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Tomboy e la recensione che non recensisce

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Forse sono diventato più egoista. Forse sono soltanto meno ingenuo di un tempo, quando tornato dalla proiezione di un film come Tomboy sarei subito corso sul blog per invitare tutti a correre al cinema, fornendo la mia lettura della pellicola e elencando i mille motivi per diffonderne la fama. Forse è cambiato troppo il web: 5 anni fa i lettori erano un pubblico più passivo ma più attento; ora tutti hanno in rete una comoda casetta blu e una serie di faccende urgenti da sbrigare – inviti da mandare, amici da accettare, like da apporre qua e là. Oppure non credo più alle mie parole, che a volte proprio non trovo, che sempre più spesso trovo inadeguate, troppo affilate o troppo poco. Sarà che tutto è sempre già stato detto e che si arriva sempre tardi, sempre dopo. Quando quello che devi dire puzza come il pesce, come un cadavere da seppellire.
Quindi basta una foto e la recensione è fatta. Buona visione.

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Almeno una poesia

Cap

Un bambino di nome Stefano
aveva cinque anni.
Facevamo un esperimento:
a chiamarlo forte
si toglieva il berretto.
Bisognava fare grande attenzione
per trovare il volume giusto:
assolutamente non piano,
ma nemmeno troppo forte:
indovinare fino a che punto
gli piaceva fingersi sordo
oltre che punto avrebbe rifiutato
di ricevere il messaggio.
Del punto esatto egli solo era l’arbitro.
La regola del gioco era segreta.
Camminava davanti a me senza voltarsi
e quando fu stanco corse via
senz’altro scopo che quello di lanciare uno strido
con tutta la sua gola di passero.

Gianni Rodari

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Sbatti la pietà in prima pagina

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A Pechino esistono ancora, mentre ormai per la strada un passante su due sta armeggiando con un iPhone, delle lunghe bacheche pubbliche su cui vengono affisse le pagine dei giornali. Attorno vi si radunano generalmente gli anziani, vecchietti con la canottiera bianca, signore con il ventaglio. I pochi giovani fanno capannello attorno alle pagine dello sport. Tutto il resto – per loro, si sa – è noia. Molti tra questi pechinesi probabilmente un quotidiano non possono nemmeno permetterselo, oppure pensano che sia meglio leggere il giornale di tutti, proprio perché non è di nessuno. Il loro gesto è decisamente quotidiano: stanno lì impettiti, le mani congiunte dietro la schiena, i lettori un po’ più orbi hanno il naso quasi appiccicato al vetro della bacheca. Si spostano da sinistra verso destra: le pagine non scorrono, loro sì.
Ieri pomeriggio, però, quegli occhi così golosi di notizie – sapessero, poi, quegli occhi, quante altre ce ne sarebbero, di notizie… – erano tutti fermi su di un unico foglio, un’unica prima pagina. E non leggevano, guardavano soltanto negli occhi la piccola Xiang Weiyi, superstite del terribile incidente ferroviario avvenuto nei giorni scorsi. Rimasta per 21 ore tra le lamiere contorte del treno vicino ai cadaveri dei suoi genitori.
Erano sguardi silenziosi e solidali, nonostante i quali tutto andrà avanti come prima, i treni cinesi rimarranno insicuri, le tratte ad alta velocità continueranno ad essere costruite male e in fretta. Ma quello di quei vecchietti era un sentimento autentico e prezioso. Nel giorno dell’editoriale del filosofo Vittorio Feltri sull’imperizia militare delle vittime di Utoya, qualunque cosa facesse la respirazione bocca a bocca alla pietà non poteva che darmi conforto.  

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Lettera a un killer

cenere
Gentile Makkox,

la sua matita elettronica è straordinaria. Le sue vignette sono epifanie. Fanno svoltare una giornata, le danno senso e ritmo. Raccontarle agli altri è la sfida più bella, soprattutto quando non c’è il computer a portata di mano e si sta magari passeggiando all’aria aperta. E quando le vedono senza vederle, gli altri, ridono di gusto… C’è Fini impettito di profilo, immaginati Berlu di spalle, gambette tarchiate aperte, c’è Bersani ingobbito, maniche tirate su, c’è un Padano svampito, c’è Ruby, c’è questo e c’è quell’altro.

