Cineserie, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans

Fields of gold

Non credo nell’assoluta eloquenza dei numeri. Nell’ora di geografia preferisco raccontare la storia di una contadina di Bamako intrecciandola a quella di un manager di Kuala Lumpur piuttosto che sciorinare i PIL dei rispettivi paesi. E dire che i ragazzi apprezzerebbero pure, e a volte, non so perché, sanno scandalizzarsi per la scarsa frequenza di internet host (3,8 ogni 1000 ab.) in Malesia. Però, giuro che utilizzerò in classe i numeri del medagliere paralimpico, con la Gran Bretagna capace a oggi di 33 ori, 2 meno della Cina, 10 più degli Usa, 31 più dell’Italia. Cifre che parlano, cifre che urlano.

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Fenomenologia del ping pong paralimpico

C’è un bel configgere, tra Yin e Yang, ma pure Ping e Pong non scherzano. Le Paralimpiadi riconciliano con il tennistavolo. Nell’evento agostano pechinese la grande assente era stata la pallina: chi ne ha mai vista una? Secondo me quei bravi attori in calzoncini corti facevano brillantemente finta, e quello che colpivano era semplicemente vento. Gli atleti paralimpici del ping pong, invece, non costringono i tuoi occhi agli straordinari, non li mandano fuori giri, li attraggono con movimenti di cui puoi ancora apprezzare la grazia e l’eleganza. E che grazia e che eleganza! Puoi sentirti ancora sicuro di affermare “grande!, voleva metterla proprio lì, in quell’angolino…”. Ti accorgi che ti stanno regalando uno spettacolo sportivo, ma soprattutto ti stanno regalando il tempo e la sua dimensione. Il tempo di andare a recuperare la pallina, per esempio. Gli atleti che gareggiano in piedi lo fanno sempre, si allontanano dal tavolo e si chinano per raccogliere quell’oggettino insignificante, il leggerissimo sole di plastica attorno al quale forse ruota la loro vita. Non importa se il passo non ha la stessa sicurezza delle bracciate con cui smashano, fa niente se sembrano arrancare. Vengono in mente i calciatori e il nuovo pallone che subentra in un istante a quello spedito malamente in tribuna, ché non c’è tempo, ché il gioco deve togliere il fiato a chi guarda e sempre più spesso ha pagato per vedere. Nel tennistavolo no. Nel tennistavolo si aspetta. Per chi gareggia in carrozzina a raccogliere da terra il ferro del mestiere ci pensa un solerte raccattapalle, a Pechino un volontario in maglietta blu, inconfondibile. Recupera rapidissimo la piccola sfera e l’appoggia sul campo di gioco, a venti centimetri dalla mano dell’atleta. Fa un piccolo inchino e sembra quasi scusarsi, neanche l’avesse spedita in malora lui, la pallina. Il ping pong sulla sedia a rotelle ha una piccola zona d’ombra. Ci sono aree di campo in cui l’avversario non può arrivare, piccole fette di tavolo in cui una pallacorta ti può crudelmente mettere davanti al tuo limite invalicabile. Il fascino della pallacorta, nel tennis, è che uno può dire tra sé “d’accordo, è un colpo un tantino malizioso, ma Boris Becker si sarebbe tuffato e l’avrebbe respinto, cavoli tuoi avversario se non sei Boris Becker…”. Nel ping pong paralimpico no, non può succedere, quegli angoli remoti non possono essere raggiunti e allora è una specie di pudore quello che vedo negli sguardi degli atleti, qualcosa di più forte della solidarietà e del rispetto per chi sta dall’altra parte della rete. Cioè, il punto carogna lo fanno lo stesso, ma si vede benissimo che sanno quello che prova il malcapitato che lo subisce.

(Qualche anno fa, a Scuolamagia, in attesa che le nevi si sciogliessero liberando il campo di pallone, ho organizzato un torneo di ping pong. Ricordo ricreazioni piuttosto entusiasmanti, sorrisi e discussioni infinite, baruffe e lacrime. Sono uscito di scena presto, nella parte alta del tabellone. Protagoniste furono le ragazze, ben 3 tra i primi quattro. Medaglia d’oro compresa. Quest’anno mi sa che si replica).

