Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due vite in una

 

Ho notato uno strano pudore nei ricordi commossi del calciatore Stefano Borgonovo. È stato giustamente messo in luce il suo coraggio, è stata con forza raccontata l’impari sfida alla malattia che ne ha fatto un eroe. Si è detto dell’infinita dignità e della generosità.

Il pudore che non comprendo riguarda il prima. Perché non ricordare anche l’atleta nel pieno della forma, perché non mostrare in Tv gli stacchi imperiosi, le rovesciate acrobatiche, gli slalom tra i difensori avversari… Come se la seconda vita di Borgonovo avesse in qualche modo oscurato e vanificato la prima, come se tra quelle due esistenze ci fosse un’incompatibilità di fatto. Essere stato l’emblema della vigoria fisica a mio avviso non ostacola e anzi sublima la successiva struggente testimonianza di quell’uomo che della vita ha bevuto davvero tutto il succo.

Ci pensavo, ieri sera, e mi è venuto in mente un pomeriggio allo stadio. La squadra di casa, a rischio retrocessione, offriva biglietti a prezzi stracciati per richiamare in curva sostenitori depressi. Una delle tre partite a cui ho assistito dal vivo, tutte da adolescente o poco più. Udinese-Cremonese 3-3. Con doppietta di un elegantissimo, regale, felpato Stefano Borgonovo. 

 

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Un poeta

 

Quando ho sentito nominare Andrea Pazienza per la prima volta, lui era già morto da qualche anno. Non è passato moltissimo tempo, ma abbastanza sì perché ancora non ci fosse internet, e nella mia cittadina non c’erano e non ci sono mai state le fumetterie, e di libri patinati all’epoca manco parlarne. Per dire che tutto è cominciato con un giornalino consumato, saranno state 15 pagine, sfogliato sotto il banco nell’ora di latino. Non era nemmeno proprietà di quell’amico vicino di banco: infatti, non poté neppure prestarmelo. Solo 5 minuti per innamorarmi senza capire, anche se, ma questa convinzione è venuta dopo, non c’era proprio niente da capire.

Non me n’è mai fregato del ’77 bolognese e di quegli anni. Massimo rispetto, ma io “non c’ero”. Io sono arrivato dopo e il mio dovere è soltanto quello di studiarlo, quel tempo saltato in padella. Mi hanno sempre infastidito le interpretazioni sociologiche attorno al mio mito coi pennarelli. Tutti pronti a fargli indossare una maglietta, a farlo entrare in un movimento, in una generazione, in una consorteria storica già ricca di gesta, personaggi e interpreti. C’ero io quella volta e con me c’era anche Andrea Pazienza. Ecco, così non vale. Perché quell’uomo non apparteneva a nessuno. Mentre a lui – è molto diverso – apparteneva tutto. E quindi anche i cortei, le battaglie, le radio libere. Ma esattamente come l’orma di un cane, il ramo spezzato di un albero, tua cugina che certe sere si fa prendere da una feroce nostalgia.

Sostiene Moreno, a cui Andrea mise le stelle sulla faccia, che è prima di tutto di un poeta che stiamo parlando. “Scrivere di Andrea Pazienza e la poesia, significa guardare con diffidenza a quell’e di mezzo”.

Un suo bellissimo ricordo di Paz continua così, e mi permetto di citarlo in questa domenica lontana 25 anni da un altro giorno di giugno.

 

«Alcuni anni fa, mia figlia Cora nel tema “Cosa vorresti da Babbo Natale?”, chiese che gli insetti potessero vivere anche d’inverno. Andrea avrebbe condiviso; non aveva bisogno di “capire” i bambini. Come loro lui viveva fuori da sé. Sapeva benissimo che extra-Io c’è un paese bellissimo. Andando a zonzo per le campagne era là, dove si posava lo sguardo. I bambini e gli animali fanno così.

