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Le cose cambiano, e la scuola è gay

Chissà che conclusioni avrebbero raggiunto, gli insegnanti sguinzagliati dalla curia milanese alla scoperta di come e quanto l’immaginario gay abbia invaso le classi, le file di banchi, i corridoi, le file davanti ai distributori di merendine.

Probabilmente al termine della loro “indagine informale” avrebbero tratto un bilancio confortante, dal loro punto di vista, ché i docenti italiani tutto sono fuorché un’avanguardia. In nessun campo, figuriamoci in quello.

Le cose, tuttavia, cambiano. Indipendentemente da chi sieda in cattedra.

“Prof., nel tema posso metterci un gay? In tutte le serie americane ce n’è almeno uno…”.

Rimasi stupito, ed era il 2003. Certo che si poteva.

Poi qualche anno dopo venne un tema cupo e di difficile lettura. Ma era colpa mia, non riuscivo a capacitarmi – aprendo e richiudendo il protocollo – che la protagonista fosse trans. Messa a fuoco la cosa, tutto scorreva liscio nel racconto di un’identità complessa e tormentata. Racconto che io non avrei saputo scrivere, figuriamoci in seconda media.

Molta strada rimane da percorrere, per gli insegnanti, per gli alunni e per gli 007 delle curie curiose.

Ma intanto non posso non pensare agli esami di stato di questo giugno, con una ragazza concentrata sulla brutta del suo tema: dentro c’è il suo futuro, il suo realizzarsi nel mondo della moda, tra collezioni da disegnare, sfilate da allestire, party e jet lag. Un futuro di fama e soldi a palate, ma anche di fatica e di stress. Tanto da rendere indispensabile la presenza costante di un assistente tuttofare. Ma i lettori non si facciano strane idee, tra la stilista e l’efficientissimo Andrew (in mio onore, NdR) non c’è niente. Quello è gay fino al midollo.

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Il mondo salvato (?) dai ragazzini

Abbiamo rischiato di avere un Ministro degli Esteri trentenne.

Peccato, avrei corso volentieri il rischio.

E pure donna, il cerchio del rischio era infuocato.

Nel pomeriggio dei lunghi manganelli ho immaginato un capo delle forze dell’ordine – unificate, con un occhio alla spending – con le medesime caratteristiche: fresco di laurea, con lo smalto sulle unghie.

Anche Paolo Gentiloni dovrà occuparsi di unghie smaltate, quelle che gridano vendetta dentro i dossier dall’Iran.

Nei giorni scorsi girava per Twitter, rimbalzando da un inviato speciale canadese a un politologo statunitense, da un’osservatorio sull’Asia ad un filosofo australiano, una carta tematica sull’età media della popolazione in Africa.

Solo la Tunisia si colloca appena sopra i 30 anni, comunque 14 meno dell’Italia.

In Niger, per dire, la media è 15. In Burkina Faso 17.

Siamo davanti ad un mondo ragazzino, un affare complicato per ministri al massimo trentenni.

Manca una foto, a corredo di questa disamina geopolitica (inutile, in quanto proveniente da un vecchio di quasi quarant’anni).

Eccola, è di oggi, massimo di ieri. Ritrae un giovane burchinabè dentro il suo paese in rivolta.

Chissà se l’ha vista anche il nuovo titolare della Farnesina…

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Il tuffo di Brittany

Brittany ha un appuntamento con la morte. È fissato per sabato. No, non si tratta di un tragico destino pronto a pioverle addosso, a sua insaputa. La data l’ha scelta lei, agenda alla mano, come si fa con la revisione dell’auto o la messa in piega dal parrucchiere.

Il cancro che ha nel cappello è troppo forte e cattivo, non si tratta di un portafortuna e Brittany è lì tranquilla mentre il mondo sta girando pieno di fretta.

Si è trasferita da San Francisco fino nell’Oregon, dove morire, in un caso come il suo, si può. Per me – ceo della Ignoranti Corporation – l’Oregon significa due cose soltanto: la storia di Brittany e lo scrittore Chuck Palahniuk, che a occhio ne saprebbe trarre un travolgente racconto.