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Siamo a cavallo! (vabbè, a cavalluccio…)

Apprendo dal Tg1 di ieri (edizione delle 20) che i cavallucci marini inscenano alla bisogna complesse dinamiche di corteggiamento. Danzano impettiti, si avviluppano in maliziose spire, depongono passionalmente uova che saranno poi gli esemplari maschi a covare. Complimenti! Ai cavallucci prima di tutto, finalmente meritevoli dell’attenzione dei media italiani. E al Tg1, per lo scoop. Purtroppo, però, preso dall’ansia di comunicare la strabiliante notizia, il più importante telegiornale non ha potuto dare conto dell’apertura dei giochi paralimpici pechinesi. Peccato, ci sarebbe stata forse qualche buona ragione per farlo. Si porrà rimedio, certo, magari sul satellite, magari a notte fonda quando tutti dormono, compresi i cavallucci dopo le loro strabilianti prestazioni sessuali.

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Shanghai ghetto

In coda al mio viaggio una piccola parentesi a Shanghai. Ogni anno in classe, mentre parlo ai cuccioli di terza di urbanesimo e megalopoli, ci divertiamo a disegnarne lo skyline. Loro sul quaderno di geografia, io sulla lavagna o dove capita. Per questo mi è sembrato quasi di tornarci, a Shanghai, più che di arrivarci. Tornare in un luogo conosciuto in un viaggio di gesso e cancellino, di gomma e grafite, paradossalmente un viaggio quasi più preciso di certe occhiate che si possono lanciare dal finestrino di un taxi imbottigliato nel traffico.

Compito davvero improbo, visitare una metropoli del genere in un arco di tempo ristrettissimo. Si impongono delle scelte, bisogna individuare delle priorità. Ecco allora riemergere il ricordo di alcune letture, più o meno lontane nel tempo. Ecco allora i contorni di una storia tragica e suggestiva, e il suo teatro in cui andare ad immergermi.

La vicenda dei 30.000 ebrei in fuga dall’Europa della fine degli anni 30, accolti dalla città cosmopolita che sta attraversando gli ultimi scampoli di una sorta di età dell’oro, prima di sprofondare nel baratro della guerra e dell’occupazione giapponese.

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A Shanghai esiste un ghetto ebraico, un quartiere che prima di diventare una prigione era stato definito “Piccola Vienna”, un pezzo di Mitteleuropa trapiantato sulle rive del fiume Huangpu.

Un taxi mi porta dall’albergo fino alla Zhoushan Road, attorno alla quale sorgeva e brulicava di vita il ghetto, all’interno del distretto di Hongkou. L’autista è stupito del mio interesse per un’intera strada, una destinazione che gli sembra indefinita e vaga, senza numeri civici, senza un edifico specifico – uno shopping mall, un museo, un ristorante – da raggiungere.

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Le piccole abitazioni, sottratte agli ebrei e affidate a famiglie cinesi dopo la vittoria dei comunisti nel ’49, sembrano davvero raccontare un tempo lontanissimo. Costruite all’inizio del secolo scorso dagli ebrei di Shanghai – ebrei russi in fuga da pogrom e persecuzioni varie – sono riuscite a sopravvivere alla schizofrenia architettonica che ha stravolto (e stravolge…) la città, ormai ridotta ad un istrice di grattacieli.

Negli anni 40 il quartiere fu in grado di assorbire l’ondata di profughi provenienti dal cuore del vecchio continente. Dal 1942 le sorti del conflitto mondiale lo fecero diventare un vero e proprio ghetto, la comunità seppe stringere i denti e stringersi negli spazi, ignara di Auschwitz e della soluzione finale. La “puttana d’oriente” fu la sua salvezza. 

Incontro Peter, la guida che accompagna i visitatori all’interno della sinagoga e del museo allestito nel ghetto. Peter è poco più di un ragazzo, è cinese e studia storia all’università di Shanghai. È un volontario e fa qualcosa di simile a quello che tanti suoi coetanei in maglietta blu stanno facendo a Pechino per le Olimpiadi.   Lui lo fa per la memoria, anche se non  nasconde un po’ di invidia per gli angeli che stanno vegliando sugli eventi della capitale.