Andrea Pazienza è stato tutta la sua vita e anche quella di chi incrociava.

Ne incrociò parecchi. Una volta capitò a un istrice che agonizzava in un fosso con zampe anteriori maciullate da una macchina. Andrea fu anche quell’istrice, quella macchina e la frenata.

È dispendioso essere tutto ciò che si incontra ma dentro di sé, lui, doveva ben sentire che, alla fine dei propri giorni, ognuno reca con sé solo ciò che ha donato» 

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Franca Rame, il (non) ricordo di Marco Travaglio

Gipi il fumettista segnala un articolo apparso oggi. Muovo dal suo efficace sarcasmo, ma sento di dover andare oltre. Non riesco a limitarmi allo scherno e allo schifo, in quella pece ci vedo inzuppati l’Italia e questo tempo malconcio.

Mi spiego. Di Marco Travaglio penso da una vita tutto il male possibile. Ma a volte mi quieto pensando: che diritto ho di criticare, quello apre i faldoni, spulcia le carte, e io certe sere mi addormento leggendo a malapena i titoli e guardando le figure.

Questa volta, però, è diverso. Sul tappeto non ci sono processi e sentenze, giudici e condannati, questa volta si tratta di ricordare Franca Rame dopo averla conosciuta e frequentata. E Travaglio comincia dall’inizio, dal primo incontro – ovviamente subito una baruffa di ore, lei a fare lei, lui a fare lui – con l’attrice a confessare, alla fine, guarda un po’, di aver probabilmente torto.

La frequentazione prosegue, ed ecco la Franca complimentarsi, guarda un po’, per il botto editoriale di un libro di Marco, eccola chiedere a Marco di dipanare un suo dubbio esistenziale, con la vita a squarciarsi davanti ad un bivio. E avanti: la volta che quella grande donna aveva telefonato per fare un in bocca al lupo al nuovo quotidiano fondato, guarda un po’, dal giornalista, offrendo umilmente la sua collaborazione. E quante altre telefonate, sempre lei a lui (“Marcooooooo…”), mai lui a lei, sarà stato forse geloso il grande Dario, di quel giurnalist ch’al vegnìa dal Piemunt, figliocc dal Muntanell, con la maneta tacada sbrendolante tintinante dal tacuino.

Insomma, il giorno in cui è morta Franca Rame, Travaglio scrive un articolo su Marco Travaglio. Dell’attrice si dice che sì, era davvero bella e pure un po’ matta. E stop.

È questo non saper farsi piccoli e scomparire alla bisogna, il grande male. Ci siamo dentro tutti, chi più e chi meno. Siamo incapaci di amare gli altri per quello che sono, senza ridurli a specchi per i nostri io.

Alla radio stamattina un ascoltatore ricordava invece un minuscolo evento teatrale, estemporaneo, tanti ma nemmeno troppi anni fa. C’era anche la Franca, rigorosamente gratis, come si fa con le buone cause. Recitava e si spendeva per quell’opera da nessun soldo. Chi era il suo prossimo? Donne stuprate? Popoli sopraffatti? Lavoratori sfruttati? No, pochi bambini provenienti da famiglie un po’ meno fortunate. Avevano osato privarli della gita scolastica. E Franca non c’aveva visto più.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Andrea Satta e la sindrome dell’altricentrismo

Ho avuto il privilegio di conoscere Andrea Satta, e di accompagnarlo a zonzo per il Friuli con il suo prezioso libro di favole. C’è in lui qualcosa che mi ha sorpreso, che mi ha disorientato, che mi ha alla fine entusiasmato. Ed è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la sua voce, con la sua penna, con il suo lavoro di pediatra di base. È qualcosa di nascosto, in realtà senza esserlo affatto. Si trattava soltanto di unire i puntini, guardare le cose sotto un’altra luce, cambiare il punto di vista. Andrea Satta ha parlato – in meno di 48 ore di permanenza friulana – per tantissimo tempo. Nulla di strano, ci aveva raggiunti per quello. Che fosse un grande affabulatore, inoltre, non mi ha di certo sorpreso. La sorpresa è venuta da un’evidenza raggiunta soltanto ora: Andrea è un uomo senza IO.