Inizialmente a colpirmi era il tratto. Mi ero convinto che a Montepulciano avessero celebrato anche il funerale delle vignette, insieme a quello di Andrea Pazienza. Mi sbagliavo.
All’inizio è stato il tratto, dicevo. Poi ho capito che il segreto sta nella lingua. Una lingua meravigliosa. Una lingua così piena, densa, grassa, colorata, esplosiva.

Ma mi appropinquo al sodo.
Le scrivo come si scrive ad un killer.
C’è un politico padano delle mie parti, il capogruppo regionale della Lega Nord del Friuli Venezia Giulia, che oggi ha dichiarato quanto segue:

«La Prefettura di Pordenone sta cercando spazi per ospitare immigrati libici sul territorio in strutture private, ma noi non vogliamo questa gente: si costruiscano dei campi lavoro in Aspromonte, da noi i libici non devono arrivare»

Le chiedo semplicemente di uccidere quest’uomo con la satira. Come sa fare lei. Di scorticarlo come si fa coi conigli. Di scherzarlo brutalmente. Di irriderlo. Di giustiziarlo, di fare giustizia.
Sono davvero disposto a pagarLa, mi dica lei quanto. La cifra non è un problema. Faccia presto, però. Ho letto alcuni interventi pubblici della vittima e mi creda, ha già fatto molto male alla civiltà.

Grazie per tutto il lavoro sporco che ci pulisce.

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Dolls

Parto dalle biciclette fotografate da un giovane fotografo francese e scopro le sue bambole. Artificiose. Morbose. Sdolcinate tra i dolci. Inquietanti. Vive, ma in quella maniera lì. Con quella costante presenza di mani e braccia altrui – adulte e bambine: a cingere, carezzare, sfiorare. Consapevole che tra 26 minuti potrebbero disgustarmi, alle 20.04 dell’8 novembre decido che queste foto mi piacciono e che meritano di galleggiare sull’acqua marroncina della pozzanghera.

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Il piccolo signore delle mosche

C’è la foto del bambino con le mosche e c’è il bellissimo articolo di Adriano Sofri che mi ha afferrato per un orecchio come si fa con uno scolaro discolo, e mi ci ha ricondotto davanti per un’appendice di pensieri. Quelli pensati davanti al colonnino del giornale online, tra le rovesciate volanti dei campioni e le tette svolazzanti delle soubrette, non erano abbastanza.
Così, è venuto in mente anche a me come a Sofri l’aneddoto di Giotto, di Cimabue e della mosca dipinta più vera del vero. E anche il disegno sulla scatola dei pastelli intitolati al grande pittore.
Però mi sono ricordato soprattutto della storia di Kevin Carter, il fotografo premiato per la foto della bambina la cui morte per stenti era attesa da un paziente avvoltoio. Una tragica foto, tragica fino al punto di spingere al suicidio il suo autore, incapace di perdonarsi l’essere stato a sua volta avvoltoio paziente, con il suo zoom e il suo clic da premio Pulitzer.

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Rugbymagia

Un insegnante può scrivere quello che vuole nel suo “piano di lavoro annuale”. Tanto poi le cose andranno diversamente e lui si troverà a fare altro. Chi l’avrebbe mai detto che l’argomento di una mia lezione – una lezione di italianostoriageografia – sarebbe stato il rugby.

Uno sport di cui sapevo e so praticamente nulla, se si escludono i luoghi comuni sulla nobiltà e l’alto tasso di etica, inversamente proporzionale alla foga agonistica e all’apparente violenza dei gesti atletici.

