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La voglia di Wadjda

Ne sono convinto: si finisce di essere bambini quando si smette di volere, o quando si vuole a metà, o quando si vuole soltanto quello che vogliono altri.

Wadjda, dodicenne saudita, è viva e libera perché vuole, vuole tutto. Ha voluto le sue All Star che rompono la monotonia di quella sorta di tunica che è costretta a mettere a scuola. Quando la sgrideranno intimandole di indossare delle calzature nere come le altre ragazze, colorerà le sue scarpe da ginnastica col pennarello indelebile. E sarà fatta la sua volontà. Wadjda vuole essere amica di un maschio, e con lui vuole fare giochi da maschio. Quando il bambino si ripromette di sposarla, da grande, lei decide che vuole canzonarlo con uno sguardo e così fa. Wadjda vuole lo smalto blu elettrico sulle dita dei piedi e vuole partecipare a una “gara di Corano”. Vuole restare nel punto esatto dove non può restare soltanto perché sono arrivati degli uomini che potrebbero guardarla. Vuole essere guardata, Wadjda, e vuole ridere quando le fanno sapere che una donna con le mestruazioni non può sfogliare il libro sacro se non usa un fazzoletto per proteggerlo. Vuole che il suo nome sia scritto nell’albero genealogico del padre, rigorosamente declinato al maschile. Vuole e aggiorna quell’elenco di maschi con un foglietto e una forcina per capelli. Il genitore non vorrà e deciderà di estirpare il nome della figlia, ma quella sarà una volontà spuria da adulto, decisa da altri chissà dove e chissà quando.

Wadjda vuole soprattutto una bicicletta verde, e attorno a questo desiderio proibito ruota forse il più bel film che ho visto nel 2012, pochi istanti prima che il 2012 sgocciolasse via.   

 

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Campagna elettorale

È tempo di primarie parlamentari. Confesso che domani mi recherò al mio seggio senza conoscere a dovere il profilo dei candidati ad essere candidati. Colpa soprattutto mia, avrei potuto studiare di più e meglio. Con qualche attenuante: la rete non pullula di interventi dei contendenti, decisamente poco abili e agili nello sfruttarne le potenzialità.

Poco male, per una volta il destino ha tolto le castagne dal mio fuoco.

Me ne stavo assorto davanti allo scaffale di una libreria, nell’angolo più periferico di quel grande negozio. Si è avvicinato a piccoli passi, felpati. Ci siamo spartiti – a fatica, per qualche minuto – quei pochi metri di spazio, prima che iniziassero altri settori, altri generi, altre tipologie di libro. Era lì di proposito, il candidato, convinto e fiero. Cercava delle poesie.

E ha trovato il mio voto. 

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Soltanto una mela

Quando un autore decide di divulgare un tema complesso (la Costituzione, il razzismo, la Mafia, la Shoah…) tra i ragazzi, raramente riesce a fare centro. Nascono quei libri, a volte piccini piccini, che fin dalla copertina dichiarano il proprio intento: “XXX spiegata/o ai ragazzi”. Le parole, tuttavia, capita che non siano quelle giuste. Non ci si improvvisa interlocutori di quel pubblico così ostico e ritarare una lingua su di esso è una missione impossibile. Specie per autori che con tutta evidenza non hanno manco il tempo di provarci a sufficienza.

Il libro che sto leggendo è in fondo un caso particolare che un pochino sfugge a questa regola.

L’ha scritto il giornalista Giovanni Bianconi ed è una cavalcata impetuosa dentro gli anni di piombo. Senza ragazzi, va da sé, nonostante i propositi di copertina. In primo luogo perché trattasi di un tomo di 400 pagine. Senza ragazzi, poi, per com’è scritto. I capitoli si aprono con immagini nitide, quasi tattili, le storie sono quelle dei figli adolescenti delle vittime, ottima idea nell’ottica di favorire l’identificazione dei lettori con quegli sfortunati protagonisti. Dopo la prima facciata, però, un ragazzo sbatte insesorabilmente contro le “convergenze parallele” e il “centralismo democratico”, contro “governi monocolore”, “esecutivi balneari” e “matrici neofasciste”. E non ce la può fare. A patto che per “ragazzo” si voglia intendere un ragazzo qualsiasi e non un “prescelto”, il prodotto di qualche élite.