Quel pronome non esiste, nelle frasi che pronuncia. Al centro di tutto ciò che dice ci sono sempre gli altri, tantissimi ALTRI, tutti gli altri del mondo. Raccolto in stazione appena sceso dal treno, tempo un minuto e mi stava parlando di Alfredo Martini, grande vecchio del ciclismo italiano. Percorse due rotonde e la sua voce aveva già abbracciato la storia della sua cara amica Margherita Hack. Ma qui potreste pensare che la testa di legno ami vantarsi per le importanti frequentazioni e conoscenze. Macché, c’è davvero posto per tutti e le sue chiacchiere sono invase di persone semplici, quasi sempre distinguibili per una caratteristica originale, per un talento raro, oppure per un tratto di sofferenza indossato con dignità. Il camionista che trasporta mozzarelle, l’insegnante precaria in attesa che il telefono squilli con l’annuncio di una supplenza. E poi l’esercito delle mamme che lo attendono in ambulatorio: le Cerasela dalla Romania, le Kadidja dal Marocco. E poi altri ancora: Concita la giornalista, Sergio la matita che disegna col cuore e senza gli occhi, i musicisti della sua band, i mille compagni di pedalate, il bambino di Tolmezzo che ha raccolto e stringe nel pugnetto un fiore giallo per la mamma e una margherita per la sorella, mezzora dopo averlo incontrato nella sua scuola. Scarto il cd che mi ha regalato Andrea, che riterrei la naturale dimora per l’io di un musicista, e… niente da fare nemmeno lì: trovo invece righe che mi ricordano quanto sia importante abbracciare sempre Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi.

Non riesco a coniare un termine che definisca questa condizione che mi appare come il contrario esatto dell’egocentrismo. “Altricentrismo”? “Egoperiferismo”?

Boh, ci rinuncio. Però mi è sembrata, quella condizione, la panacea di tutti i mali del mondo.

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Avresti mai pensato di intitolare O TEMPORA, O MORES?

I parlamentari eletti sono “casi psichiatrici”.

Le parlamentari, ma forse anche i colleghi maschi, sono “troie”.

Per Marco Travaglio chi non capisce certe cose evidenti che capisce lui è un “cerebroleso”. Pazienza che il termine faccia riferimento a tutt’altra forma di disabilità, pazienza soprattutto che sia la dolorosa caratteristica di persone che vorrebbero leggere Travaglio senza sentirsi insultate.

Un ottantenne sembra ovvio debba addormentarsi mentre ascolta i discorsi fluenti di un quarantenne.

Il femminicidio diventa l’idea geniale per uno spot.

Chiunque abbia 5 righe di spazio su un giornale o sul web ne usa almeno 3 per ricordare a tutti, e sempre, che Brunetta è prima di tutto un nano.

Un sindacato di polizia contesta una sentenza oltraggiando la madre di una vittima.

Che la diga presentasse svariate crepe ce n’eravamo accorti.

È altrettanto evidente che questi che arrivano a valle non sono soltanto quattro schizzi. Non sono avvisaglie.

Viene giù tutto.

La civiltà, dico.

Dove si scappa? 

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

To Be Continued

Anche se non c’è un doodle a ricordarcelo, il 24 marzo cade la giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi. Sarei disonesto se vi dicessi che intendo sensibilizzarvi in tal senso. Ne so poco o nulla e, anzi, necessito di urgenti interventi di sensibilizzazione.