Peter parla un inglese elementare ma impeccabile, ma soprattutto indulgente nei confronti del mio. Gli chiedo se sa che a Pechino (a Shanghai non so…) nei negozi si possono acquistare T-shirt con la svastica, gli chiedo se è un fenomeno diffuso tra le nuove generazioni cinesi… Mi risponde che il “nazi style” piace molto ai giovani, ma che si tratta soltanto del fascino esercitato sull’uomo dalla violenza e dai fatti cruenti. In realtà, i cinesi vecchi e giovani non sanno, conoscono a fatica gli eventi della loro storia, figuriamoci quella degli altri popoli.

Ghetto

Con me e Peter tra le sale del museo c’è un’anziana coppia di ebrei americani. Sono in vacanza, hanno le mascotte di Beijing 2008 sulla maglietta, ma ad un salto a Shanghai non hanno potuto rinunciare. Guardare i loro volti mentre l’olocausto brucia sulle pareti – nei video d’epoca, nei documenti fotografici: soltanto questo è un’esperienza. Peter se ne accorge e mi chiede: “ma tu non sei ebreo?”. No. “ E allora perché sei venuto qui?”. Brutta domanda, e cattivo segno. Peter è ammirato, gli sembro una specie di pioniere, mi dice che potremmo diventare molto amici, io e lui.

Saluto la coppia americana, lei sospira sapendomi arrivare da un luogo non troppo lontano da Venezia. “Oh, Venice…”.

Esco dal museo e sono solo. È ancora Zhoushan road, sono ancora quelle mura. Non ho fretta, parlo ancora un po’ con loro e con la loro storia perduta nell’indifferenza della città.

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Head down little girl

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Usain Bolt ride sempre, per qualcuno anche quando non dovrebbe. Tirunesh Dibaba non ride mai, almeno questo è quello che dicono le due righine che soltanto uno dei principali quotidiani italiani ha deciso di dedicarle oggi, all’indomani del secondo oro olimpico. Per il bravissimo Bolt si sprecano i titoloni (il più ad effetto, ironico sulle disgrazie degli avversari: Usain, Usaout), meritatissimi; per lui si lavora di metafore, dai fenomeni atmosferici (fulmini e saette) a quelli pirotecnici. Per Tirunesh no. Forse è il caso di chiedersi il perché. So bene che i 10.000 stanno ai 100 metri piani come un lungometraggio rumeno sottotitolato in coreano sta ad un blockbuster americano. Eppure quando c’è di mezzo un atleta azzurro ci appassioniamo alle vicende del taekwondo o del tiro al piattello, discipline complicatissime e non sempre da cardiopalma. Quindi? È tutta colpa davvero di quel sorriso mancato, di quel capo chino. Di quei pensieri impenetrabili, di quella vita che se ne sta al riparo dentro il suo guscio, senza squadernarsi davanti a tutti? L’infanzia sugli altipiani, la famiglia numerosa sì, d’accordo, ma chi è davvero Tirunesh? Perché non ci interessa? Usain Bolt che ride sempre, Tirunesh Dibaba che non ride mai. E noi lì nel mezzo, costretti a scegliere. E scegliamo sempre la storia più semplice, quella dove non serve andare a fondo. La storia fast food dell’uomo più fast. Peccato. Tirunesh Dibaba: who’s that girl?