In Italia in molti hanno scritto della scelta di Brittany, in maniera preziosa alcune donne (Chiara Lalli, Daria Bignardi e oggi Emanuela Audisio…) e chissà se è soltanto un caso.

Però dubito se ne parli granchè, nei tinelli italiani in questa fine ottobre di gettoni e manganelli. Peccato, perché ci riguarda un bel po’. Metti che un giorno s’arrivi anche noi sulla soglia di quel diritto…

Scrive oggi l’inviata di “Repubblica”:

«Sarebbe bello non giudicare Brittany, non dividersi, non polemizzare. Quanti di noi alle prese con un tuffo difficile da una scogliera, dicono all’amico: guardami. Perché se tu mi vedi io avrò meno paura. E oggi ci si può far tenere la mano anche online».

Assistere al tuffo di Brittany si può. Basta andare su questo sito e spedirle una sorta di “cartolina”. E pazienza per la retorica e la guerra sporca tra le associazioni pro e quelle contro.

Sulla scogliera si sente soltanto un gran rumore di onde e di vento.

Aggiornamento: Brittany sembra abbia deciso di rimandare il suo appuntamento. Un gesto di libertà che si somma a quello di cui ho parlato nel post.

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Caro Guido Baldoni

 

Caro Guido Baldoni,

il primo giorno di settembre dell’anno 2004-2005 è iniziato nella mia piccola scuola con le parole di tuo padre. Le sue “Disposizioni per un saluto” hanno colpito moltissimo i miei alunni di 12, 13, 14 anni. Avevano tutte le caratteristiche per rimanere impresse in quella tipologia di lettore.

Prima di tutto finivano con un “Ma fate voi, cazzo mi frega”. Musica per quelle orecchie.

Poi trattavano di balli, alcoolici e sveltine.

Soprattutto, però, esplodevano di vita e di libertà.

Un funerale tutto da ridere: roba mai vista.

Le parole di Enzo, i suoi reportage, sono entrati in classe tante altre volte, da allora, e mi hanno aiutato tantissimo nella mission impossible di raccontare questo mondaccio andando oltre l’elencazione di tropici e fiumi, capitali e regimi. Mettevano al centro prima di tutto le persone e le loro storie. Erano perfetti, quindi.

Confesso così di essermi rattristato nel veder scivolare questo decimo anniversario lungo una china così poco baldoniana.

Non mi permetto nemmeno di sfiorare il dolore tuo e della tua famiglia, capitolo aperto e destinato a rimanere tale, né tantomeno di muoverti alcun rilievo (non ne ho motivo), ma ti prego di seguirmi.

C’è stato un tuo scontro con Christian Rocca, uno di quelli come ce ne sono tanti. È andato com’è andato: tu l’hai criticato, lui t’ha messo alla porta. Le vostre posizioni sono con tutta evidenza molto poco conciliabili. Rocca ti ha intimato di “smammare”, così come accade spessissimo su Twitter. Ti ha chiamato “Troll”, termine anch’esso quasi abusato in epoca di grillinismo.

Escludo che tu ritenga di godere di una posizione privilegiata in nome della tragedia che hai vissuto. Certo, la vita ti ha posto tuo malgrado in un punto di osservazione privilegiato su certe faccende, e pensi giustamente di avere molto da dire. Ma quando ci si scontra dialetticamente tu puoi dire “troll”, “incompetente”, “cialtrone” e “in malafede” esattamente come quegli epiteti ti possono piovere addosso in quanto Guido e basta, giovane italiano che si indigna e lotta con le sue idee per un mondo migliore.

Il fatto è che il tuo litigio con Rocca ha fatto venir giù un muro e le schifezze che nascondeva alle sue spalle.