Da qualche anno, però, io il 24 marzo spero che piova e che sia domenica. Per 24 ore filate, quel giorno, quelli della Stazione di Topolò radunano il villaggio globale e offrono in streaming audio un ricchissimo menù di musiche, un variegatissimo banchetto con suoni da tutto il mondo. Per dire, mi sono connesso e la musica che mi ha accolto proveniva dalla Nuova Zelanda: un vero concerto con tastiere, altri ammennicoli tecnologici e – soprattutto – il suono che fa la festa di compleanno di una bambina di 5 anni.

Sono uscito cinque minuti per comprare i giornali e ora mi accoglie un bel tappeto sonoro tessuto a Città del Capo, Sudafrica. Un sottofondo di pioggia e il canto di quelli che direi sono pennuti di quelle parti. Alle 9.30 farò un salto in Giappone, dove immagino (adesso: 9.21) si staranno preparando. La Cina me la sono persa, peccato, avrei dovuto svegliarmi alle 4.00. Alle 12.00, per dire, gioca l’Italia con la pianista Alessandra Celletti.

Morale della favola, la mia, in soldoni. Da giorni ci sorbiamo le omelie di quelli che hanno capito il Web, che sanno usare la rete, che con i computer fanno la democrazia come ad Atene. Quelli che erano così connessi che manco si conoscevano. Quella rivoluzione lì, se esiste davvero, se ne sta racchiusa dentro queste 24 ore di arte e creatività dolcemente invadenti, meravigliosamente gratuite.

Mi fermo qui: prima vi connettete meglio è. Buon ascolto!

Cliccate su…

 

ToBe Continued

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Il concerto del passato che parla del futuro

Todo cambia. La realtà sorprende e spiazza. Succedono cose prima d’ora impensabili. Conforta pensare a qualcosa che stia fermo, rimanga lì, perché quando è nato sembrava perfetto così e così perfetto sembra anche oggi. L’ho pensato davanti alle parole di certi pezzi che ha cantato Claudio Lolli, patrono di questo blog, nel suo concerto di venerdì, a Cervignano. Una serata fuori dal tempo, lontana dal presente, uno spettacolo clamorosamente privo di novità, anzi: compiaciuto per il fatto di somigliare più di sempre alla sua vecchia storica versione. Edito e superedito, senza alcun progetto da vendere, senza alcunché da perseguire sulle strade di iTunes. E tutto ciò, tutto questo miracolo, soltanto grazie ad un libro. Quello ingiallito, con la copertina strappata. Quello che il cantautore stringeva tra le mani, lo scrigno di testi da tempo forse dimenticati, o più probabilmente così rispettati da temere qualsiasi scivolone mnemonico.

Da lì si riparte sempre, dalle parole, dalla poesia.

Uscendo da un concerto di 30 anni fa, il primo marzo 2013, mi è fin troppo chiaro che bisogna sempre andare avanti e che “indietro non si torna neanche per prendere la rincorsa”. Canticchiando arie di sax vien da immaginare un futuro di luce: zingari felici che si rincorrono, compagne che volano sulle pozzanghere e che so… un Papa nero, no… meglio… un Papa donna.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

La prospettiva di Ivan

Che bisogna guardare il mondo da prospettive sempre nuove, da ottiche diverse, me l’ha insegnato, tra gli altri, Ivan Scalfarotto.

Anche scrivendo parole come queste.

Quindi, mentre dalle stelle – tutte e cinque – piovono cattivi auspici che si espandono – a macchia di giaguaro – sul futuro del paese, cambio prospettiva e gioisco per un nuovo onorevole come ce ne vorrebbero mille.

[eco fuoricampo: vaffanculoooooooo!!!]

Cinquecento, vabbè.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le domande di Alex

Giornalisti, blogger e personalità varie si sono dati da fare, nei giorni scorsi, per far arrivare agli italiani le loro più o meno motivate dichiarazioni di voto.

