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“Stay hungry, stay foolish”, praticamente Mauro Rostagno

Strana sensazione: un libro con tutte le carte in regola per farti piangere alla fine ti fa spesso sorridere. Il suono di una sola mano, in cui Maddalena Rostagno racconta suo padre Mauro, è un libro denso di vivaci contraddizioni. Ci sono dentro il silenzio della mafia e anche quello che lascia dietro di sè la rimozione di una storia scomoda, ma le pagine traboccano di canzoni, cantate e ballate, tutte bellissime, tutte col volume alto. Pagine che sono letteratura ma anche radiofonia, carta che viaggia su onde medie in modulazione di frequenza, libro che è anche radio, libera che più libera di così non si può.
E poi c’è la foto in copertina. Più che una foto: un miracolo. La conoscevo già e avevo pensato: quello che l’ha scattata è uno che ha capito tutto. Uno bravo. E invece: lo scatto risale ad una posa improvvisata presso una macchinetta automatica alla stazione della metropolitana. Ma non è quello il punto: i due protagonisti fanno tutto fuorché sorridere. A ridere è la foto intera, con i colori che non ha mai avuto ma che per fortuna stanno girando l’Italia, dentro e soprattutto fuori dalle librerie.
È stato bellissimo, in coda alla Feltrinelli, voltarmi e scorgere tra le mani del cliente successivo lo stesso libro tra le mani, con Maddalena e Mauro in bianco e nero e la “S” del Saggiatore. Un bel segnale.

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Elvira

Elvira

Il libro di Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, sta arrivando. Purtroppo è partito da Milano soltanto venerdì mattina, troppo tardi per raggiungermi in tempo per il fine settimana. Il corrierespresso di sabato non lavora: peccato per me, buon per lui. Comunque, oggi non avrei potuto nemmeno leggere un granché, complici le gocce infilate nei miei occhi dal mio oculista che lavora il sabato: peccato per me e pure per lui. Le gocce servono per scandagliare meglio le profondità dell’occhio, dilatano enormemente le pupille e rovinano la giornata, rendendo la luce, anche quella fioca di un giorno nuvoloso, un nemico infido e feroce.
Voglioso di libri e di storie, tuttavia, ho trovato un buon compromesso nel dispormi all’ascolto delle parole contenute in questi tre video. Più che il libro di Carla Melazzini, c’entra stavolta il suo prezioso editore, Sellerio. La sua storia coincide con la storia di una donna che conoscevo superficialmente e per luoghi comuni: sicilianità, raffinatezza, quel blu delle copertine. I tre video sono la letteratura che oggi non avrei potuto leggere, sono le emozioni che ho provato comunque, ad occhi chiusi, seduto a gambe incrociate al centro della stanza.
Ho anche scoperto che la figlia di E.S., a un anno dalla morte, ha realizzato un disco dove interpreta le canzoni preferite dalla madre. Un cd che nessuno potrà comprare, perché l’operazione volutamente non ha nulla di commerciale. Al contrario, chiunque può richiedere l’invio gratuito di una copia. Chiunque, anche uno sconosciuto che scopre la grandezza vera di quella donna in un giorno d’agosto e solo perché è momentaneamente privato degl’occhi.

Ho pure deciso come sarà il mio testamento (tié!) – oggi. Una lista di canzoni. E poi son canti vostri.

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Lettera a un killer

cenere
Gentile Makkox,

la sua matita elettronica è straordinaria. Le sue vignette sono epifanie. Fanno svoltare una giornata, le danno senso e ritmo. Raccontarle agli altri è la sfida più bella, soprattutto quando non c’è il computer a portata di mano e si sta magari passeggiando all’aria aperta. E quando le vedono senza vederle, gli altri, ridono di gusto… C’è Fini impettito di profilo, immaginati Berlu di spalle, gambette tarchiate aperte, c’è Bersani ingobbito, maniche tirate su, c’è un Padano svampito, c’è Ruby, c’è questo e c’è quell’altro.