Rocca è uno che ha incrociato la penna con un sacco di colleghi, li ha criticati, sfidati e sfottuti. Rocca – in questo andazzo tutto italiano che immagino facesse schifo a tuo padre – “indossa una maglia” (lanciato da Giuliano Ferrara, già giornalista al “Foglio”, da sempre irremovibile filoisraeliano, in forza al “Sole24ore”). Sicuro che chi ti ha difeso non l’abbia fatto anche per approfittare del passo falso di un nemico storico? Sicuro che tutti quelli che han cominciato a seguirti e ti hanno espresso la loro solidarietà in queste ore avessero e abbiano a cuore la memoria di tuo padre e la nobile difesa di suo figlio? Io ho dei dubbi. Mi piacerebbe crederci, ma leggendo tweet e post rimango perplesso.

Stessa cosa con Guia Soncini. Dal suo profilo Twitter molla frustate a destra e a manca, fa girare ogni giorno vagonate di coglioni, fa ribollire la bile di attori e cantanti, giornalisti e uomini politici. Il mondo dei cinguettii funziona anche così, e – forse lo ammetterai anche tu – ci piace anche per questo.

Se leggi il modo in cui è stata attaccata, ti accorgerai di come tantissimi si sono “presi la rivincita” approfittando del tuo legittimo litigare con lei di ieri. In tanti, feroci. Famosi e non. Non sono arrivati. Erano già lì, stavano aspettando.

Davvero non me ne frega niente di chi avesse ragione sul pezzo di Zakaria, dico soltanto che forse tuo padre (qui mi tremano un po’ le parole che sto digitando, pensando a chi sia il loro destinatario) vi avrebbe guardato scazzottarvi di geopolitica, avrebbe fatto il tifo per te (perché sei tu e per le idee che aveva) e alla fine vi avrebbe offerto una birra. Ti avrebbe sussurrato all’orecchio “Quel Rocca con capisce un cazzo…”, ma basta, punto… Di tutto l’odio e di tutta la rabbia dei tuoi “difensori”, a lui “cazzo gli frega?”.  

E se avesse visto un tweet come questo… 

 

Sarebbe diventato subito rocchiano di ferro, Enzo. Seduto comodo comodo dalla parte del torto. Perché nel pandemonio di ieri è successo anche quello che ha descritto bene Luca Sofri in questo breve post, con un azzeccato esempio finale.

(A proposito di cinguettii, c’hai pensato anche tu, vero, a che strepitoso utente di Twitter sarebbe stato?).

Sono sicuro che oggi, a margine di questa querelle che finirà presto nel dimenticatoio, ci sarà stato per te il tempo di “musiche allegre, violini, sax e fisarmoniche”. Scusami quindi per i minuti che ti ho rubato, e per essermi permesso di parlare di tuo padre, che ho conosciuto ahimè soltanto nelle pagine dei giornali.

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Para la memoria

La notizia ha un paio di giorni e l’hanno sentita tutti.

Succede ancora, fino al momento in cui non succederà più.

Un altro nipote riabbracciato dalla legittima nonna.

Un bambino rubato al corpo ammazzato di una giovane madre. Il figlio di una “sovversiva” riciclato impunemente dai carnefici dei genitori naturali, nella notte buia dell’Argentina.

Un incubo lungo una mezza vita, una vita da Ignacio, riscattato da un esercito di nonne coraggio che mettono il tuo passato in una centrifuga e te lo restituiscono con un’etichetta diversa, che se la leggi dice Guido, non Ignacio, Guido Carlotto, origini italiane, figlio di Laura, imprigionata, colpevole di aver partecipato alla vita politica del proprio paese, uccisa a 23 anni poco dopo il parto. Desaparecida no, le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia. Quel bimbo sì, scomparso, come molti altri.

E la notizia, quel piccolo capolavoro di giustizia, l’han sentita già tutti.

Non hanno sentito tutti – invece, forse – la canzone “Para la memoria”, che Ignacio/Guido, musicista cantautore, ha scritto, interpretato (fisarmonica e voce) e dedicato a questa storia. Proprio lui, il bimbo rubato, quell’esistenza uscita come un maglione rovesciato dalla lavatrice della Storia.