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Fortunato quel popolo che soccorre i propri eroi

 

Nel negozietto dituttounpo’, aperto 24 ore su 24, un’orda di giovani e giovanissimi prende d’assalto il grande parallelepipedo costruito con le bottigliette. Si tratta di scatoline rosse – rosso Cina? No, rosso Coca Cola – contenenti una versione speciale della celebre lattina, con l’effigie dei campioni delle Olimpiadi. Un prodotto che a Pechino si vende parecchio, in queste settimane, ma stasera di più. Stasera tutti cercano la confezione con l’eroe sconfitto, con la speranza tarpata, con chi oltre alla fiaccola si era incaricato di portare fino al Nido d’uccello anche i sogni di una nazione. Vogliono lui, lui soltanto. Si avventano sulle confezioni, gettano via arrabbiati le lattine con la diva dei tuffi, quella col mago del pingpong. C’è un puzzo tremendo di retorica, lo so, del peggiore nazionalismo, certo, ma mi sembra comunque nobile che si celebri un perdente, un corpo incapace di essere citius, altius, fortius. I commessi del negozio sono spiacenti, mortificati, i clienti hanno un diavolo per capello, gli toccherà provare altrove. Il prezioso oggetto di latta, divenuto una sorta di “Gronchi rosa” in questo 18 agosto, vale come una medaglia del metallo più prezioso.

 

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Con che scarpe attraverseremo certe domeniche mattina…

La scarpa superflessibile. La scarpa luccicante. La scarpa dorata. La scarpa leopardata. La scarpa color giaguaro. La scarpa ad hoc, hic et nunc, creata per l’occasione. La scarpa personalizzata, con la firma. Poi alla fine vincono quelli colle scarpe slacciate, le stringhe oblunghe, le protesi del corpo con incorporato intralcio. Il trionfo della sostanza sulla forma, del caos sull’ordine, dell’improvvisazione sulla metodicità e sul calcolo. Dell’isola farfallona sulle superpotenze planetarie. Intanto a Pechino per strada uomini pazienti risuolano ancora le scarpe, riparano tacchi, cambiano stringhe. Per negozio hanno uno sgabello, alcuni la fortuna di una moglie al fianco. Sono i cordoni slacciati della città che si è rimessa a nuovo, che si è rifatta il trucco. Conservano intatta la loro dignità, la dignità del loro lavoro. Sanno che anche il popolo cinese ha iniziato a rottamare le scarpe, a farlo in fretta,  a non pensare più che magari basterebbe una toppa, o un filo di colla nel punto giusto.

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Pausa medaglia

Alcuni commentatori hanno segnalato lo sciovinismo dei tifosi cinesi, e fino a questo pomeriggio non avrei potuto dar loro torto: i canali della CCTV, la “Rai” del celeste impero, pullulano di maglie, calzoncini, canottierine, caschi, tute e tutine rigorosamente rossi. Mi è capitato qualche ora fa di imbattermi in un capannello di cinesi imboscati all’ultimo piano di un grande mercato, immenso parallelepipedo colmo di giocattoli, vestiti, diavolerie elettroniche e perle, milioni di perle. L’allestimento del sesto piano non è stato ancora completato, la scala mobile arriva fino al quinto e pertanto pochissimi avventori raggiungono le poche botteghe presenti. Il luogo ideale per rifugiarsi quatti quatti durante il turno di lavoro e seguire qualche evento olimpico. Si è presto formato un piccolo capannello, una ventina di pechinesi, un americano ed io. Alcuni cinesi avevano l’aria di essere “in pausa”, regolari; altri era evidente come non dovessero trovarsi lì in quel momento, ma per nulla al mondo avrebbero rinunciato a quelle immagini sullo schermo al plasma. In palio c’era una medaglia nel sollevamento pesi femminile, categoria 58 kg, ragazze di una certa prestanza capaci di stare per qualche secondo all’ombra del triplo dei loro chili. Uno sport da socialismo reale, considerato che le finaliste provenivano rispettivamente da Russia, Polonia, Corea del Nord e… Cina. I miei compagni di visione si sono dimostrati molto sportivi, hanno applaudito tutte le atlete e hanno emesso dei suoni dispiaciuti nei momenti di difficoltà delle atlete “straniere”. Dei “peccato”, ogni qual volta un appoggio cedeva e il pesantissimo attrezzo rimbalzava sul tappeto di gara. Poi, certo, quando la beniamina di casa ha sollevato un numero record di chili sono esplosi in un’ovazione travolgente, ma ormai si era creato pure un clima, ho esultato anch’io e ci siamo spinti fino a delle sonore pacche sulle spalle (loro a me, io non mi sarei permesso…). Al momento del podio, tanto per smentire un altro adagio, nessuna particolare enfasi per inno e bandiera. Mani in tasca molto poco solenni e chiacchiere a coprire le sacre note. Tifosi normali in un paese normale. Alla fine sono tornati tutti al lavoro, sia mai che l’Italia spedisca il ministro Brunetta a rappresentare il Governo…