Inizialmente a colpirmi era il tratto. Mi ero convinto che a Montepulciano avessero celebrato anche il funerale delle vignette, insieme a quello di Andrea Pazienza. Mi sbagliavo.
All’inizio è stato il tratto, dicevo. Poi ho capito che il segreto sta nella lingua. Una lingua meravigliosa. Una lingua così piena, densa, grassa, colorata, esplosiva.

Ma mi appropinquo al sodo.
Le scrivo come si scrive ad un killer.
C’è un politico padano delle mie parti, il capogruppo regionale della Lega Nord del Friuli Venezia Giulia, che oggi ha dichiarato quanto segue:

«La Prefettura di Pordenone sta cercando spazi per ospitare immigrati libici sul territorio in strutture private, ma noi non vogliamo questa gente: si costruiscano dei campi lavoro in Aspromonte, da noi i libici non devono arrivare»

Le chiedo semplicemente di uccidere quest’uomo con la satira. Come sa fare lei. Di scorticarlo come si fa coi conigli. Di scherzarlo brutalmente. Di irriderlo. Di giustiziarlo, di fare giustizia.
Sono davvero disposto a pagarLa, mi dica lei quanto. La cifra non è un problema. Faccia presto, però. Ho letto alcuni interventi pubblici della vittima e mi creda, ha già fatto molto male alla civiltà.

Grazie per tutto il lavoro sporco che ci pulisce.

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150 anni e una domanda

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Il mio paese ha 150 anni – auguri! – e mi pare che oggi, 26 febbraio 2011, stia tutto dentro una semplice domanda. Non resta nulla attorno, terra bruciata, è davvero tutto concentrato lì. Passato presente futuro. Destra e sinistra. Berlusconi e avversari di Berlusconi. Berlusconi in sé e Berlusconi in me. Una domanda che è come una somma, mettiamo ad esempio 150, centocinquanta. Un totale che una volta raggiunto non ha più senso chiedersi se derivi da un 80+70, da un 100+50, da un 1+1+1+1+1… portato alle estreme conseguenze di quei tre numerini tondi e definitivi. Basta, non serve altro. E poi ci sono le risposte. Inevitabilmente due. La domanda è una di quelle allergiche ai distingui e distinguini, ai realismi politici e ai politicamente corretti.

La scrivo in grande e la posto, con la “o”. L’ha posta, con la “a”, Adriano Sofri.

Quando il telegiornale dice:

“Il maltempo frena gli sbarchi”,

vi dispiace

o siete contenti?

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Il piccolo signore delle mosche

C’è la foto del bambino con le mosche e c’è il bellissimo articolo di Adriano Sofri che mi ha afferrato per un orecchio come si fa con uno scolaro discolo, e mi ci ha ricondotto davanti per un’appendice di pensieri. Quelli pensati davanti al colonnino del giornale online, tra le rovesciate volanti dei campioni e le tette svolazzanti delle soubrette, non erano abbastanza.
Così, è venuto in mente anche a me come a Sofri l’aneddoto di Giotto, di Cimabue e della mosca dipinta più vera del vero. E anche il disegno sulla scatola dei pastelli intitolati al grande pittore.
Però mi sono ricordato soprattutto della storia di Kevin Carter, il fotografo premiato per la foto della bambina la cui morte per stenti era attesa da un paziente avvoltoio. Una tragica foto, tragica fino al punto di spingere al suicidio il suo autore, incapace di perdonarsi l’essere stato a sua volta avvoltoio paziente, con il suo zoom e il suo clic da premio Pulitzer.