Si sa che i cantautori spesso raccontano di sé nelle canzoni. A differenza dei semplici interpreti, capita che si emozionino in maniera particolare, rivivendo spesso all’infinito, nel corso della carriera, i sentimenti fissati nei versi e nelle note.

Ecco, se tale luogo comune corrisponde al vero, da quale tornado sarà percorsa la pelle di Guido Carlotto mentre esegue “Para la memoria”?

 

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Tre anni chiusi in una mano

 

A metà pomeriggio (R) scrive uno status (Solo adesso mi sono accorta che il tempo è passato troppo velocemente! Vorrei tornare indietro! È stato bellissimo…) e tagga amici come li tirasse per la maglia. OOOOOHHHHHH.

È il giorno dopo.

L’esame è finito.

Ventiquattro ore e l’effetto è quello di un portone che si è chiuso alle tue spalle.

Ha fatto SBAM, sbam forte, e tu non hai potuto far niente per fermarlo. Non sei rimasta chiusa dentro, sei rimasta chiusa fuori.

È il giorno dopo e io quella sensazione, provandola ogni anno, la conosco bene. Per (R) probabilmente è la prima volta.

In quel luogo hai riso, ti sei scompisciata, hai pianto, hai sognato, hai aiutato e sei stata aiutata. Hai pronunciato nomi, certi li hai accorciati, altri li hai storpiati, alcuni li hai perfino inventati.

Hai letto hai scritto hai studiato: spesso le cose che hai imparato, però, non erano né dentro al leggere, né dentro allo scrivere, né tantomeno dentro lo studiare.

Hai mangiato e hai bevuto. Hai festeggiato e hai litigato. Hai mandato a fareinculo – sì, anche me – ma più spesso hai fatto la pace. Hai cantato, in quel luogo. Hai ballato. Hai bestemmiato, e a volte serviva pure quello.

Hai abbracciato, ti sei appoggiata sulle spalle degli altri, ti sei fatta portare in groppa. Hai disegnato sul banco e ti hanno disegnato e scritto sulle mani. Hanno inventato i selfie e tu ti sei fatta dei gran selfie.

Ti sei seduta sul banco finché ha cominciato quasi ad andarti stretto. Hai guardato gli altri attorno a te, mentre facevano pressappoco quel che facevi tu, e hai pensato che stessero cambiando, crescendo, “diventando grandi”. Hai pensato che magari stava capitando anche a te, anche se era più difficile da capire.

Oggi sei lì, e nelle orecchie sembra ci sia solo il suono di quel portone sbattuto.

Un rumore fortissimo con un’eco assurda.

Strano, perché in realtà quell’ingresso è minuscolo. L’ingresso minuscolo di una scuola minuscola. Minuscola quanto? Facciamo come la sorpresa di un ovetto Kinder. Ma dentro c’è tutto e da lì non lo sposta nessuno: le risate, i nomi, gli abbracci, le parolacce, le cose scritte sulla lavagna, i panini col salame e le scritte sul banco.

Le tue Medie son tutte lì dentro, e stan nel palmo della mano. La tua.

Stringila forte e vai, perché adesso è ora di andare.   

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Se di alpina c’è solo la stella

Siamo d’accordo che ci sono tutta una serie di cause storiche.

Siamo d’accordo che ci sono a latere pure una serie infinita di azioni nobili e meritorie.

Siamo d’accordo che essere eccessivamente polemici nel giorno in cui un gruppo di persone, grande o piccolo, si riunisce per festeggiare se stesso senza recare danno a chicchessia è oltremodo sgarbato.

Siamo d’accordo che le cose capaci di unire in questo paese son talmente poche che forse è meglio tenercele strette.

Tutto ciò premesso, più li guardo sfilare e più penso che quelli sono soprattutto centinaia e centinaia e centinaia e centinaia di maschi.

 

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MicroMega contro la libertà indecente

MicroMega. Quand’ero all’università quella testata incuteva in me una sorta di venerazione. Era la rivista che si occupava di filosofia ancor prima che di politica, e io ero un iscritto a lettere che amava sconfinare dal classico piano di studi infarcendolo il più possibile di esami filosofici.

