo cane, attribuendogli caratteristiche divine, quindi ha caldamente invitato il giovane a trovarsi un lavoro – e l’ha ripetuto: TROVARSI UN LAVORO!, UN LAVORO!, UN LAVORO! – proprio quello che ha sempre fatto lui nella vita, e fin da piccolo, perché lui non è mai stato e mai sarà uno scansafatiche. Invece voialtri sì, che siete scansafatiche e volete vivere sulle nostre spalle.

Il finale di questo racconto è molto triste e molto poco edificante, perché il ragazzo di colore ha  soltanto chinato il capo e si è diretto altrove, noncurante, indifferente, cieco e sordo davanti alle richieste di aiuto di quel povero.     

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One inspires many

Franck Paget of France competes in the Men's 10 KM - Standing Cross Country during Day Five of the Turin 2006 Winter Paralympic Games on March 15, 2006 in Pragelato Plan, Italy.

Un anno fa a Scuolamagia abbiamo avuto ospite Claudio Arrigoni. I bambini che frequentavano le scuole Primarie e si erano infiltrati tra i compagni più grandi se lo ricordano bene, e oggi che sono finalmente “alle medie” mi dicono di averlo riconosciuto su Rai Sport Più, qualche sera di queste, a margine della Paralimpiade invernale. Claudio a Scuolamagia ha fatto quello per cui sembra nato: ha raccontato Storie. E da giornalista è riuscito a svestirle di quella patina retorica che la scuola e i professori sembrano cucire addosso alle vicende dei protagonisti, volendo troppo spiegare e interpretare e chiosare e… Le Storie, spesso, sono cavalli che non si lasciano domare e se devono arrivare arrivano. A briglia sciolta. Leggere, da leggere.
In questi giorni si possono raccogliere come frutti, le storie di Claudio Arrigoni. Direttamente dal suo blog paralimpico.

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Il cassetto dei calzini spaiati

Per giorni ho camminato masticando incipit. Ho scritto righe sui fogli di carta più assurdi, dalla circolare del Preside al biglietto del cinema. Tante frasi sono partite ma non sono mai arrivate alla destinazione di un punto.
Pensavo di doverci essere, in punta di penna, dentro un dibattito che forse mi ero solo sognato e in realtà non c’è mai stato.
Tutto è iniziato con quello schianto di ragazzi un sabato sera, triste faccenda di corpi bruciati prima dell’alba. La solita storia della meglio gioventù che diventa gioventù bruciata. Ci ho messo le facce dei miei ex alunni, dentro quelle lamiere accartocciate e disciolte. Una alla volta, perché quelli erano coetanei loro, compagni di scuola loro. Perché quelli potevano essere Loro.
E quindi ho cominciato a scrivere righe che non andavano da nessuna parte. Sono stato a tratti iper-razionale e politicamente scorretto, chiamando stupidità quello che molti hanno subito definito destino. Ma non funzionava, i conti alla fine non tornavano. Il buon vecchio Gadda mi avrebbe bacchettato ricordandomi che la realtà è ben altro garbuglio, un vero e proprio gnommero di cause e concause.
Ho adottato uno sguardo sociologico, allora, di una sociologia d’accatto, spulciando sui profili di Facebook dei giovani carnici – persino di una delle vittime, e l’ho pagata cara, in termini di vergogna – e annotando come tanto presto si possa passare dall’elogio della birra, del “distruggersi”, del sobbarcarsi di metaforiche “scimmie” fino alla bassa, bassissima retorica dei “ora sei una stellina che brilla e ci guarda dal cielo”. Salvo ricominciare, troppo presto, cazzo quanto presto, con le adesioni a gruppi come “PERCHE’ ALCOLISTI ANONIMI? IO CONOSCO IL NOME DI TUTTI I MIEI AMICI :-)”.
Ma mi sono fermato subito, ché non si può inchiodare un essere umano ad un clic di mouse. Il profilo di un social network mica è un curriculum vitae…
Volevo scrivere che se dei diciassettenni si stringono ancora attorno ad una canzone come IN MORTE DI S.F. – è successo, anche nei paesini di montagna dove le strade non corrono né lunghe né diritte – significa forse che il “loro” tempo non ha prodotto una canzone all’uopo. E come si fa a vivere senza una canzone a fianco di ogni emozione che s’incontra. Io son cresciuto così, c’era una canzone per tutto. Le canzoni erano una grande fornitissima farmacia per l’anima.
Mi accodo quindi a quel silenzio che mi prefiggevo di squarciare. Sono stato presuntuoso. Ho cercato di mettere ordine in un cassetto pieno di calzini spaiati. Il cassetto delle ragazze e dei ragazzi che ho visto crescere e di cui in quei giorni ho captato da lontano la sofferenza. Non ci sono riuscito. Ho soltanto appallottolato fogli.