Ma il 21 novembre in regione sbarcheranno gli Springboks sudafricani e un concorso mette in palio la possibilità di portare i cuccioli allo stadio a scoprire un mondo. E quello a scuola ogni giorno si fa: si scoprono mondi.

corsa

Per giorni mi sono tuffato in uno studio matto e disperato, tra i libri e la rete, tra gli articoli di Corrado Sannucci di “Repubblica”, spentosi poche ore dopo aver messo duramente all’opera la mia stampante, e i video di YouTube. Parallelamente ho preso per la prima volta sul serio la figura di Nelson Mandela, andando oltre i luoghi comuni della cultura generale e scoprendo dettagli molto affascinanti. Quel grande uomo rifà il suo letto ogni mattina, non importa se abbia dormito a Città del Capo o alla Casa Bianca. Non importa se le cameriere di Shanghai s’incazzano pure, e io che un letto d’albergo nella Parigi d’oriente l’ho rifatto so che la situazione non è delle più facilmente gestibili. Mandela che subisce angherie per anni da un manipolo di carcerieri e quando, dopo anni, può ricevere il suo avvocato interrompe il colloquio dicendogli “oh, devi scusarmi, non ti ho ancora presentato Tom, George, Stephen…”. Lasciando esterrefatti i propri aguzzini.

Gruppo

Poi finalmente arriva un giorno di quasi inverno su un campetto di calcio in un paesino di montagna. Si gioca a fare il rugby con le sue regole complesse e il suo linguaggio che in fatto di complessità non scherza. I cuccioli sono eccitati, forse un po’ nervosi, neanche si trattasse di una verifica in classe. Finalmente prende il sopravvento l’innata allegria, l’istinto al gioco. Maschi e femmine eseguono antiche danze neozelandesi (che nulla hanno a che vedere con gli Springboks, ma quando ricapita?), si tuffano verso la meta, fanno mischia, si immischiano.

Tuffo
Alla fine sporco loro la faccia di fango, un impasto di terra da fiori e acqua di rubinetto. Faccio clic, fermo sorrisi gioie e imbarazzi.jpg.

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Le lacrime di San Lorenzo e le lacrime di Sant’Anna

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La madre di Chiara Poggi parla sottovoce e soltanto al citofono. Il giornalista è aitante e non sembra dolersene, ad andare in onda saranno la sua camicia e i suoi riccioli chinati sul piccolo altoparlante sopra il campanello. La madre del ragazzo precipitato con l’elicottero a New York ha lacrime da vendere e la Tv si vede che muore dalla voglia di raccoglierle. La telecamera si avvicina fin troppo, quasi deforma, quasi tocca. Le lacrime dei superstiti di Sant’Anna sono le uniche che vorrei vedere, le uniche che avrebbe senso mostrare a tutti. Anche se è Ferragosto, questa specie di natale al caldo, solo un po’ più silenzioso. Penso al signor Enrico Pieri e al suo peso sull’anima, alla fatica di questo dodici agosto e a quella del dodici agosto che sarà domani, e via col prossimo, dopodomani.

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Il clic prima del clic (ancora su Tiananmen)

Ragazzo

E tutti a chiedersi che fine abbia fatto il ragazzo. Un anno dopo. A cinque anni da. A dieci anni da. A vent’anni da: l’altro giorno. Il ragazzo con le sporte di plastica e la schiena dritta, quello coi capelli neri nel posto dove tutti hanno i capelli neri. L’avranno catturato, l’avranno torturato, sarà fuggito negli Usa, sarà protetto, vivrà sotto mentite spoglie: la solita girandola di ipotesi. E l’ossessione per il dopo, per il “come sarà andata a finire?”.

Ma chi si chiede mai come sia andata a cominciare?

Io sono rimasto colpito questa foto che racconta il prima. Il poco prima, l’attimo prima. Bisogna aguzzare la vista, bisogna “fare caso” tra i due alberi, a sinistra della colonna. La colonna di pietra, non la colonna di carrarmati, pur presente all’orizzonte della piazza. Era già tutto scritto. Il gesto, intendo. Era pensato, ci saranno almeno 200 metri per cambiare idea e l’idea non cambierà, rimarrà la stessa, in quella che non era una farsa (era una tragedia, infatti…) e lo si legge nello sguardo di chi scappa, a piedi o in bicicletta.

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