Detto questo, ripeto: il libro è un affresco vivissimo di quei tempi agitati. Un ripasso indispensabile per chi – già grande – voglia rafforzare la sua memoria e sentirsi, come me in queste ore natalizie, un “ragazzo” affamato di storie e di Storia.

 

«Forse se n’era reso conto anche uno degli assassini, che dopo l’omicidio aveva afferrato il borsello del maresciallo convinto di rubare una pistola che sarebbe tornata utile alla causa. Ma quando l’aprì, scoprì che il poliziotto aveva portato con sè soltanto una mela».

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Non possiamo non dirci gay

Ancora su @Pontifex, mica sana sta cosa.

Sembra abbia detto:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No, spetta, rileggo:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No spetta, ingrandisco:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Provo col grassetto.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Forse con un po’ di colore.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Poco? Vediamo così.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Chiedo a Google di mostrarmi la frase in un’altra lingua, più elastica, più moderna. Non sia mai ch’io mi sia sprovincializzato troppo.

 

“Attempts to make marriage between a man and a woman legally equivalent to radically different forms of union are an offense against the truth of the human person and a grave wound inflicted onto justice and peace”.

 

Mescolo un po’ le parole…

 

“I tentativi equivalenti di rendere il matrimonio radicalmente fra un uomo e una unione giuridicamente a forme diverse di donna sono un’offesa contro la ferita della persona umana e una verità grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Lo stampatello maiuscolo non tradisce mai.

  

“I TENTATIVI DI RENDERE IL MATRIMONIO FRA UN UOMO E UNA DONNA GIURIDICAMENTE EQUIVALENTI A FORME RADICALMENTE DIVERSE DI UNIONE SONO UN’OFFESA CONTRO LA VERITA’ DELLA PERSONA UMANA E UNA FERITA GRAVE INFLITTA ALLA GIUSTIZIA E ALLA PACE”.

 

Cambiamo il punto di vista.

 

˙”ǝɔɐd ɐllɐ ǝ ɐızıʇsnıƃ ɐllɐ ɐʇʇılɟuı ǝʌɐɹƃ ɐʇıɹǝɟ ɐun ǝ ɐuɐɯn ɐuosɹǝd ɐllǝp àʇıɹǝʌ ɐl oɹʇuoɔ ɐsǝɟɟo,un ouos ǝuoıun ıp ǝsɹǝʌıp ǝʇuǝɯlɐɔıpɐɹ ǝɯɹoɟ ɐ ıʇuǝlɐʌınbǝ ǝʇuǝɯɐɔıpıɹnıƃ ɐuuop ɐun ǝ oɯon un ɐɹɟ oıuoɯıɹʇɐɯ lı ǝɹǝpuǝɹ ıp ıʌıʇɐʇuǝʇ ı”

 

Niente da fare. Mi sento in colpa, mi sogno migliore di così, mica mi basta essere migliore di @Pontifex…

Ma il mio cervello è inchiodato lì. Si è come inceppato. Non ragiona e continua a proiettare soltanto una vignetta di Andrea Pazienza. Schiaccio CTRL ALT CANC e non si sblocca. Non riesco a riavviarlo. AIUTO.

Mi arrendo: ragioneremo la prossima volta.

  

(Dove dovevano andare i Papi secondo Paz)

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Costruire ponti che non toccano l’altra sponda

Forse li sorprendeva il fatto che @Pontifex fosse arrivato su Twitter, nuovomondo, prima di loro. Fatto sta che dopo avermi sentito declamare il primo tweet papale, mentre diligentemente ricopiavano il compito d’italiano oggi alla quinta ora, mi sono sembrati un po’ delusi. Tutto qui? Certo, erano abituati ai cinguettii di @BarackObama e di @MichelleObama, i miei ragazzi, e forse con un principiante bisognerebbe essere più indulgenti.