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L’influenza X

Una lettera di un medico ad un quotidiano nazionale odierno è come una mano che si alza tra la folla per dire una cosa di cui forse non si è accorto nessuno. Stiamo vomitando. Sì, noi italiani. Tanti, tantissimi. Abbiamo la febbre e vomitiamo. Il contorno a questo piatto fisso stagionale varia: c’è chi si contorce tra i dolori addominali e chi ha la testa che scoppia. Questo accade, e molto più che negli anni precedenti, tutta colpa di un virus particolarmente scaltro nel passare di corpo in corpo. Questo accade e cambia – un po’ – la vita di tutti. Le classi a scuola si svuotano, il personale negli uffici scarseggia, l’amico che deve accompagnarci al cinema ha la diarrea. Questo accade ma non se ne parla, e il povero virus non s’è meritato neanche un nome.

Abbiamo passato l’autunno ipotizzando scenari da thriller sanitario, con un pandemonio di pandemie pronto a decimarci. C’era un cast nutrito e d’eccezione: maiali messicani, untori, sottosegretari alla salute e Topo Gigio in un gustoso cameo. Poi nessuno ha mai visto un malato di Influenza A e i pochi che l’hanno incontrato testimoniano che si sia rimesso dopo 2 aspirine.

Sarà che in queste settimane sfogliando i giornali si rischia di vomitare indipendentemente dai reportage sul vomito (parentesi qualunquista), ma tutto ciò è ben bizzarro.

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Comici stremati guerrieri

Quando ti accorgi che non vogliono che la lezione finisca – perché è interessante, perché la pancia fa male per il troppo ridere, perché a casa sarebbe comunque peggio -, quello è il momento più bello.

Non è vero il contrario, però. Quando è evidente che non ne possono più, che ne hanno abbastanza, che “concentrazione” è un termine dialettale birmano, quello NON È il momento più brutto.

Perché fanno tenerezza, perché portano addosso fatiche che spesso i grandi non vedono, perché le portano con una dignità che i grandi si sognano.

La stanchezza fa sembrare gli adulti più vecchi, gli adolescenti li rende tristi. Guardano orologi da polso, se non ce li hanno si protendono verso i campanili di paese; cambiano posizione sulla sedia, sbuffano aliti che non hanno odore, vento puro.

Capita in certe giornate pesanti di verifiche scritte e orali, capita il giorno dopo una gara sportiva massacrante; capita così, quando capita, magari senza nemmeno un motivo plausibile.

Quello che posso fare io, in quelle occasioni, è attribuirmi poteri di Re ed esercitarli concedendo la GRAZIA. Un quaderno che si chiude, 7 domande che diventano 4, il ritmo che scende, la voce che si abbassa, chiacchiere da salotto e attesa della fine.
Poi – fuori scuola – la forza ritorna. Basta un cartone animato, un pisolino, il dito in un barattolo di nutella.

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Ti conosco mascherina

Come una nave rompighiaccio, attraverso un gruppone di bambinetti in maschera. Hanno dai 6 ai 10 anni. C’è il poliziotto che mi mostra la paletta e si spaventa quando estraggo per davvero la carta d’identità. C’è uno Zorro che secondo me – anno domini 2010 – non sa più nemmeno da cosa è mascherato e a cosa servano quei due fastidiosissimi baffetti. C’è una bimba senza alcun costume, con i jeans e un cardigan rosso. Ride mentre spiego ai suoi amici che in realtà è vestita da dentista. Sì perché il mio dentista – l’altro giorno, sotto il camice bianco – era vestito così. Ci sono fatine, scontate e immancabili, e cowboys inutili alla carnevalesca causa. Poi, un po’ defilata, scorgo la bambina con il nome da mille e una notte, quella di un vecchio post. Indossa un vestito bianco, non proprio biancochepiùbiancononsipuò. Una specie di tunica, da cui spuntano le scarpe da ginnastica. Al collo una sorta di fazzoletto leggero e trasparente. «E tu, da cosa sei vestita?».

«Io sono vestita da serva…»

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Soletta, Stream of consciousness

I sogni di M.