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La solita

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Conduco da mesi una battaglia dai forti connotati femministi in difesa di Laure Manaudou e delle donne tutte. Colpevole della sua avvenenza, la francese, e di essere passata attraverso ben due (dico: 2!) relazioni sentimentali. Aggravante: aver lasciato un partner italiano. Ieri Repubblica.it titolava “La solita Manaudou” (sottinteso: troia) a proposito di questa foto. Sempre ieri 26 persone sono arrivate sul mio blog digitando su Google il nome della nuotatrice, citata (citata, non eccitata) in uno sportivissimo post della primavera 2007.

Piccolo esperimento sociologico, vediamo cosa succede nei prossimi giorni…

                                                     

MANAUDOU NUDA

MANAUDOU FA SESSO

MANAUDOU COMPLETAMENTE NUDA

MANAUDOU SEXY

MANAUDOU HOT

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Libera nos a Pechino

Cammino sotto una pioggia sottilissima in questa domenica olimpica. Poche gocce inaspettate e salutari, mentre le persone affrettano o non affrettano il passo. Sì, perché Pechino è 8 milioni di persone che corrono (e chissà dove corrono) e altri 8 milioni di persone che vivono in una sorta di tempo sospeso, un tempo che non passa, e non fanno niente, basta la presenza, basta quella sorta di attesa perenne. Io mi sincronizzo su un ritmo intermedio, né lento né veloce. Cammino, nello zaino la spesa, nelle mani 10 rotoli di carta igienica. 10 piani di morbidezza. Nella città in cui dieci piani sono la misura di una casa di bambola, guardo l’ascesa di un  grigio palazzone. Non una di quelle enormi cattedrali di acciaio, cemento e luci al neon, non uno di quei colossi nati per contenere uffici con le poltrone di pelle, il mobiletto con i liquori, il tavolo per i cda, il grafico con l’andamento degli affari. Parlo di un condominio formicaio, squadrato e ricoperto di semplici mattonelle sporche di smog.  Rischio la pioggia negli occhi – peggio: sugli occhiali. Ma penso a questa gente e penso che a questa gente forse manca una lettura di se stessa, lo sguardo di qualcuno che sappia interpretare i tempi e gli eventi. Mi viene in mente Luigi Meneghello e il suo insetto scalatore di monumenti ai caduti. Immagino allora uno di quelli scarafaggi infestano le case del quartiere in  cui sto vivendo, bestiacce con la scorza dura, dure a morire. Ne immagino uno mentre affronta la parete del palazzo, si arrampica sull’insegna del barbiere, affronta le onde della maglia degli Houston Rockets e sale al secondo piano. Poi su al terzo. Schiva le gocce d’acqua dei condizionatori posizionati selvaggiamente nel tempo, man mano che le famiglie se li sono potuti permettere, s’inerpica sul groviglio dei fili elettrici, aggira il catino celeste, percorre il manico di scopa. Diffida della palla di pezza oltre il vetro sporco, segue la via di nuovi panni a stendere. Scala finestre da cui probabilmente nessuno guarda mai, ché davanti oltre al mare di macchine c’è poco o nulla da guardare, sente gli odori di tutte le cucine del palazzo, fritti, tanti fritti, peperoni e zucchine e se ne inebria: a uno scarafaggio devono piacere certe fragranze.

Ancora mattoni, ancora finestre, la maglietta di un volontario delle Olimpiadi a stendere, la tuta di un operaio, qualche pianta, poche in verità. Una bicicletta in terrazzo, e sarà il ventiduesimo piano. E ancora vite, oltre quella facciata infinita. Vite che gli potranno sembrare ripetitive ma sono soprattutto spaesate, disorientate. Vite di vecchi che si sono scottati nella pentola a pressione del Novecento (…il grande assente nelle rievocazioni storiche della cerimonia d’apertura). E gli manca, si vede benissimo, qualcuno che raccolga i fili e li sbrogli, un Meneghello con gli occhi a mandorla, qualcuno che tenti di raddrizzare il volo obliquo di un’identità, come fanno certi signori sdentati nei parchi con i loro aquiloni.