Era una rivista, ma quando la sfogliavi (e la leggevi) affiorava la consapevolezza di trovarsi dinnanzi ad un vero e proprio libro. La carta ruvida e gli ampi spazi bianchi a margine degli articoli invitavano ad apporre note e commenti a matita. Una goduria.

Poi è venuta la stagione dei numeri settimanali, ai tempi delle guerre di inizio secolo e di tante schifezze berlusconiane. Anche quelli, seppur più agili e decisamente più economici, li classificavo tra le mie carte come fossero tomi.

È trascorsa una manciata d’anni, la rivista ha conservato la sua mission, ma si è dotata di strumenti utili ad affrontare i tempi che cambiano: siti, blog, account e profili d’ordinanza.

L’odierna battaglia online, però, invita nientepopodimeno che a firmare una petizione per la revoca dei servizi sociali al condannato Berlusconi.

Quella rivista lì – le menti che un tempo ho creduto le migliori della generazione precedente alla mia – chiede quindi con forza la contenzione di un vecchio (per carità, il meno raccomandabile vecchio in circolazione). So benissimo che gli arresti domiciliari in una villa che fa provincia non somigliano minimamente alla reclusione in gattabuia del povero spacciatore magrebino, ma chi si diletta di idee non può non sapere che, se “ci sono cittadini meno uguali di altri davanti alla legge”, la libertà è il medesimo valore per chiunque e sempre. Quando un corpo è detenuto è detenuto e basta, i metri quadrati filosoficamente non contano.

Togliere la libertà, di movimento e di espressione, ad un vecchio evasore fiscale. Questo è ciò che insegna e persegue la più blasonata rivista di pensiero del mio paese. Dimenticando ancora una volta come l’Italia necessiti di un cospicuo supplemento di Giustizia, non di manette. Evidentemente i MicroMegalomani se ne fregano del fatto che il nostro pregiudicato non sia visto come tale dalla stragrande maggioranza della nazione, e che in quel dato sia marchiata la sconfitta del sistema educativo, di ogni istituzione pubblica, di ogni famiglia italiana. Berlusconi ha ahinoi commesso in 3D quello che più di metà italiani commette o commetterebbe ogni giorno nel suo piccolo.

Che ‘sto putrido garbuglio etico e culturale si possa sbrogliare con la contenzione fisica di un vecchio, sia pure il peggior vecchio, invocata a suon di firme digitali, la dice lunghissima su come stiamo  messi.

A corredo dell’iniziativa molto poco filosofica (e molto poco di sinistra) della rivista filosofica per eccellenza campeggia una vignetta con la faccia del pregiudicato S. B. copiaincollata ad arte a fianco di un maiale. Un genere che va fortissimo, specie nei post di un famoso blog appena appena un po’ meno avvezzo alle questioni gnoseologiche, epistemologiche, teoretiche. Ma solo un po’, belìn. 

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To Be Continued 2014: anche noi listening point

TBC...2014flyer

Siamo il paese del #jobsact e della #spendingreview e domani la mia scuola, alias Scuolamagia, diventerà un #listeningpoint.

Dalle 8.00 alle 16.30 chiunque passerà per l’aula polifunzionale (no, non la chiamiamo così, siamo soliti dire “giù dai computer”, anche se ho sognato che quel luogo rimanesse impresso nelle menti come “AULA MAFALDA”, dopo aver commissionato ad alcuni alunni la realizzazione di una bimba argentina da appiccicare al legno della porta…) potrà cogliere nell’aria note provenienti da un sacco di altrove. Domani, infatti, si rinnova il piccolo grande miracolo di To Be Continued, 48 concerti incatenati l’uno all’altro, piccoli anelli di mezzora che andranno ad unire la mezzanotte del 23 marzo con quella del 24. Non ci sarà un ascolto “forzato” e in teoria nessuna lezione del lunedì si svolge solitamente in quegli spazi. Tuttavia, capita che ognuno ci passi più di una volta, per recuperare la riga da 60 cm o un barattolo di tempera blu, per stampare una cartina del Congo o per cercare il tappo di un evidenziatore volato giù dal piano superiore. Sarebbe bello che studenti e insegnanti si chiedessero anche solo se i suoni a quell’ora scendono da Mosca o risalgono dalla Nuova Zelanda, se piovono dall’Irlanda o riaffiorano dai cantoni svizzeri, oppure se lo strumento che sta sfornando note è un sitar, una balalaika o un asciugacapelli impiegato in modo strambo.