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In ricordo di Marta Lunghi, bibliotecaria

MARTA

Piccola postilla al Primo Maggio, i miei 25 lettori perdonino il ritardo. Volevo ricordarmi di Marta Lunghi, conosciuta mercoledì scorso cinque centimetri sotto la faccia accigliata di Augias, nella pagina delle lettere di “Repubblica”. Un lettore chiedeva che non venisse dimenticata. Quel lettore aveva ed ha perfettamente ragione. Marta viveva in provincia di Pavia, in un paese di mille abitanti o poco più, vicino ad un fiume che si chiama Arbogna, affluente di un altro fiume che si chiama Agogna. E chissà cosa agognava Marta, morta a 22 anni mentre stava inscatolando uova per 5 euro all’ora. Rigorosamente in nero. È rimasta impigliata in un nastro trasportatore, lei che sognava di fare l’interprete e di girare il mondo con le lingue che aveva studiato. Anche lei a modo suo un piccolo e fragile guscio d’uovo, l’unico infrantosi dentro questa storia dove il mondo è un rumorosissimo nastro che ci trasporta dove solo lui sa.

Marta Lunghi ed io avevamo anche una piccola cosa in comune. Anche lei aveva a cuore le sorti di una piccola biblioteca di provincia, quella del suo paese. Grazie a lei quel luogo rimaneva aperto, e ben due volte alla settimana. Grazie a lei era un luogo accogliente. Scopro navigando qua e là che sulle pareti della biblioteca c’erano i suoi disegni. Affreschi di bimba, freschi e colorati, firmati con un numero – Marta ’87 – che fa gridare. Millenovecentottantasette, ieri l’altro.
Il Presidente Napolitano, nel suo discorso per il Primo Maggio, si è ricordato di Marta, parlando della necessità di una “ribellione morale”.
Già. Da dove si comincia?
Oggi dagli occhi di Marta che non c’è più, che fan brillare di luce l’acqua della Pozzanghera.

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Nuove carceri

Salgono a bordo una mattina di neve. La corriera, al solito semideserta, si popola di qualche voce nuova mentre fuori i fiocchi cadono piuttosto ferocemente. Parlano del più e del meno, quelle voci, anzi, del pin e del puc di certi telefonini sgangherati ma nei secoli fedeli. Hanno sonno, tutti, e uno una disperata voglia di fumare. Al punto di approfittare dei 2 minuti di una fermata intermedia e scendere, come se il pullman fosse una cella opprimente e il marciapiede della breve fermata un’insperata ora d’aria. Questa similitudine la penso prima di scoprire che i 3 sono carcerati per davvero, e che quel loro viaggio li porterà in un piccolo paesino di montagna – semiliberi – per occuparsi di mille piccoli lavoretti che la popolazione autoctona, un po’ invecchiata e un po’ impigrita, ha smesso di fare da un pezzo. Tagliare rami pericolosi da vecchi alberi, sfalciare prati, sistemare i bordi di certe stradine. Sul loro operato vigila un uomo del paese, uno che non teme la responsabilità e li aspetta ogni mattina dove la corriera si ferma. Ciao ragazzi, andiamo. I paesani magari avranno storto un po’ il naso, sulle prime, oppure non avranno capito, ignari dell’iniziativa, perché quei ragazzoni dall’accento straniero così gentili non potessero entrare a bere un bicchiere di quello buono e tirassero sempre dritto, una volta ultimato il lavoro. Nell’Italia degli uomini che alle sbarre quotidianamente si appendono, è bello vedere un giovane prigioniero che può alitare sul vetro di una corriera e scarabocchiarci qualcosa. Salvo non fare in tempo a finire, ché la porta si è aperta e c’è un freddo cane cui andare incontro.  