Rincasando, qualche ora dopo, rimuginavo su quella schermata giallina, su quell’utente così “autorevole”, sulle ambizioni di quel progetto comunicativo, cercando di mettere a fuoco il conto che non tornava. Che è in fondo sempre lo stesso. Centinaia di migliaia di persone che ti seguono (followers, per gli iniziati…), e presto saranno milioni, nessuna da seguire. Anzi, 7: se stesso twittante in altri 6 idiomi del globo terracqueo. Il trionfo dell’autoreferenzialtà, e l’assurdo di un account ex cathedra, col dogma dell’infallibilità. Forse è solo questione di tempo e di acclimatamento, ma perché non seguire… che so… @CardRavasi, @fam_cristiana, @AndreaDisint@DalaiLama (uno che a dirla tutta non segue neanche se stesso nelle altre lingue…), solo per citarne 4?

Come diceva Alex Langer, autentico “costruttore di ponti”, è bello e importante amare le bandiere, ma a patto di cominciare da quelle degli altri. Sono convinto possa valere anche per i tweet, che provano ad essere dei cip cip. Potenzialmente qualcosa di molto più ambizioso dei soliti beeh beeh.

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Il calendario laico di Caterpillar

 

Quando mi capita di rincasare a quell’ora, parlo delle 19:00 o giù di lì, di solito mi ricompongo, rettifico la posizione del guidatore che non ne può più di guidare e mi dispongo all’ascolto di una pagina di radiofonia che fa onore al servizio pubblico.

Vado matto per il CALENDARIO LAICO di Caterpillar. Trovo quel rovistare nel grande sacco delle storie per proporre ogni sera agli ascoltatori il “santino” di un personaggio meritevole di stima e memoria, la “resurrezione” di un popolo, l’ “annunciazione” di un oggetto quotidiano che ci ha cambiato per sempre la vita, di un’opera d’arte divenuta immortale (per dire, scrivo mentre mi raccontano la prima de La Corazzata Potëmkin…), di un’idea, di un diritto, …semplicemente encomiabile.

Prima di tutto perché il progetto immagino contraddica tutti i dogmi della radio commerciale e di successo: profuma di scrittura, di buona scrittura, esige concentrazione, propina fatti spesso inattuali, ha un profilo etico altissimo.

Secondo perché è tutta la squadra del programma ad occuparsene, a turno, senza le gerarchie che sarebbe lecito aspettarsi. Un giorno ci pensa il celeberrimo conduttore, il giorno dopo la conduttrice emergente, quello dopo ancora il webmaster di cui nessuno conosce la voce.

A volte, terminato il breve frammento radiofonico, ho pensato che dovrebbero essere così, le mie lezioni di storia. Una al giorno, ogni giorno un uomo o un fatto umano da santificare. Addio Prima Guerra Mondiale, non servi a niente. Addio cronologia rigorosa degli eventi.

Da anni Caterpillar persegue un umanesimo laborioso e sincero, un umanesimo della porta accanto, ironico e fondamentalmente ottimista. Ci sarà un motivo se in passato ho spesso fermato la macchina a qualche chilometro da casa per non arrivare troppo presto e dover scendere prima che la trasmissione fosse giunta alla fine.

Ecco un esempio scritto e due orali. 

Domani è il 14 novembre
di Massimo Cirri

Il 14 novembre 1889, alle 9.40 del mattino, a New York, una ragazza si imbarca su un battello a vapore. Ha 25 anni e porta con sé il vestito che indossa, un cappotto robusto, una piccola borsa con molti ricambi di biancheria intima e gli articoli da toellette. In un sacchettino legato al collo ha un po’ di dollari, 200 sterline e anche dei lingottini d’oro.

Si fa chiamare Nellie Bly e parte per fare il giro del mondo. E deve farlo il più velocemente possibile, deve battere Jules Verne ed il Giro del mondo in 80 giorni.

Nellie è una giornalista. Ha cominciato a scrivere quando legge un articolo sessista su un giornale e allora butta giù una lettera molto precisa ed incacchiata all’editore. Che la assume. Così scrive numerosi articoli investigativi, poi viene relegata alla pagine femminili. Allora si stufa e va a New York e convince ad assumerla in un quotidiano un signore che di nome si chiama Joseph e di cognome Pulitzer. 

