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A titolo di premessa

Alla Pozzanghera piacciono da matti i romanzi di Ugo Riccarelli.

Ancora una volta lo scrittore ha scelto una fotografia di Édouard Boubat per la sua copertina.

Il titolo del libro è bellissimo.

Dentro c’è un personaggio, la protagonista, che si chiama “Signorina”. Il nome proprio: Signorina. Che a un certo punto immagino qualcuno dirà: “Signorina Signorina…”. Si chiama così per omaggiare un’omonima locomotiva.

Il romanzo è dedicato ad “Antonio, che è andato appena un attimo di là”. (Qualcosa mi fa pensare a Tabucchi…)

C’è anche un verso di Garcìa Lorca, prima che tutto cominci: MUOIONO D’AMORE I RAMI.

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Il gatto gemello

 

Sfoglio il “Venerdì” e ritrovo una foto che è una cara vecchia amica. Penso all’istante quello che ho pensato ogni volta che l’ho guardata. Che in quello scatto ci sono due gatti, oppure – fate voi – due Else Morante.

 

[…]

              E t’ero uguale!

Uguale! Ricordi, tu,

arrogante mestizia? Di foglie

tetro e sfolgorante, un giardino

abitammo insieme, fra il popolo

barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio,

ma la camera tua là rimane,

e nella mia terrestre fugace passi

giocante pellegrino. Perché mi concedi

il tuo favore, o selvaggio?

[…]

 

Elsa Morante, Canto per il gatto Alvaro

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Quando gli omofobi fanno oh…

Al netto della retorica.

Metti di possedere una cosa, grande ed appariscente. Cammini per strada ed incroci un gruppo di persone che scandiscono slogan in cui si sostiene che quella cosa, la tua cosa, non possa esistere, non faccia parte della natura, sia fuori dal mondo. A quel punto, se quella cosa guarda caso ce l’hai appresso, lì con te… A quel punto, con fare quasi didascalico, didattico, oserei dire scientifico… A quel punto, ecco, quella cosa la tiri fuori e gliela mostri.

Soprattutto se quella cosa è l’amore, soprattutto.

  

!!! Aggiornamento: bello scoprire, dopo aver scritto e postato, come non fosse poi l’amore, la cosa da mostrare… Era qualcosa di più: l’amore degli altri, dei miei fratelli con meno voce e meno diritti. Ancora meglio, via…

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Rottamare le matite

La satira dev’essere più importante del pane che abbiamo in tavola. Bisogna incatenarsi a difesa della libertà di ogni autore satirico, perché possa sputare il suo veleno in ogni direzione, approfittando di qualsiasi vento. Bisogna gridare contro ogni intimidazione, fatwa e censura sempre, e tutti assieme.

Ciò detto, la vignetta di Vauro sul ministro Fornero fa cagare. È davvero maschilista e non insegna / spiega / svela nulla se non che gli uomini da sempre, quando disprezzano una donna, la veston da puttana. A parole, a sottintesi, a vignette.

Abbiamo i politici che ci meritiamo e li abbiamo da 20 – 30 anni. Nel nostro paese, però, capita che anche chi li disegna sui giornali lo faccia ininterrottamente da decenni, replicando gli stessi cliché triti e ritriti, giocando sui soliti meccanismi che fino ad oggi hanno sempre funzionato.

Forse andrebbero rottamate anche le matite.

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Le ragazze di pagina 16 e 17

La ragazza di pagina 16 cammina sicura. La mano in tasca è innaturale e forse serve soltanto a far capire che c’è, una tasca. Ha possenti bracciali e stivali fiammanti: accessori da supereroi.

La ragazza di pagina 17 è ferma sulla soglia della casa d’appuntamenti in cui lavora. È truccata e sfoggia orecchini appariscenti.

La ragazza di pagina 16 ha lo sguardo da dura, proporzionato al suo incedere determinato.

La ragazza di pagina 17 accenna un sorriso e sembra quieta, in pace.

La ragazza di pagina 16 ha i capelli nel vento.