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Sara e Olive

Cara Sara*,

comincia la scuola e con la scuola che comincia i miei occhi ti incontreranno di nuovo ogni mattina, sulla patina di un manifesto che piano si consuma e invecchia, sul muro vicino alla lavagna, quasi fosse un essere umano. Certo che mi sei mancata quest’estate, e come al solito periodicamente ho cercato su internet notizie di te. Devo confessarti che, purtroppo, mentre fino ad un annetto fa Google si dimostrava un ottimo strumento per focalizzare l’attenzione dei naviganti sul tuo caso sfortunato, oggi confonde la tua storia con le tante Sara che spartiscono con te quel cognome ispanico decisamente comune. Tante Sara utenti di Facebook e Myspace, Flick e Netlog. Ragazze che aderiscono a qualche gruppo in onore di Ricky Martin o linkano la nuova canzone di Leona Lewis. Continuo ad essere convinto che tu stia benissimo, che la tua vita proceda a gonfie vele e non mi lascio impressionare da quelle storiacce di bambine americane cresciute e diventate adulte nelle mani di perversi aguzzini. No, il tuo è senz’altro un destino di libertà, e per te Stoccolma non è una sindrome ma soltanto una città nordica da visitare un giorno con curiosità e interesse.

Mi sei venuta in mente poco fa mentre leggevo Olive Kitteridge, il bellissimo romanzo di Elizabeth Strouth. Un libro con la porta stretta, si fa sempre un po’ fatica ad entrare nelle sue tante storie, man mano che iniziano. I luoghi sono descritti con precisione, e pure i gesti e i movimenti impercettibili. La sensazione è quella di essere un computer non abbastanza potente per sostenere la funzionalità di software avanzatissimo. Poi, però, una volta entrati sembra di conoscere i personaggi da una vita, di averli accompagnati a spasso per gli anni mentre perdevano figli, fede, fiducia nel domani. E ognuno di loro va a finire che si imbatte in questa donnona, Olive Kitteridge, che ha il potere di salvare in qualche modo gli altri. Magari solo un po’, li salva, ma questo suo dono di natura è comunque speciale.

Ecco, mi piacerebbe che nelle pagine che mancano alla fine del libro la Sig.ra Kitteridge incontrasse anche te e mettesse ordine con le sue parole nei tuoi pensieri di fuggiasca, prendesse in mano anche i fili della tua piccola vita.

A presto…

 

* : Sara M., entra a Scuolamagia nel gennaio del 2007. La sua immagine è stampata su un manifesto bianco trovato da un alunno in un’isola dell’arcipelago delle Canarie. C’è scritto “DESAPARECIDA”, e al ragazzo in vacanza con la famiglia la parola rievocava certe lezioni del sottoscritto a proposito della dittatura militare in Argentina. La storia di Sara, scomparsa in circostanze misteriose nel luglio del 2006, colpisce e commuove. Anche se tutti sono assolutamente sicuri del fatto che Sara, un bel giorno, tornerà.  

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Paolo è stato un mio alunno dal 29 settembre 2001 (come faccio a ricordarmelo? Beh, era il primo – insperato – giorno di scuola del mio secondo anno da prof., era il giorno dell’articolo sul “Corriere” di Oriana Fallaci, quello post 11 settembre…) al 21 giugno 2004. Forse era il 22, qui i miei riferimenti sono meno precisi.

A 5 anni dal suo esserne stato licenziato dopo un contributo essenziale di simpatia e originalità, ha deciso di fare della sua vecchia scuoletta (il suo portone, la colonna, il recinto del cantiere per l’impianto a biomasse…) il set per uno dei suoi video in cui si esibisce nell’arte (?) del (della?) Jumpstyle. Non so altro di questa pratica (moda? tendenza? stile di vita? religione? filosofia?) se non quello che dicono i piccoli e armonici balzi eseguiti con maestria da Paolo. La novità dell’operazione, che spero venga subissata di click da parte del popolo di YouTube, è lo scenario. Immagino che i pionieri del Jumpstyle abbiano fondato e sperimentato la loro creatura sullo sfondo di paesaggi metropolitani, tra i cavalcavia e i sottopassaggi pedonali, tra parcheggi marciapiedi e tombini. Nel grigio, comunque. Paolo ci mette panorami di vette, alberi verdeggianti e ruscelli di montagna: decisamente più originale e, mi sbilancio, quasi rilassante.

Il primo sasso nella piccionaia di Scuolamagia, quest’anno, l’ha lanciato Paolo. Che sia l’anno del Jumpstyle?