Certo, se si trattasse di giudicare Facebook con la lente di uno di quei giorni in cui ti vengono recapitate 15 capre per la fattoria virtuale, staremmo freschi. E non ne uscirebbe bene, il Social Network, nemmeno dopo aver constatato come le menti migliori di 3 o 4 generazioni possano aderire compatte alla causa “Tutte le ragazze di Facebook: raggiungiamo i 3.000.000.000 di iscritti e battiamo i maschi”.

Tuttavia, a me Facebook guai chi lo tocca! Sì, perché cliccandoci, quasi per gioco, ho ritrovato M.

E che persona sia M. lo capite anche da soli visitando il suo blog nuovo fiammante.

Motty

Quando l’ho conosciuto, 11 anni fa, era poco più di un bambino. Di mestiere facevo l’educatore, in missione per conto dell’azienda sanitaria con l’uniforme di una cooperativa sociale. Mi aspettava davanti casa sua due pomeriggi ogni settimana, M., e di fare i compiti non aveva mai ‘sta gran voglia. Un giorno parcheggio la macchina proprio mentre sta palleggiando sull’asfalto. Mi accorgo che è proprio bravino e allora butto lì una scommessa: “saliamo a fare i compiti appena il pallone tocca per terra”. Saremo saliti dopo mezz’ora. Strepitoso. Piedi con la colla. Talento vivissimo. Una volta, durante una vera partita che gli ho visto disputare, stavo per avventarmi contro un gruppo di padri che lo insultavano con un coretto dagli spalti: “…pezzo di merda!!!”. Mi sono calmato ascoltando meglio: il ritornello era “MARADONA, PEZZO DI MERDA”. Continuerà a non essere un gesto finissimo, quello di quei genitori, ma la sostanza in effetti cambia. M. aveva appena trafitto il portiere avversario, e sarà stata l’ottava volta. Poi, alla fine del primo tempo è stato sostituito dall’allenatore.

Quelli con M. sono stati pomeriggi unici e irripetibili. Indimenticabili.

Ritrovo M. oggi che è un giovane uomo e fa cose da giovane uomo: fa ACROBAZIE CON LO SNOWBOARD, fa INCIDENTI STRADALI. Ma fa anche cose che lo rendono unico, cose tipo CATTURARE FULMINI con una pertica di legno. Scrive anche parole che hanno il sapore di certi fumetti americani e sogna di vivere a New York, almeno credo. Sogna anche di essere felice, M., come fanno tutti, com’è normale. Ma lui forse se lo merita un po’ di più.
Ieri, chattando, mi ha confidato che ci sono certe sere preziose in cui la scrittura gli permette di esprimere cose che di giorno faticano ad uscire, che scrivere è un buon modo per mettere i SOGNI nero su bianco. Che scrivere lo fa stare bene. Mi sa che ieri – dopo avermi dato la buonanotte – era una di quelle sere, e se si è sentito bene lui, pensate a come mi sento io dopo aver letto questo.

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Soffiare sulla memoria

Giornata della memoria, memorie di giornata. Recupero i piccoli umani di Scuolamagia alla fermata della corriera. Raggiungiamo un paese non troppo lontano e la sua piccola sala-teatro: insieme ad una sessantina di altri ragazzi e ad un gruppetto di altri insegnanti si tratta di guardare un film e celebrare l’ormai decennale giorno del Ricordo. La pellicola la conosco, posso immergermi nelle sue immagini permettendomi di guardare chi in sala sta guardando e non sa, chi sta guardando e si aspetta qualcosa. Anche gli occhi più giovani – 10 anni come la Legge di Furio Colombo – capiscono subito cosa sia il misterioso pigiama a cui allude il titolo del film. Si capiscono subito tante cose – sarà la critica di una ragazzina un paio d’ore dopo – e la storia raccontata non fa proprio nulla per impedire che vadano a finire come avevi pensato che andassero a finire.

Ad un certo punto, però, lo schermo diventa nero. La mamma del film continua a parlare, ma nessuno capisce più con chi. Tutta colpa di un videoproiettore e della sua lampadina esausta, lassù in galleria, sopra la platea di ragazzi.

Accorro e sento il marchingegno sbuffare aria calda. Ingolfato di polvere e incuria fa il suo dovere a stento per un quarto d’ora, poi è costretto a fermarsi e a sfiatare come una vecchia locomotiva. Poi riparte, ma davvero più di così non può fare. Non ci sono alternative, la memoria andrà celebrata a tentoni, e strappi. Sarà interrotta come da una pubblicità silenziosa e cieca.