Poi Nellie passa una notte davanti allo specchio per imparare a fare le espressioni facciali da “squilibrata”, poi prende una stanza in un pensionato per operaie e quando è il momento di spegnere la luce dice che non vuol dormire, che ha paura degli altri, che gli altri sono matti. La mattina dopo il proprietario dice che la matta è lei e chiama la polizia. La visitano diversi medici, lei dice che non ricorda nulla. Loro confermano che è proprio matta, “un caso senza speranza”. Così finisce internata al Lunatic Asylum al Blackwell Island, un manicomio femminile. E’ quello che vuole per raccontare la brutalità, il cibo schifoso, i topi dappertutto, i calci delle infermiere, i secchi di acqua gelida. Tutto quello che fa diventare chiunque – dopo un po’ – “matto” davvero. Lei viene liberata dal suo giornale – chissà se ha avuto paura che la lasciassero lì per sempre – e scrive il libro che inventa il giornalismo investigativo sotto copertura. Come mettere insieme Sabrina Giannini di Report e Fabrizio Gatti de L’Espresso. Si intitola Dieci giorni in un manicomio.

Invece per fare il giro del mondo di giorni ne impiega settantadue. Più sei ore, undici minuti e quattordici secondi. E’ il record di circumnavigazione della terra. Attraversa l’Inghilterra, la Francia (dove incontra Jules Verne), il Canale di Suez, Ceylon, Singapore, Hong Kong e il Giappone. Passa anche da Brindisi, viaggiando sempre senza essere accompagnata da un uomo. Poi sposa un milionario.

Così domani 14 novembre Caterpillar si ricorda di quelli che si intrufolano nei luoghi chiusi per raccontarne gli orrori e delle donne che viaggiano da sole.

 

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Ballottaggio tra Vecchio e Nuovo

 

 

Ho sempre paragonato quel gesto alla muta di un serpente.

Le prime volte ero impacciato, lento, insicuro, confuso.

Col tempo è sopraggiunto un po’ di mestiere, nonostante la completa assenza di grazia.

Oggi lo compio e inevitabilmente ci vedo una metafora.

C’è da sbarazzarsi del Vecchio, dell’usato, e c’è da far spazio al Nuovo.

Chi ti ha accompagnato per molto tempo, ha occupato il tuo spazio, ti è venuto appresso nel mondo, ora scricchiola e si rompe, è una coperta che diventa troppo corta, anche se provi a fartela bastare. Ti lascia la sua ruggine sulle mani, però è fedele, madonna se è fedele. Lo rimetti subito in riga girando una chiavetta, nel caso si fosse rilassato troppo dormendo sul divano.

Il rovescio della medaglia è quel Nuovo così fresco d’incarto e di scontrino. Sai di aver scelto la qualità e di non aver badato al prezzo, ciononostante nei primi giorni percepirai una distanza, una barriera fisica. Ti sembreranno dei corpi estranei, percepirai un reciproco rigetto.

Mi sono misurato centinaia di volte con quell’ostilità metallica, con quell’indisciplina. Ci voglion giorni, poi passa. E ci vuole orecchio, va da sé.

Ci si abitua in fretta, al Nuovo. E si dimentica il vecchio, si perde per sempre la sua storia, aggrovigliata senz’arte e gettata via.

Tra vecchio e nuovo, tra il ricordo di vecchie canzoni e il pensiero per quelle da cantare presto, in un sabato di malditesta, ho cambiato le corde alla chitarra.  

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Etica Ibrahimovicea

 

In qualità di Professore Ordinario di Etica pallonara e Storia delle rovesciate volanti moderne e contemporanee ci terrei a far notare ai miei studenti e a tutti gli illustri partecipanti a questo simposio che non è l’ultima opera (4-2) dell’Ibrahimovic quella maggiormente meritevole di menzione, bensì la terz’ultima (2-2). Riconosco la grandezza di quell’imperioso librarsi nell’aria, per quanto viziato dall’imperizia del portiere e da una non certo marginale componente di culo, ma indirizzerei piuttosto i vostri evidenziatori verso quel precedente stop di petto e verso quella perentoria volée di destro, ma soprattutto – mi preme sottolinearlo – vi chiederei di soffermarvi su quell’insolito quanto irrituale cruccio, con la palla già nel sacco, nei confronti di un avversario rimasto a terra dolorante dopo aver tentato invano di ostacolare il prodigio tecnico dello svedese. Gesto così poco Ibrahimoviciano e quasi tenero, dimentico della prodezza appena consumata e giustamente sancita dagli applausi scroscianti.  