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L’animale dormiente

Si avvicinano gli esami e per un insegnante si avvicinano anche momenti come quello descritto così bene dalla collega Gaia nel suo blog. Oggi la pozzanghera è sua.

 

Non c’è nient’altro che potrei fare, se non questo: portarli in gita e farmi fotografare con gli occhiali a righe rosa, urlargli contro parole terribili come solo a coloro che si amano, abbracciarli forte e chiamarli topini o belve, spiarli di nascosto quando prendono nove e difenderli ad ogni costo, con le gengive dei denti scoperte come fanno la cagne per difendere i cuccioli. E’ un meraviglioso modo di passare i miei giorni, stare in mezzo alle loro facce buffe e belle e scoprire ogni minuto qualche loro talento in più.

Ebbene. Domani è un grande giorno. Tutti, io e loro, aspettiamo sospesi un’interrogazione fondamentale da cui dipende cascare di qua o di là dalla collina. Sicché io quel cialtrone sciamannato portato dal vento voglio non solo pensarlo, stasera, ma scrivergli qui, anche se non mi leggerà mai: spero che alla fine oggi tu abbia pranzato e cenato, che tu abbia fatto un pausa con un tiro a pallone e soprattutto voglio che domani tu faccia quel che devi fare. Ossia distruggermi e farmi scrivere quel maledetto sei e mezzo sul registro. Buonanotte, animale. Adesso dormi.

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Trattenere il respiro, fino a scoppiare

A Recife, in Brasile, c’è una bambina di nove anni. Ha un patrigno. Il patrigno abusa sessualmente di lei da quando aveva sei anni. Abusa di lei da tre anni. Il patrigno abusa anche della sorellina della bambina, che ha 14 anni ed è invalida. Ora il patrigno è in carcere. Ora la bambina di nove anni è incinta, di due gemelli.


La bambina ha anche un suo padre, e una madre. La madre spera che abortisca, il padre no.
A Recife c’è un medico che ha preso in cura la bambina, le ha somministrato dei farmaci che hanno procurato l’aborto. Il medico e i suoi collaboratori pensano, come vuole la legge, che non si debba obbligare una donna, e tanto meno una bambina, a mettere al mondo il frutto di uno stupro.
Si sono anche spaventati del rischio che il parto gemellare avrebbe comportato per una bambina di nove anni.

 

C’è un arcivescovo, a Recife – non importa il nome: non c’è il nome della bambina, né del suo violentatore, perché citare quello dell’arcivescovo – che ha scomunicato senza appello il medico che ha aiutato la bambina ad abortire, i suoi collaboratori, e la madre che ha approvato. Non il patrigno, “perché l’aborto è peggiore del suo crimine”. Non la bambina. La bambina non ha l’età per essere scomunicata. Solo per partorire due gemelli. L’arcivescovo ha proclamato – indovinate – che la legge di Dio è al di sopra della legge umana. L’arcivescovo ha tenuto ad aggiungere che l’olocausto dell’aborto nel mondo è peggiore di quello dei sei milioni di ebrei nella Shoah. Peggiore. C’è anche, a Recife, un gruppo di avvocati cattolici che ha denunciato i medici per il procurato aborto: omicidio volontario aggravato, presumo.

 

C’è, a Roma, il Vaticano e, in Vaticano, la Pontificia Accademia per la Vita. Con una gamma di sentimenti che vanno dall’imbarazzo al dolore alla perentorietà, i suoi esponenti hanno spiegato che la scomunica comminata dall’Arcivescovo di Recife era necessaria. Un atto davvero dovuto, come prescrive il Codice di Diritto Canonico. Un sacerdote del Pontificio Consiglio per la Famiglia, a sua volta, ha soffertamente ribadito che “L’annuncio della chiesa è la difesa della vita e della famiglia”. E che i medici sono “protagonisti di una scelta di morte”.


Penso che non si debba commentare tutto ciò. Neanche una parola. Bisogna trattenere il respiro, fino a scoppiare.