Piove una pioggia sottile, sui miei occhiali e sugli scarafaggi scalatori di palazzi. Piove sulla prova su strada di ciclismo femminile, se mi affretto riesco a vedere gli ultimi chilometri in tv.

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A voi che ascoltate delle mie considerazioni sparse il suono: la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi

Ha ragione Miuta nel commento al post precedente, grande idea quella dell’uomo che corre volando. Sotto i suoi piedi avrei però proiettato un altro sfondo, l’avrei fatto correre su un prato, su una pista d’atletica, sul mare, nel cielo. Però, bravi lo stesso.

 

Confermo quanto scrissi ai tempi di Torino 2006: disegnare cerimonie d’apertura è il lavoro più bello del mondo. Peccato che il mercato sia piuttosto saturo.

 

Le scene di massa. Vanno bene, certo, è bellissimo disegnare coi corpi, molto bello il nido fatto di omini fosforescenti uno sopra l’altro. Però la retorica del popolo che sorregge tutto sulle proprie spalle li stuferà, un bel giorno… Il 90% delle scene accadevano su un tappeto di corpi umani, nelle pubblicità alla tv qui il pivot schiaccia dopo aver camminato sopra le teste del pueblo unido. Basta! Un po’ di sano individualismo.

 

Io la cerimonia l’ho vista dal divano. Un occhio seguiva la tv, uno seguiva internet, uno seguiva lo stradone sotto la finestra. Anche durante il megashow olimpico ha continuato ad essere percorso da biciclette, coppiette, vecchine col cagnolino. Mica solo poveracci senza televisione. Gente che aveva altro da fare: buon segno. Quanti italiani nel 2006 sono stati davvero immuni dal po po po po di Gattuso e compagni?

 

Voto 10 ai giapponesi con la doppia bandierina in mano, la loro e quella dei dirimpettai stuprati nel 1937. Come diceva Alex Langer: viva le bandiere, specie quelle degli altri.

 

C’è un ente, un organo, un organismo internazionale che possa impedire agli atleti fotografati e filmati di fotografare e filmare a loro volta mentre stanno sfilando? Se esiste, batta un colpo e faccia qualcosa per Londra 2012.

 

Le autorità e le teste coronate. Quelli dei piccoli staterelli con il portabandiera, 3 atleti, il massaggiatore e il cuoco sembravano davvero emozionati. Quelli con 400 atleti va da sé che erano molto attenti al profilo migliore da offrire alle telecamere. Il ciao ciao di Manuela Di Centa agli italiani era a dir poco imbarazzante, vista la carriera vincente ma non priva di ombre (no, non intendo Forza Italia, intendo il doping…).

 

Avrò il cuore tenero, ma a me sono piaciuti gli ombrelli con le facce dei bimbi. C’erano tanti bimbi. Una scricciola somigliava tantissimo a quella che mi ha abbracciato qualche post fa. I bimbi portano la pace, rasserenano. Poi ti svegli quando senti l’ovazione per la Corea del Nord.

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Tutti qui

Da Silva Luiz Ignàcio detto Lula, ex operaio.

Bush George, uomo da sempre attento ai diritti umani.

Sarkozy Nicolas, marito di Carla Bruni.

Putin Vladimir, amico di Berlusconi.

Mushrraf Pervez, dittatore.

Zafferani Rosa, capitana reggente di San Marino.

Riquelme Juan Roman, il mio calciatore preferito.

Schiavone Francesca, la mia tennista preferita.

Vlašic Blanka, gli occhi più grandi del mondo, nelle gambe il salto più in alto del mondo.