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Shit learning

 

 

Nel XXI canto dell’Inferno l’Alighieri fa mollare al Diavolo una scorreggia, un peto, una puzza. Alle poetiche classiche ed estetizzanti da sempre si contrappongono i cultori della materialità dei corpi, delle cose, delle cose dei corpi. Il poeta e scrittore Roberto Piumini ha intessuto raffinate storie di dame e cavalieri; il picco del suo successo tra i giovanissimi lettori, tuttavia, si deve forse ad un testo sulla cacca.

Una brava maestra ha realizzato con i suoi cuccioli un piccolo merdosissimo (in senso letterale) capolavoro.

Il clima di una Pozzanghera – con la sua acqua stantìa, ricettacolo di escrementi – gli si addice.

 

 

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La cultura umanista ha ancora senso, aggiungendo un po’ di brodo…

 

L’SMS, letto nel tragitto tra la Pluriclasse e la 3ª, è fin troppo chiaro: “Oggi Lodoli ti farà incazzare”.

Il pezzo in questione sta in taglio basso su “la Repubblica” di oggi. S’intitola ADDIO CULTURA UMANISTA: PER I RAGAZZI NON HA SENSO. Inizia con il lamento di un’insegnante, una delle tante a cui Lodoli dice di aver porto la spalla consolatrice: “Io non esisto più, sono diventata invisibile. Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta”.

Io non ho le parole per dire come sia cambiata la scuola in questi anni. O meglio: le ho ma sono incerte, malferme, insicure, sono forti sensazioni e sensati sospetti. Non ho ricette e medicine, e giuro che consolerei anch’io col cuore la collega. Tuttavia, nel suo lamento sembra esserci già bello spolpato il nocciolo del problema. “Entro e comincio a spiegare”. Ci sono un po’ di vasi vuoti e c’è un otre bello pieno: la scuola è compiere un magico travaso di cultura, la didattica è un imbottigliamento di nozioni, concetti, idee. Ecco, collega disperata, non è così che può funzionare, oggi. Da ragazzo sono stato un vaso vuoto, mi sono messo in fila e ho lasciato diligentemente che le mie pareti di coccio si riempissero. I prof. spiegavano e io ascoltavo. Amavo però meno di un decimo di quello che assimilavo con dedizione, il resto lo stivavo in me perché ero soltanto un vaso e a quello servono, i vasi: a stivare cose, punto. Non so cosa siano i ragazzi del 2012, ma di una cosa son sicuro: non sono – e soprattutto non vogliono essere – dei vasi vuoti da riempire. La tua spiegazione, sconsolata prof., è una chiave inglese che si prefigge di aggiustare un McBook Air che non si accende più.

Continua Lodoli, e anche il suo è un lamento:

“Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti”.

Lo scrittore è un maestro della malinconia e del disincanto, armi con cui nei suoi racconti ha disegnato personaggi difficili da dimenticare. Quando dipinge i suoi studenti con i toni della stessa sconfitta, per giunta raggiunta ancor prima di combattere, non lo sopporto. E un po’ m’incazzo, sì. Da anni descrive ragazze e ragazzi delle scuole secondarie romane viaggiare nella vita come zombie: non un orizzonte da raggiungere, mai niente da fare, figuriamoci da credere. Occhi tristi, testa povera, sensibilità spuntata. Vittime di tutto: la società dei consumi, l’omologazione culturale, la famiglia. Mai un dubbio: e se fossi io quello sconfitto? Quello che non li sa più coinvolgere, quello che racconta la letteratura come si poteva fare vent’anni fa e come non è più possibile fare ora, con i tempi ed i linguaggi così cambiati. Quello che spiega e la spiegazione rimbalza come un pallone sul muro, e torna indietro, come un passaggio rifiutato: il canestro fallo tu, a me non interessa. E cambiare strategia? Cambiare linguaggio? No, troppo difficile, diamo per morto l’Umanesimo che facciamo prima. E cos’è la cultura umanistica, poi? Siamo tutti d’accordo oppure indiciamo le primarie e rottamiamo Petrarca e Boccaccio? (son lì da 700 anni e non hanno mai vinto, direbbe un’altra corona fiorentina…).