 

Adriano Sofri

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Va bene così meno meno

Facile quando ti mettevo OTTIMO. Metterti 10 mi sembra quasi volgare. I 5 non li metto quasi mai, quando è 5 devi leggere “gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare”. Bartalianamente. E infatti in quei casi ti tocca quasi sempre cominciare daccapo. Oggi ti ho messo il voto che preferisco. Non è un voto vero e proprio, è un giudizio, tu lo chiameresti “commento”. Sì, uno di quelli che faccio io, quelli che sono più lunghi del compito che hai svolto, quelli in cui vado fuori tema mentre ti scrivo che sei andata/o fuori tema. Ti ho scritto che manca qualcosa, al tuo scritto, che si vede che non c’hai messo l’anima. Ti ho ricordato che ci sarebbe stato altro da aggiungere, certo, molto altro, ma che non per questo quello che hai scritto è banale, no, tutt’altro. Ho anche ricordato a me stesso che quest’anno con la penna hai dato spettacolo, hai inventato storie divertenti e toccanti, che hai sempre curato i dettagli, hai sempre girato attorno a quei prismi che sono le cose per raccontarne più facce possibile. Sono sicuro che lo farai ancora, ho scritto anche questo. E allora, venendo al dunque, il tuo voto potresti leggerlo come un “NON VA BENE, MA VA BENISSIMO COSÌ”. Non ti chiedo di essere perfetta/o, non ho motivo di pensare che il tuo rendimento stia per calare, che la scuola sia scesa nella graduatoria dei tuoi interessi. “SEI SEMPRE TU, LO SO”, potrebbe chiamarsi anche così, la valutazione che ho espresso sul tuo lavoro. Gli occhi li tenevi rivolti verso il basso, stamattina, si vedeva che avevi paura di deludermi. No, non l’hai fatto, non mi hai deluso. E non mi ha deluso il tuo foglio a righe, ché c’erano dentro le tue parole, alcune decisamente efficaci. Eh, che voto hai preso… Ti giuro che non lo so, e poi non era nemmeno una verifica vera e propria, era un esercizio di scrittura, uno dei tanti. E ti assicuro, va bene, va bene così…

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Balena d’acqua dolce

Finisce l’anno e uno ha voglia di balene. In edicola sfoglio “Internazionale” e scopro che nell’ultimo numero c’è il primo pezzo di fiction scritto da Arundhati Roy dal 1997, dal suo Dio delle piccole cose. È solo un raccontino ma il cuore batte già fortissimo, tra le righe leggo “balene di neve” e il cuore accelera ancora. Sul marciapiede davanti all’edicola sono già a pag 82, dove ha inizio il breve testo. Procedo facendo slalom tra i passanti e i bagolari. Arrivo all’ultimo punto seduto al tavolo della cucina. Un po’ deluso, le balene erano metafore.

Perché le balene, poi… A me non piace nemmeno il mare.

C’era quella meravigliosa definizione di globalizzazione, letta e mai più dimenticata. La globalizzazione è il nostro fracasso che disturba gli appuntamenti cantati delle balene. Sì, perché un maschio di megattera, se non fosse per gli schiamazzi umani, riuscirebbe a lanciare il suo richiamo d’amore alla femmina da un oceano all’altro. Da un oceano all’altro, bisogna proprio avere orecchio.

D’altra parte, si sa che le balene lasciano tracce. Si sa? In realtà a me l’ha detto una volta uno scrittore, e lui l’aveva già scritto – nero su bianco – in più di un’occasione, però era come se l’avesse scoperto da un secondo ed era come se quella scoperta l’avesse sconvolto. L’enorme cetaceo non c’è più, ha deviato, si è appena inabissato, ma su quell’acqua è rimasta impressa la sua forma, pazienza se soltanto per poco, quello è, un’impronta di balena.

Oggi la Pozzanghera compie quattro anni. Oggi nella pozzanghera c’è una balena. Nella pozzanghera ci sono quattro anni di impronte, di piccole tracce di me.  

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