La ragazza di pagina 17 ha la testa coperta da un velo, ma davanti scappano rigogliose manzoniane “ciocchettine di neri capelli”.

La ragazza di pagina 16 fa la modella. Nella fattispecie sta posando per la griffe LALTRAMODA (www.laltramoda.it).

La ragazza di pagina 17 è la protagonista di un reportage dal Bangladesh di Ettore Mo (non leggo abitualmente il “Corriere”, ma mai trovato un suo pezzo che finisca lì, che non abbia la dicitura “continua…”), e fa la sex worker, la prostituta.

La ragazza di pagina 16 con tutta probabilità sta attenta alla linea e ha una gran paura di ingrassare.

La ragazza di pagina 17 prende abitualmente l’Oradexon, una cow pill, una pastiglia per le vacche. Dona in poco tempo rotondità inaspettate, quelle che piacciono ai clienti di quella parte del mondo. Si dà ai bovini perché ingrassino in fretta. Agli umani provoca diabete, sfoghi cutanei e atroci mal di testa.

La ragazza di pagina 16 e la ragazza di pagina 17.

Il caso ha voluto che si guardassero stamattina sulle pagine dello stesso quotidiano. Impossibile non notarlo. È proprio così: si scrutano, da pagina 16 a pagina 17 e viceversa. Si può tirare una linea con la squadretta, da occhi ad occhi.

Nessuna morale, nessuna considerazione sulla “globalizzazione dei diritti” questa sconosciuta.

Solo un quadretto, una piccola illuminazione. Prima di continuare con pagina 18.

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“La sua meraviglia era la mia protezione”

Eppure avrebbero dovuto colpirmi di più le fotografie, che sono meravigliosamente evocative, che giocano con la luce e di volta in volta la rincorrono, oppure le sfuggono. Avrebbero dovuto cercare i miei occhi e rapirli, individuare la mia buonacoscienza e prenderla a schiaffi. Tutto questo è successo, eccome se è successo, e l’effetto sta continuando anche 24 ore dopo essere uscito da quel salone che non potrebbe avere un nome più azzeccato: “degli Incanti”.

È successo, dicevo, ma è successo dopo.

Prima il mio sguardo e la mia attenzione si sono posati su quei fogli di carta giallognola, appesi alle pareti, in basso rispetto alle fotografie. Appiccicati alla bell’e meglio, come dei grandi post-it, e solcati da una matita tenera (4B?), una matita che sbava al contatto con la pelle della mano e che si corregge alla bisogna, scarabocchiando. La matita della fotografa Monika Bulaj. Brevi appunti, informazioni, annotazioni, a volte in stampatello, a volte in corsivo. Scritti di getto, chissà quando, a margine di ogni scatto e di quel che esso rappresenta. Con una calligrafia antica, o – meglio – senzatempo. In una lingua viva come poche ne ho incontrate, scaltra ma poetica, imprecisa sapendo di esserlo (“né” senz’accento, “Mediterraneo” con due “d”…).

Insomma: straordinaria.

Ho una nuova scrittrice di riferimento: peccato che faccia la fotografa.

 

(La mostra “NUR/LUCE Appunti afghani” di Monika Bulaj, davvero imperdibile, è a Trieste fino a fine settembre) 

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Solo FORZA PURA, nessuna FORZATURA

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Il giornale su cui scrive Aldo Cazzullo è lo stesso su cui scriveva Pier Paolo Pasolini. Uno che amava le posizioni scomode, uno che capovolgeva i punti di vista. Facile dire oggi quanto vedesse lontano, quanto le sue parole fossero profetiche. A quelli che c’erano già, probabilmente gli editoriali del poeta facevano venire la gastrite, o dei gran giramenti di balle.

Aldo Cazzullo, turbato forse dagli eccessi retorici di qualche collega, ha detto la sua sulla partecipazione di Oscar Pistorius alle Olimpiadi londinesi provando a pasolineggiare. Risultando decisamente più cinico che profetico.

Già dall’incipit è evidentemente “in posa”.

«Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi».

Sa di mentire, il giornalista. Sa che l’opinione pubblica – più o meno a conoscenza della vicenda sportiva dell’atleta sudafricano – non ha affatto maldigerito quella presenza sulla pista, sa che certi dubbi da tempo non li solleva più nessuno e che forse può convenire a lui, risollevarli, sul giornale della domenica.

Fin qui tutto lecito, è compito della stampa pungolare i lettori e non grattar loro sempre e puntualmente il pancino. Sono le argomentazioni messe in campo nelle righe successive, a rendere pessimo il pezzo di Cazzullo.

Sulle questioni “tecniche”, sulle presunte distorisioni ai regolamenti di gara che la partecipazione di Pistorius provocherebbe, ha fatto per l’ennesima volta chiarezza Claudio Arrigoni

Ma c’è dell’altro: l’inviato del “Corriere” sente puzza di marketing. Pistorius ha degli sponsor che in questi giorni più del solito lucrano sulla vicenda umana del quattrocentista. Buongiorno Cazzullo! Benvenuto sul pianeta terra. Il giornalista pochi giorni fa ha elogiato con enfasi (e a ragione!) le gesta di Velentina Vezzali; se tuttavia applicasse lo stesso arido cinismo al caso della schermitrice jesina, giungerebbe alla conclusione che la nascita del celebrerrimo piccolo Pietro, 7 anni fa, fosse finalizzata alla creazione del mito dell’atleta-mamma, funzionale all’immagine della barretta ai cereali, leggera e nutriente, del marchio Kinder. A noi piccoli pasolini non la si fa. Sia dunque vietato agli atleti disabili di firmare contratti di sponsorizzazione (vade retro, Satana!) con chicchesia, e già che ci siamo alle madri spadaccine di figliare.

Sfugge inoltre a Cazzullo, il messaggio che Pistorius lancia quotidianamente al mondo dei disabili (sommati “la terza nazione del mondo”, per citare la suggestiva metafora di un bel libro), e invita tutti a guardare piuttosto all’esempio del ministro tedesco Schaeuble. Il giorno che un ministro dell’economia disabile si affaccerà sulla scena politica italiana, tuttavia, Cazzullo-Pasolini ci dirà che stiamo cedendo a qualche misteriosa forzatura.

Il perché secondo me Oscar Pistorius avesse diritto di partecipare alle Olimpiadi l’ho scritto 4 anni fa, alla vigilia di Pechino 2008. Non ho cambiato idea.

Come segnala Arrigoni, sulle pagine dei social network con cui l’atleta sudafricano comunica con i suoi tanti fan e follower non campeggiano soltanto i baffetti dello sponsor e nemmeno i suoi slogan ammiccanti. (Altra furbata di Cazzullo: “nothing is impossible”, usato nel suo articolo, non appartiene alla Nike di Pistorius, bensì, come sanno i ragazzini, all’Adidas. Ma all’autore serviva la parola “impossible”, e quindi l’unica soluzione era imbrogliare, operare – lui sì – una piccola forzatura: Just do it).

C’è una foto. Che la dice lunga. Lunghissima.

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Tu mi fai girar come fossi una GIF

Quando tutti si sono finalmente seduti, a mezzaluna, davanti a vecchio e glorioso Computer 1 di Scuolamagia, in genere qualche vocetta formula la domanda: “Prof., si va sul Post?”.

Non è sempre così, ovviamente. Cioè, intendo, si va anche altrove… il Web è un mare vasto e pieno zeppo di pesci. Però, il sito con cui più spesso provo a stupirli, stimolarli, pungerli, provocarli e perché no… anestetizzarli è proprio il Post.it. Perché ci sono le gallerie fotografiche con gli animali, quelle con gli sportivi, ci sono carte geografiche bizzarre, i grattacieli più spaziali del pianeta e soprattutto ci sono i video, roba di una certa qualità, mica il primo gattino che un giorno abbaia e diventa virale su YouTube.