Io prima delle elezioni, di tutte le elezioni, rispolvero un vecchio file ripescato nel computer di Alex Langer dopo la sua tragica fine. Datato 4 marzo 1990, rimane qualcosa di misterioso: avrebbe dovuto evolvere verso qualche sorta di pubblicazione o era destinato ad una riflessione strettamente personale? Non lo sapremo mai.

Intanto, mi piace da impazzire l’idea che ad aiutarmi ancora una volta non siano delle RISPOSTE ma delle DOMANDE.

 

Cosa ci può realmente motivare?

Cambiare il mondo o salvaguardarlo?

Solidarietà come autocompiacimento?

Abbandonare la radicalità?

Etica della rivoluzione?

Navigare a vista?

Esiste da qualche parte una linea di demarcazione tra amici e nemici?

A chi ci si può affidare?

Cosa ti dice il sud del mondo? Solo cattiva coscienza?

Perché cercare la salvezza altrove (perché poi dover andare lontano…)?

Vivresti effettivamente come sostiene si dovrebbe vivere?

Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?

Professionalità. Potresti vivere anche senza politica? Ti sei davvero domandato cosa ti procura e ti ha procurato?

Altruismo/egoismo?

Quali costanti?

Quali sintesi (p. es. giustizia, pace, salvaguardia del creato)?

Cosa faresti diversamente?

Alex Langer

Standard
Res cogitans, Tutte queste cose passare

Se ne fa un altro

 

Ci voleva proprio un grande teologo, su quel soglio. Era ora!

 

Don Ciotti, Don Gallo: due fuoriclasse! Ma come in ogni grande squadra, il merito è tutto di chi li allena e coordina così bene.

 

Basta con la lingua italiana, ha ragione lui: torniamo alla messa in latino. Lo abbiamo studiato tutti, un po’ di latino, no?

 

Mi ha stregato il suo ultimo libro, soprattutto quando spiega che nella natività quella vera non c’erano né il bue, né l’asinello. Mi è sembrato un ottimo modo per avvicinare simpaticamente a quell’evento i più piccoli.

 

Ha proprio ragione: gli omosessuali non vanno lasciati soli ma sostenuti mentre affrontano la loro malattia.

 

Sono fermamente d’accordo con la sua dura condanna dell’aborto, definito una ferita inferta alla pace tra gli uomini.

 

Ho apprezzato la sua proposta di eliminare l’esenzione dall’Imu di tutti gli edifici non adibiti al culto.

 

Mi fanno impazzire i suoi Tweet, che hanno davvero dato nuova linfa a quel social network.

 

 

Anch’io non le ho mai sentite pronunciare da nessuno quelle frasi, tranquilli.

E quasi mi spiace scrivere una cosa polemica nel giorno in cui è palese l’umanità di quel gesto: non farcela più e dire basta. Non ce l’ho con lui, oggi. È tutto questo parlarne, è tutta questa sorpresa (davanti all’addio di chi non sorprendeva mai). Sono quelli che si dicono folgorati. Non c’è quell’uomo vecchio, al centro di tutto. C’è quel suo potere. Un po’ svuotato, certo. Privo di un grande avvenire davanti, possibile. Ma trattasi comunque di uno dei più riconoscibili ruoli – nella forma, se non sempre nella sostanza – in cui si incarna il potere degli uomini sugli uomini.

Quello ci tocca, ci colpisce, ci folgora. Quel vecchio è solo un vecchio come ce ne sono tanti.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Guarda e impala

 

C’è chi sbrana occasionalmente, quando ad esempio finisce nel vortice di uno scandalo bancario, e c’è chi sbrana per mestiere.

Ieri sono stato sul punto di gettare nella Pozzanghera una delle foto scattate da un fotografo olandese e pubblicate dai giornali online. Mi avevano colpito. Una leonessa coccolava un cucciolo di impala, spuntato all’improvviso nella savana pochi attimi dopo l’uccisione, per zampa leonina, della madre.