Nel mio piccolo, su in galleria, insieme ad un’infaticabile collega ho tentato per tutta la proiezione di raffreddare l’apparecchiatura con un quaderno agitato a mo’ di ventaglio. In una sorta di cinema a manovella, faticosissimo. Roba da Nuovo Cinema Paradiso, anche se il film raccontava l’Inferno.

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Il colpo di spugna

Bordo

E fu così che l’alunno Marco prese il mare. Accadde durante le ultime vacanze natalizie, quando per lui si trattò di dare concretezza di racconto alla traccia su foglio giallino consegnatagli con fior di raccomandazioni dall’insegnante preposto. Avrebbe potuto spingersi fino ai confini del mondo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi compagnia. L’importante era andare e, andando, conoscere e incontrare. Avrebbe potuto servirsi di qualsivoglia congegno tecnologico, supporto librario o nonno sapiente per attingere informazioni utili alla letteraria causa. Non avrebbe dovuto fare a meno, pena la radiazione dalla pluriclasse 2ª-3ª C, di attingere alla fiamma della sua innata fantasia.

E fu così che prese il mare, non prima di essersi scoperto italico produttore di paperelle di gomma ad uso bagnetto, e partì alla ricerca dei celebri relitti gommosi dispersi per gli oceani, dopo un tragico naufragio del 1992 al largo di Honk Kong.

Il racconto nacque e si dipanò tra acque asiatiche e acque artiche, descrisse i porti di Shanghai e San Francisco. Ma alla fine mancava un tocco. Un tocco che desse sostanza materica a quelle vicende soltanto cartacee. E fu così che l’alunno Marco intinse la spugna nell’acqua del lavandino e simulò la burrasca marina nemica de’ navigatori e de’ cartacei diari di bordo. Il quaderno non fu più lo stesso, il racconto che conteneva nemmeno. Nemmeno i racconti precedenti, tutt’altre storie, il lavoro di 4 mesi di scrittura pomeridiana, furon più gli stessi.

Temi annacquati ne ho letti tanti, di così mai. E col passato remoto, smetto. Giuro.  

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Merde

Inizia la rassegna stampa delle 7.30 impugnando “La Padania” di oggi, Gian Antonio Stella. Legge i titoli, gli occhielli, illustra i contenuti degli articoli. Questioni pesanti sul tappeto: le tasse da diminuire, i tagli di Calderoli alle poltrone inutili, la conservazione dell’identità locale radicata anche nel cibo che mettiamo in bocca. Poi si ferma, fa una pausa, quasi che il giornalista lasciasse spazio all’attore. E Haiti?

Già, Haiti. La NOTIZIA che apre le prime pagine di tutti i giornali del Mondo, anche quelli in mano ai dittatori più spietati.

No, non è che non ci sia, il terremoto che ha raso al suolo Haiti. Uno strillo, piccino picciò, invita a raggiungere il resoconto di pagina 23. Ventitre.

Quante pagine avrà “La Padania”? 25?

È così che mi è tornata alla mente un’espressione usata da un vecchio Prof. dell’università. Un’espressione felice ed efficace che sono andato a cercare in un Himalaya di fogli A4 scritti a matita, pieni di disegni e scarabocchi. E di appunti, appunto.

La lezione verteva sulla memoria e sull’interpretazione del Fascismo, era una lezione di storia contemporanea. Quel giorno si parlava di Leo Longanesi, penna brillante e destrorsa, quello di quando comprate un libro “Longanesi”.

Un uomo che negli anni ’40 faceva liete scampagnate con Italo Balbo, a discutere di come il fascismo non fosse più lo stesso, avesse perso lo smalto, il furore, l’energia dei primordi. Lunghe camminate immerse nella nostalgia, in riva al mare, interrotte soltanto da qualche fucilata ai gabbiani in volo sopra il blu. Gabbiani: bersagli nemmeno commestibili. Bersagli soltanto. Ed è a quel punto che si era innestata l’espressione riuscitissima del Prof. di storia.

«A quegli uomini non mancava l’intelligenza, ma quest’ultima non ingranava con una coscienza morale”.

Perfetto. Ecco le parole giuste. La Lega e i leghisti NON INGRANANO CON LA COSCIENZA MORALE. Ecco le parole perfette. Così perfette che uno può evitare di scrivere che quelli del Carroccio, eticamente parlando, sono proprio delle merde.

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