Oggi, per dire, ci sono queste GIF animate, frutto del lavoro di certi giapponesi, ed è stata durissima scegliere quella da inzuppare nell’acqua sporca della Pozzanghera.

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Il 5° goal della Spagna

Antonio José Puerta Pérez è morto il 28 agosto 2007, all’età di 22 anni. Non era un calciatore famoso. Era un giovane di belle speranze, un talento delle rappresentative giovanili che però, in un’unica occasione, aveva già assaporato la gioia di indossare la divisa rossa della nazionale maggiore. La sua faccia è rispuntata ieri sera, senza troppa retorica, sulla maglietta di un uomo che sorrideva e saltellava, che abbracciava tutti, che giocava a fare il torero e soprattutto sollevava un trofeo importantissimo.

La memoria dev’essere tenace, se vuol essere tale. È bello che ci si ricordi di una persona di cui ci si era già ricordati. Ampiamente. Gli spagnoli a Puerta avevano già dedicato un mondiale ed un altro europeo. Non era la prima volta che stampavano la sua faccia e il suo nome sulle magliette. Non serviva, si sarebbe tentati di pensare. E invece sì, devono aver pensato gli uomini di Del Bosque.

Nel torneo che passerà alla storia per le magliette levate a favorire plastiche pose da statua, ecco un altro momento che avrebbe dovuto essere celebrato: un uomo che si mette una t-shirt con la faccia di uno sfortunato collega che non c’è più.

Chissà se l’avevano preparata, gli azzurri, la maglietta col ragazzo crollato in campo il 14 aprile 2012 (come dire: ieri)? Anche lui aveva onorato la casacca azzurra. Probabilmente sì, l’avevano preparata. O forse no. Non lo sapremo mai. L’avessero indossata comunque – nonostante la sconfitta, fieri di un inaspettato secondo posto – le Furie Rosse non si sarebbero certo sentite offese.

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Sharapova batte Cassano 6-0 6-0

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Quando l’ho vista, scorrendo come di consueto le belle gallerie fotografiche del Post, sono rimasto folgorato. Stupenda. No, non lei… Cioè: anche lei, ma quello si sa, è la sua disgrazia, nessuno la ricorderà per i suoi dritti e i suoi rovesci.

Stupenda la foto, la situazione immortalata. Stupendo il luogo, una sorta di sacrestia laica. Stupenda la postura, la compostezza dei gesti, un corpo di donna come protetto da un guscio, come riposto in una custodia. Stupenda la luce.

Non vorrei essere il fotografo, non vorrei essere lei: vorrei essere il trofeo per stare vicino ad entrambi.

Ho detto: la metto nella Pozzanghera.

La Sharapova nella Pozzanghera?, ha commentato una parte di me dai banchi dell’opposizione. Ma ti pare?

Poi oggi, appena sentito il Cassano pensiero, mi son detto che le dighe a difesa della bellezza e contro la barbarie vanno erette sempre.

La Sharapova ci difenderebbe da quelli che pensano “i froci, problemi loro…”?????, attaccano di nuovo quelli della fronda.

Sì, guardo la foto e penso esattamente quello.

E la mozione passa, a maggioranza relativa.

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Sweet Salgarì

Mi tolgo subito d’impaccio e lo pronuncio a modo mio: Salgarì. Sbatte dove debba battere, l’accento. Tra le due versioni litiganti la terza gode, tanto ci capiamo lo stesso. Confesso anche di aver da sempre nutrito una curiosità morbosa attorno al suicidio splatter del celebre scrittore, e da quel finale così enorme la voglia di saperne di più, di quella vita, si è allargata come fanno i cerchi concentrici sull’acqua dopo il lancio di un sasso: il disordine, lo stress della scrittura, le pagine pagate un tanto al chilo, le ambizioni frustrate, la società di massa…

Ora è arrivato un fumetto che mi ha preso per mano e mi ha spiegato tutto. Ignorando completamente gli eroi immortali creati da uno scrittore che non sappiamo manco pronunciare. Niente Sandokan, niente Malesia, niente tigri della medesima. Solo Emilio, un uomo solo.