Erano l’apoteosi dell’istinto materno, quegli scatti. Erano il granello di sabbia andato ad inceppare i meccanismi severi ed implacabili del mondo naturale e le ciniche leggi che sovrintendono alla sopravvivenza delle specie.

Non ci sono cascato. Tutto troppo bello per essere vero e troppo poco vero per essere bello.

Questa mattina le ho mostrate alla mia amica Magie, quelle foto. Dall’alto dei suoi 15 anni che la portano a trasalire per ogni immagine di animaletto cicciopuccioso, ha sentenziato: “non può essere”.

Aveva ragione.

 

According to Packer (un etologo del Lion Research Center at the University of Minnesota, n.d.r.), the scene depicted in the photos is familiar to anyone who has studied lions, and to anyone who has ever watched their cat catch a mouse. “These are just variations on the theme of cat-and-mouse, where cats capture their prey and play with it until they either get bored and leave it or get hungry and eat it”.  

(L’intervista completa)

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

The question

La ragazza chiede se può andare in bagno. Nell’aula i banchi sono disposti a ferro di cavallo e lei sta all’angolo, quello opposto alla porta d’ingresso. Può, certo che può.

L’insegnante, momentaneamente chinato sul banco di un assente, scartabella cercando una fotocopia colorata smarrita e la sente tagliare la classe, tracciandone di buon passo la diagonale. Cinque secondi al massimo, percepiti come un piccolo fruscio.

Il ragazzo, dal suo banco, è soltanto una voce – curiosa, da scienziato.

«Prof., ma perché le donne sculettano?»

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Disegnare insieme

Un noto mensile ha chiesto a due disegnatori, diversi ma neppure troppo, di sedersi allo stesso tavolo e di condividere lo stesso foglio bianco. Ne è nata una jam session d’inchiostro nero che mi ha ricordato la bellezza di un gesto che in fondo frequento da sempre e che continuo a praticare nel mio lavoro quotidiano.

Disegnare insieme a qualcun altro.

Ma non ognuno per sé: insieme sullo stesso foglio. Gomito a gomito. Un atto di condivisione profondissima. Riunire due strumenti musicali non regala a parer mio lo stesso tipo d’incanto: bellissimo, ma rimane una somma, un unopiùuno. Disegnare sullo stesso foglio è invece un intero. È dare un morso alla stessa mela. Mi piacerebbe riuscire a farlo capire, ai cuccioli che mi chiamano per segnalarmi che la riga che han tracciato è storta, che il cerchio è tutto fuorchè tondo, che “gli occhi proprio non mi vengono”; far loro capire che sedermi al loro posto, o al loro fianco, stringere tra le dita la loro matita mangiucchiata, il loro pennarello da due lire è per me un onore e un’emozione grande, capace di riportarmi con la memoria a tutta la carta che ho riempito di segni con l’aiuto di altre mani.

Sarà per quello che poi la riga rimane storta, il cerchio rimane sghembo, gli occhi non ne parliamo.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Ho un problema con la Memoria, quella Memoria

Li guardo dal basso verso l’alto, come la posizione che ho occupato nel teatro mi consente di fare. Lo spettacolo è appena iniziato. L’attrice esperta li ha fatti entrare ed accomodare su una lunga fila di sedie. Racconteranno – benissimo – la storia di quelle donne friulane che aspettavano i convogli ferroviari diretti verso i campi e intercettavano i bigliettini dei prigionieri, scritti in fretta e furia prima che la deportazione fosse compiuta e prima che fosse troppo tardi. Gli attori sono ragazzi delle medie, come i miei, e io riesco a guardare solo le loro scarpe.

Ci sono le Nike marroni, le Asics da corsa, le Adidas blu. Ci sono le Puma basse e affusolate e quelle alte da basket, slacciate, bianche. Una ragazza indossa due ballerine nere e muove velocemente i piedini che le abitano: ha freddo. Una indossa degli stivaletti che arrivano a metà polpaccio, il suo vicino un paio di scarpette eleganti con il bordino argentato.