A fianco del computer ci sarà una stampa della locandina dell’iniziativa, un disegno strepitoso di Cosimo Miorelli. Ci fosse un prezzo del biglietto – ma ovviamente non c’è – la locandina da sola lo varrebbe.

Un punto di domanda: la primavera è cominciata da 3 giorni, i miei alunni vengono da una settimana in cui hanno giocato a calcio durante l’intervallo in canottiera e pantaloni corti e il meteo nella notte prevede nevicate oltre i 500 metri. Con le nuvole gonfie di neve, la banda già non molto larga di Scuolamagia si fa strettissima, un vero collo di bottiglia. Mannaggia.

(Eventualmente ci si stringerà tutti attorno al mio cell., ma non sarà la stessa cosa…)

 

Per ascoltare To Be Continued, nella giornata di lunedì 24:

CLICCA QUI

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Il neo di Michela Murgia sul volto della Sardegna

«Il volto della Sardegna l’abbiamo già cambiato».

Lo scriveva su Twitter Michela Murgia, il 15 febbraio 2014, a poche ore dalle elezioni regionali.

Sarebbe bello oggi dicesse che non era vero, che quella frase era frutto di un calcolo, la mossa scontata di chi sa di non aver fatto breccia nel cuore degli elettori – ultimi sondaggi alla mano – ma prova comunque a soffiare sulle tiepide braci di un sogno già svanito.

Non era vero, il volto della Sardegna nella migliore delle ipotesi si darà una sciacquata con l’acqua di mare e una grossolana soffiata di naso, si toglierà un po’ di quelle cacchette dagli occhi, come al risveglio da un sonno pesante, ma sarà più o meno lo stesso.

Il 10% (salvo sorprese ormai poco probabili, scrivo alle 15.00) è troppo poco, soprattutto se calcolato su un elettorato già fortemente mutilato dall’astensionismo e in presenza di una potenziale fettona di popolazione di area grillina orfana di candidature pentastellate.

La candidatura della scrittrice di per sé era legittima e benvenuta, il rischio di far vincere la destra nell’ansia di smarcarsi a sinistra faceva parte del gioco democratico, a patto di assumersene pienamente la responsabilità politica e di riuscire ad enunciare senza remore davanti al mondo l’equivalenza (cara a Grillo) di Pd e Forza Italia.

L’importante è non pronunciare la bestemmia del volto cambiato all’isola, soltanto perché una minoranza ha rimirato compiaciuta se stessa dentro un piccolo, piccolissimo specchio. Sopravvive nel paese un estremismo di retroguardia, irrimediabilmente senza popolo, che non smette di piacersi e di guardare la realtà dall’alto di torri d’avorio finissimo.

Il volto del popolo, intanto, si nasconde altrove, refrattario al cambiamento. Più della giovane scrittrice, impressionano i tanti continentali – politici, giornalisti, intellettuali – saliti sul carro sgangherato della Murgia soltanto per averci visto il sassolino che può inceppare gli ingranaggi del nemico, salvo infischiarsene delle battaglie per l’indipendentismo e delle altre paturnie identitarie dei Sardi. I loro preziosi endorsement scenderanno presto a posarsi su qualche nuovo cavaliere senza macchia, pronto a cambiare il volto di un’altra città, di un’altra regione, di un’altra isola. Con un piccolo neo, ma volete mettere il fascino di un neo?