Bekele Kenenisa e Dibaba Tirunesh, gli atleti che più mi emozionano…

Manaudou Laure, che da quando ho fatto un post su di lei quotidianamente 6 o 7 naviganti la vengono a cercare nella Pozzanghera…

Bettini Paolo, ma come si fa a non farsi rodere dai dubbi…

Audisio Emanuela, la penna più brava a scrivere di sport.

[…]

Disint Andrea, io.

Tutti insieme qui, chi per un motivo, chi per un altro. Oggi, 8 agosto 2008.

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I giornalisti, come le donne, quando vanno in bagno ci vanno in due…

Pozzanghera non vuol dare lezioni a nessuno. Se ne guarda bene. Le spiace notare, però, che le maggiori testate italiane (1 e 2), con tutto quello che davanti agli occhi qui si squaderna, con tutto quello che fa dire Ohhhh, che fa dire Maddai, che fa dire Chi l’avrebbe mai detto… siano rimaste chiuse nel cesso. All’unisono, come non accade neanche con il primo fascicolo gratuito del corso d’inglese. Vabbè il quadretto, vabbè la pillola giornalistica scritta bene… Ma se a Torino 2006 la stampa internazionale avesse cominciato a raccontare l’Olimpiade dagli sciacquoni…

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Straordinarie misure d’insicurezza

Andavo bel bello per hutong, la mia solita passeggiatina nella Cina profonda, lontano da lustrini e palazzoni, sopraelevate e altissima moda. Avrei dovuto capirlo dalla densità di venditori di bandierine, oppure da certe guanciotte…

 

Tipa

…di lì a poco, nello stradone, sarebbe passata la fiaccola. Francamente non so nemmeno dove mi trovo, ho perso tutti i riferimenti, tutti i miei grattacieli mollica di pane. Mi chiedo se è il caso di unirmi a queste allegre genti in attesa del tedoforo. Certo, mi rispondo, non posso mica battere la fiaccola. (Un assaggio, tanto per entrare nel tono satirico del post…). Arrivano quelli della Polizia, hanno i guantini bianchi e i modi gentili, ci dicono di sistemarci in uno degli angoli dell’incrocio. Non c’è problema, noi si collabora, noi si agevola. Sì, d’accordo, ma non ci staremo mai in quell’angolo. Niente da fare. Il nostro angolino è proprio quello. Quelli della pula chiamano allora una trentina di soldatini imberbi, dai 16 a i 20 anni, li invitano a formare un cordone umano che ci schiacci contro il marciapiede e il piccolo prato alle sue spalle. Detto e fatto. Ma quelli sono cuccioli e si vede che gli piange il cuore. Il gioco si fa duro e quando il gioco si fa duro, si sa… Ecco arrivare un paio di dozzine di teste di cazzocuoio, palestratissimi, spigolosissimi nelle divise blu col cappellino (molto amerikano). Cominciano a spingere la folla (dentro ci sono io, nella folla). Non hanno guantini bianchi, non hanno i visi imberbi. Pazienza se spingono me, che c’ho la faccia dell’attivista politico che da un momento all’altro srotola lo striscione pro Tibet, questi fanno volare via vecchine come fossero foglie di platano, sollevano ragazzine, comprimono anziani sdentati. I bambini, almeno una decina, attaccano a piangere. Hanno voluto scherzare col fuoco olimpico? Da buon italiano di sinistra dovrei scrivere che ho assistito ad una scena cilena. In realtà mi ha colpito molto il clima di profonda disorganizzazione. Altro che fiaccola olimpica, quella era la fiaccola dell’anarchia! Infatti, mentre 100 energumeni si occupavano di inscatolare 120 innocui spettatori, attorno la sicurezza faceva acqua: spazzini che continuavano a spazzare la strada, biciclette scassate trasportanti bombole del gas  (!), giovani allegramente arrampicati sugli alberi, sui lampioni. Gente che andava e gente che veniva, con le forze dell’ordine equamente divise tra chi giocava al sergente di ferro e chi nell’angolo messaggiava col telefonino. Menzione d’onore per la vecchina sorridente capace di sferrare una testata (alta un metro e cinque cm, fate un po’ voi dove…) ad un energumeno in divisa.   

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