Da qualche anno la Giornata della Memoria mi mette in crisi, mi fa traballare. La scossa più forte me l’ha data un libro fondamentale, e ne ho già scritto, ma forse tutto è cominciato prima, quando ho smesso di essere sicuro e di entrare in classe il 27 gennaio più motivato che in un giorno qualsiasi.

Che diritto ho di far vedere loro tutto questo? A quell’età, dico. Non dovrebbero scoprirlo più tardi, già grandi, dentro lezioni e discussioni (e film, e libri, e spettacoli teatrali) da adulti? Sono sicuro che sia giusto mostrare uomini orribili e terrificanti a ragazzini e ragazzine che forse non hanno ancora preso davvero le misure di un uomo buono e di un uomo cattivo? No, non ne sono più sicuro. È una questione di memoria. La Memoria con la maiuscola, certo, tutta la vita. Ma non in quel momento, non con l’intensità che c’ho messo in certe occasioni.

Lo spettacolo era calibratissimo e dolce. Luminoso. C’erano i bigliettini, al centro. E dentro i bigliettini parole d’amore. I ragazzini hanno ancora dimestichezza coi bigliettini, nonostante il cellulare; a scuola i Prof. lo sanno e fanno finta di non vedere la carta che transita clandestinamente tra le ginocchia e il ripiano dei banchi. Era calibratissimo, dolce, luminoso, lo spettacolo. Ma giocava col fuoco. Un fuoco che mi sono illuso di domare tante volte, e da cui oggi – forse, però – difenderei quelle scarpe pulite, ancora così povere e ignare di cammino.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Una domenica da leoni

I giornali, questa mattina, pullulavano di leoni.

C’erano vecchi leoni spelacchiati che credevo quasi estinti. Invece ruggivano piangendo un compagno morto. Ripensavano alle battaglie vinte e perse con gli altri animali della savana, gridavano che la guerra non è finita, perché la guerra non può finire. Erano ciechi, quei vecchi leoni, in fondo lo sono sempre stati. Erano tre, erano quattro, erano più di 24, purtroppo.

Scrocchiano un paio di pagine e riecco altri leoni. Fuor di metafora: leoni d’Africa più veri del vero. Erano 100.000, 50 anni fa. Sono rimasti in 15.000, nelle stime dei pessimisti, oggi. Quindicimila, un po’ meno dei miei concittadini in questa piccola landa friulana. Chissà cos’avrei risposto, m’avessero chiesto “quanti sono in tutto i leoni?”. Pur privo di qualsivoglia strumento, avrei risposto 900.000, massimo 1.200.000. Mi sarei sentito realista, e senza l’aria di chi spara a caso.

Corro a preparare la lezione, domani in classe si parla di leoni.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

…ed è l’odore dei Limonov

E alla fine nella Pozzanghera è finito anche Limonov, il libro alla moda, il libro che spacca, il libro politicamente scorretto. Letto d’un fiato, e ora il fiato sa di limone, anche se quel “nome d’arte” in russo ha poco a che fare con gli agrumi e più con le armi. Granata, non granita.

Una lettura da cui credo di aver imparato un sacco di cose utili per capire certi snodi del presente e per immergermi in fatti più o meno remoti del secolo scorso. Ma il fascino di Limonov quello no, quello non l’ho captato, respirato, subodorato. Non avrò nulla di eroico e dannunziano, prevarrà in me un fondo di banalità e di buonismo, ma quando leggendo e sottolineando non pensavo che il protagonista fosse un fascista era perché stavo pensando che fosse un idiota, e quando non pensavo che fosse un idiota era perché riflettevo sul fatto che fosse disumano, e quando non pensavo che fosse disumano era perché lo consideravo maschilista, e quando non pensavo che fosse maschilista era perché pensavo che fosse – più semplicemente – una merda.

Standard