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Enrico e Matteo come Tina e Dominique

 

Voglio dimenticarmi per qualche istante di essere quel fine politologo che sono. Voglio mettere tra parentesi il mio lucido sguardo sulla situazione economica, le mie idee sul futuro del paese, financo il mio bagaglio pesantissimo di studi sulle dottrine politiche e sulle forme di governo.

Voglio ragionare con il candore di un bambino.

Voglio alzare il ditino e suggerire a Renzi & Letta, a Letta & Renzi, di trarre ispirazione da un fatto accaduto oggi alle Olimpiadi di Sochi.

E se la risolvessero così anche loro?

Facile, no?

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Risolvere la questione Kyenge, così

When in trouble, go big. Lo dicono gli Americani. Io l’ho imparato dal giornalista Francesco Costa, ed è pure il sottottitolo del suo blog.

Sei nei pasticci, non ti difendere: attacca. Come un tennista che va a rete, come un ciclista che prova il tutto per tutto su una salita. Prenditi dei rischi, ma spariglia, osa, fai una mossa che smuova davvero le cose.

In trouble lo siamo oltre ogni più ragionevole dubbio. Ci sono italiani razzisti che dettano la tabella di marcia ad altri italiani razzisti affinché vadano a scagliarsi, lungo tutto lo stivale, contro il primo e unico Ministro della Repubblica colpevole di essere di colore, con l’aggravante di essere donna. Alla luce dell’attuale situazione politica, una Ministra tra l’altro talmente lontana dal poter attuare qualsivoglia proposito riformatore da mettere ancor più in luce i rigurgiti della Lega, comprensibili solo e soltanto scomodando la categoria del razzismo.

Se non è trouble questo…

Quindi che fare?

Una cosa ci sarebbe. Strana, sorprendente, e si presta a tutta una serie di obiezioni che mi sono già rivolto da solo. Però è BIG. Proprio quello che servirebbe ora che siamo in trouble.

Napolitano domani si alza, si siede allo scrittoio e nomina Cécile Kyenge Senatrice a Vita.

La motivazione? Le vogliamo bene e ce la vogliamo tenere stretta, punto. Vogliono farla dimettere lanciandole le banane? E noi la promuoviamo e le chiediamo di servirci, con lauto stipendio e onori annessi, per un numero più lungo possibile di anni.

Le forze politiche di tutto l’arco costituzionale plaudono con forza (tutte, anche quella di Peppe, ché glielo chiede la rete…).

La Lega muore.

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Sindaci in metropolitana

Faceva freddo, ieri a New York. No, nessun superviaggio natalizio: la Pozzanghera non si è mossa dal suo solito asfalto. Faceva freddo attorno al cappotto del nuovo sindaco e nel vapore che usciva dalla sua bocca, in streaming sul sito del “New York Times”. Erano calde le parole di quel gigante buono, quelle sì, ed erano semplici e dirette come solo in quella parte di mondo. Un discorso perfetto, la megalopoli come il divano di una grande famiglia e quelle “etichette” pronunciate quasi alla rinfusa, senza gerarchie di sorta e quindi a un passo dall’essere abolite dal linguaggio: asiatici, gay, ricchi, vecchi, neri, giovani, poveri, americani… Viene quasi da invidiarla, la bella ingenuità americana, badando bene di non abboccare del tutto alle sue comode esche. Come ricorda Sofri nel suo librino dedicato all’autore del Principe, negli Usa vanno forti letture come Machiavelli & Modern Business, Machiavelli on Managerial Leadership, The New Machiavelli: The Art of Politics in Business. Lo prendono sul serio, il nostro Segretario, e non lo confinano nei ricordi della quarta liceo.

Tutta quell’enfasi democratica, tutto quel “crederci”, non possono che impressionare soprattutto noi italiani, che guardiamo le nostre istituzioni sempre con sospetto e distacco, quando non gli facciamo il verso in camicia di flanella e un fantoccio (di noi stessi) al fianco.

E poi ci sono i giornali, i nostri.