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La Marilyn di Noemì

Quando Noemi è entrata a Scuolamagia, io non l’ho soltanto accettata, con i suoi pregi e i suoi difetti; io l’ho pure acceNtata. Nei panni di Noemì ha trascorso 3 intensi anni della sua vita prima di andarsene, con decisione unilaterale che non non ho mai digerito del tutto, a compiere studi liceali.

Qualche settimana fa, in biblioteca, stava cercando su Google immagini di Marilyn Monroe. Le servivano per uno dei suoi disegni, e alla fine la decisione è stata collettiva: sua, mia, degli altri ospiti della biblioteca. Quella lì, con la collana di perle. Poi abbiamo cliccato su “stampa” e ci siamo detti bye bye baby.

Nei venerdì successivi ogni volta che l’ho incontrata le ho chiesto notizie della sua Norma Jeane Baker, manco fosse un paziente in sala operatoria. «Devo finirla», rispondeva. Oppure: «ci siamo quasi…». Confesso che dopo l’ultimo bollettino, piuttosto sul vago, ho deciso che non avrei insistito oltre. Nella vita ho cominciato mille disegni che non sono riuscito a terminare, ho iniziato racconti che si sono persi dopo un paio di facciate, ho pieni i cassetti di prime strofe di canzoni prive di ritornello. Mi sono sentito inopportuno e indiscreto. La Marilyn Monroe di Noemì aveva tutto il diritto di giacere appallottolata nel cestino della carta, sotto la scrivania.

Parole in questo post ce ne son troppe. Com’è finita questa storia l’avete già capito.

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Daniele

Forse i Maya non avevano previsto catastrofi spettacolari, hollywoodiane. Probabilmente sapevano che il 2012 ci avrebbe portati via uno alla volta, con metodo, così come si sfoglia un calendario. Un giorno un cantautore, il giorno dopo un poeta. Oggi è toccato al mio amico Daniele.

Era stato il mio capo, al tempo in cui ero un obiettore di coscienza in un sindacato. All’inizio il mio compito era quello di fotocopiare i suoi interventi pubblici sulle più scottanti questioni economiche e sociali di questa terra, col tempo ho avuto l’onore di leggerli in anteprima e discuterli con lui. Un giorno gli dissi che la sua prosa mi ricordava quella di Cossiga, che all’epoca imperversava sul “Corriere” con certi caustici editoriali. Sapeva che a me Cossiga faceva piuttosto schifo, ma era contento ugualmente. Alla fine di quella parentesi nel sindacato, ero diventato il suo vignettista satirico di riferimento, e più cattiveria ci mettevo nel rappresentarlo e più lui si divertiva.

Poi l’ho ritrovato su Facebook, e insieme abbiamo chattato di questo mondo tutto da leggere e capire. Ogni tanto sembrava volesse rimproverarmi: gli sembravo rassegnato e mi ricordava che quel ruolo doveva essere il suo, non il mio. Io avevo ali che lui non aveva più, e avevo già perso l’entusiasmo che in lui bruciava ancora.

Daniele amava Scuolamagia ed era un attento lettore della Pozzanghera: una volta gli avevo chiesto di tradurre in lingua friulana alcuni passi dell’Eneide. Le sue perplessità si erano presto sciolte e i miei cuccioli avevano declamato i suoi versi nello spettacolo di fine anno. Aveva fatto dire a Didone, disperata: «Ah parcè m’illudio, ce chi mi spieti? / Si esal forsit ingropât a jodimi vaì? / No l’a batut cej, nencja un sospir, / nencja una lagrima par me che i vuei ben…». Si era messo dalla parte di una donna, proprio come quando si batteva energicamente perché aumentassero i posti di lavoro femminili nell’Alto Friuli.

Una volta, prima di partire per la Cina, gli avevo promesso un souvenir. Girando per Pechino, però, non avevo trovato nulla che potesse resistere al vaglio di un suo ruvido e cinico commento, avevo così ripiegato su un oggetto che fosse un simbolo di quell’altrove di cui avevamo tanto parlato. Un quadernino grande un palmo di mano, lo strumento su cui i bimbi del Celeste Impero tracciano a sinistra i loro caratteri e a destra li traducono in inglese, esercitandosi a conquistare il mondo. Un reperto del presente, al modico prezzo di mezzo dei nostri centesimi. Più di quello che sento di valere io, che quel quadernino marrone non gliel’ho mai consegnato.

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Nel suo occhio c’è l’azzurro, nel suo braccio acciaio c’è

Non me ne vorrà e sarà d’accordo con me, il giornalista italiano dalla faccia bianca e lo sguardo sempre triste. Avevo solidarizzato con lui, stamattina, ascoltando la radio. Ci vuole coraggio, pensavo, e si trattava soltanto di un uomo in guerra con una Mito. Passa una manciata di ore e quell’eroe è ridimensionato. C’è un’altra faccia sulle homepage, sempre di giornalista, sempre in guerra, ma questa volta da un Mito sembra essere uscita.

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Cercando Andrea (2)

 

Cercare Andrea, dicevamo. E trovarlo: succede. Umida mattina nella grande città del nord. Strade affollate, cantieri aperti, tram che sferragliano. La via è quella giusta, trovare una galleria d’arte non dovrebbe essere difficile. E invece sì, soprattutto se la galleria è piccolina e se anche il barista a fianco ne ignora l’esistenza. Certo, bisogna avere il coraggio di spingere il cancello arrugginito, guardarsi attorno nel cortile su cui si affacciano i terrazzi, su cui penzolano le braccia dei maglioni a stendere, bisogna avanzare il giusto, girare a sinistra, imboccare il corridoio e distinguere il foglio appeso sulla porta, una tra le tante: ingresso libero. Entrare, respirare il profumo dei libri, tantissimi, stipati in un labirinto di scaffali. Storgo il collo per leggere un dorso a caso: Matisse. Vado dritto, anzi storto, nell’aria una chiacchierata colta e serena, tema: “quanti casini tra gli eredi dei grandi artisti”. Interessante, ma origliare è maleducazione. Sempre storto, dicevamo, poi finalmente Andrea, solamente Andrea. Pochi disegni, niente di maivistoprima ma non fa niente, l’emozione è la stessa. Non è la carta patinata dei libri, i fogli sono quelli che usano i ragazzi delle medie, marchiati “Fabriano” nell’angolo in basso a destra. Mi riempio gli occhi di leoni e corvi, cavalli e vampiri. Butto lì un arrivederci e grazie. Rispondono e riprendono subito a parlare della vedova di Mario Schifano. Fuori, ritrovo il cielo ma non è più grigio. È giallo, arancione, rosso e perfino un po’ viola.   

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Lezione di didattica incendiaria


Capita di leggere saggi ultraspecialistici per professori d’assalto e non ricavarci un fico. Capita di sfogliare distrattamente, in treno, l’inserto femminile di “Repubblica” e percarci un’ideona da sbattere sui banchi dei ragazzi come un poker d’assi. Gente, casa vostra sta bruciando. Lo dice un sito molto trendy. Sì, ve ne siete accorti anche voi, quella è tutta gente fighetta piena di Canon come cannoni e di purissimo orgoglio Mac. Però l’idea è buona, fidatevi. Il salotto brucia e vi restano pochi minuti. Quel che basta per rintracciare una felpa, l’mp3 (quelli c’han l’iPod, lo so…), quei calzini che sapete voi, l’orsetto di pezza, il CD di Eminem e pedalare verso la salvezza.

Magari finisce che alla fine – sbirciate le reciproche foto – ci si conosca meglio, noi. E pazienza se il vostro letto è andato in fumo. Se siete stati svelti magari avete salvato il cuscino.

E adesso via, andate. Fate la punta alle digitali e buoni compiti. Ci si vede venerdì, prima ora, davanti al computer n. 1.

(altri compiti: qui)

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