Sussultano: evviva il sindaco che va a giurare in metropolitana! Da noi non s’è mai visto! Seguono autorevoli commenti, dalla cattedra o dall’amaca.

Peccato che il sindaco uscente – data per scontata l’abilità statunitense nella rappresentazione fotografica (e spesso demagogica) del potere – usufruisse altrettanto – e da milionario – di quel mezzo pubblico. Anzi, sulla metro buttava già l’occhio su qualche scartoffia, prima di arrivare in ufficio.

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Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

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Piccola posta, Res cogitans

Verremo perdonati te lo dico io da un bacio sulla bocca

Cara baciatrice di celerini,

in 1503 ti avranno già ricordato il Pasolini di Valle Giulia, che non ho motivo di pensare tu non conoscessi già, anche prima di stampare il tuo bacio sulla visiera di quel giovane poliziotto.

Saprai quindi come quel tuo gesto – anche in nome di uno straordinario precedente letterario – non possa in alcun modo venir ascritto a nessuna categoria o espressione di quel variegato mondo che è la sinistra. È troppo evidente in quella vicenda come l’anello debole, quello verso cui far scattare la solidarietà naturale non possa essere tu. Dovendosi accomodare “dalla parte del torto”, tanto per scomodare un altro Grande, qualunque progressista sceglierebbe la compagnia di quel ragazzo del sud finito dentro una divisa così come si imbocca una strada forzata. Tuttavia, lungi da me darti della “figlia di papà”: essere più fortunati, “nascere qui anziché lì” non è certo una colpa.

Quello che volevo segnalarti, coraggiosa dispensatrice di baci, è invece il punto dove davvero sbagli, dove il tuo discorso – pescato nelle interviste che hai concesso – non si regge in piedi. Cadi a mio avviso su quel solito epiteto: “pecorella”. Lui, il celerino, ha secondo la tua opinione scelto di sottomettersi, di vivere rasoterra, manovrato dall’alto. E il suo, su questo hai ragione, non è certo un lavoro per creativi e spiriti critici. Ma tu, credi davvero di essere così libera? Io non ne sono così convinto. Credi di scrivere il tuo copione, ma in realtà sei scritta. Rispondi a un cliché, interpreti un personaggio già mille volte sulla scena. Chiunque abbia qualche familiarità con le pagine di un quotidiano potrebbe indovinare come la pensi su un sacco di faccende di questo mondo. Io credo di potercela fare, e te lo dico consapevole di essere pure su molti temi perfettamente d’accordo con te. Perché, visto e considerato che di te conosco solo un piccolo insignificante gesto? So cosa pensi di Obama. So perfettamente cosa potresti rispondere (parolacce comprese) a uno che ti chiede se stai con Cuperlo, Renzi o Civati. Conosco le tue idee sulla crisi e sull’Europa. Ti posso elencare i libri che hai letto. Perché? Il celerino che hai baciato potrebbe avere sul comodino un titolo che mi sorprenderebbe. Tu no, penso. Eppure sei una lettrice vorace. Chi è più pecorella? Tu, che sei convinta che lui i libri non li legga e io lo so.

Sai come avrebbe dovuto finire questa storia?

Con un gesto spiazzante, molto più del tuo.

Quell’uomo in divisa avrebbe dovuto sollevarla, la visiera. Avrebbe dovuto slacciare quello scomodissimo caschetto. Avrebbe dovuto stringerti forte a sé e ricambiare quel tuo gesto un po’ esibizionista con un vero bacio appassionato, con la lingua, forte ma non per questo privo di dolcezza. Un bacio che finisse lì, chiaro, e che facesse ridere tutti i presenti. Anche i militari di grado superiore, soltanto con un po’ più di contegno, sotto i baffi.

Avresti gridato alla violenza, avresti detto “lasciami”. Vedi come sei prevedibile?

Però alla fine avresti capito anche tu e lui, se avessi aspettato che smontasse da quello stressantissimo turno di lavoro, ti avrebbe offerto un caffè.

 

Saluti e baci. Anzi no, soltanto saluti, ché ti ho già abbastanza presa per il culo.

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