Ora, lo scrittore (e critico, e poeta, e sceneggiatore… ma, e mollare la cattedra nella scuola pubblica a un giovane più motivato, no?) non è nemmeno così categorico e tranchant come in altre occasioni. Sul finale, infatti, riconosce agli studenti le attenuanti generiche.

“Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei”.

Puzza un po’ di soluzione di comodo, questa, però. Collocare i ragazzi in un altrove, magari nel posto giusto, chi lo sa, comunque in un universo lontano e irraggiungibile, nemico a oltranza di ogni tradizione. 

Ogni mattina mi metto lì e spiego. Una spiegazione può diventare un luogo di grande solitudine: sono terribili gli occhi che ti guardano senza guardarti davvero. È successo anche stamattina, eppure i miei aneddoti su Obama sembravano perfetti. Che delusione, maledetta 3ª di repubblicani.

Però a ricreazione c’erano ragazzini che correvano sulla fascia cantando a squarciagola le canzoni dei Beatles che abbiamo ascoltato insieme, a scuola. Chissà se la premiata ditta Lennon McCartney può essere ricondotta alla cultura umanista di cui parla Marco Lodoli…

Poi è arrivata Irene, 12 anni, gran lettrice.

“Ti ho portato un libro”, mi fa. “Mi piacerebbe lo leggessi”, continua. “Purtroppo è un po’ macchiato… una macchia di brodo…”.

Brava Ire, hai capito tutto… bisogna ridare sapore ai Classici. È quella la sfida.

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Quando gli omofobi fanno oh…

Al netto della retorica.

Metti di possedere una cosa, grande ed appariscente. Cammini per strada ed incroci un gruppo di persone che scandiscono slogan in cui si sostiene che quella cosa, la tua cosa, non possa esistere, non faccia parte della natura, sia fuori dal mondo. A quel punto, se quella cosa guarda caso ce l’hai appresso, lì con te… A quel punto, con fare quasi didascalico, didattico, oserei dire scientifico… A quel punto, ecco, quella cosa la tiri fuori e gliela mostri.

Soprattutto se quella cosa è l’amore, soprattutto.

  

!!! Aggiornamento: bello scoprire, dopo aver scritto e postato, come non fosse poi l’amore, la cosa da mostrare… Era qualcosa di più: l’amore degli altri, dei miei fratelli con meno voce e meno diritti. Ancora meglio, via…

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La coscienza di Zero

«RICORDA: NESSUNO GUARISCE DALLA PROPRIA INFANZIA». Dice proprio così, la quarta di copertina del nuovo fumetto di Zerocalcare. Ed è proprio così, pensi dopo averlo letto in un sol boccone. Inutile girarci attorno, c’è un ritmo indiavolato, in quelle tavole. Il meccanismo narrativo è congegnato con classica precisione, le battute si susseguono a mitraglia, le invenzioni – pirotecniche, ma davvero: tout se tient – si alternano a momenti più pacati e riflessivi. Tutto, però, davvero tutto, ruota attorno a piccoli fatti risalenti all’infanzia del protagonista, battiti d’ali di farfalla capaci di smuovere l’esistenza tutta e di condizionarne gli sviluppi nel tempo, decennio dopo decennio. Spesso è il luogo di un trauma, l’infanzia, di un’umiliazione, di un sopruso. La piccola Sara ha un visino dolcissimo e sorride radiosa, almeno finché non s’imbatte in quella stronza di Giuliacometti che la inchioda davanti all’evidenza del suo apparecchio per di denti: “A che ora passa il treno?”.

Non è un paese per buoni, l’infanzia, e gran parte dei personaggi della storia son cattivi inconsapevolmente, quasi per inerzia, perché vanno così le cose, non c’è verso. Con qualche rara, rarissima eccezione: Zero, il protagonista, vive ad esempio strozzato da un rimorso, e nemmeno troppo grande. È bello che ci sia ancora un fumetto così. Avrà successo, se lo merita. Si parlerà e si scriverà di quel tratto convincente, degli spaccati sulla società e sui giovani (e sul loro immaginario collettivo), si riderà a ragion veduta di quello che fa ridere, ma Un polpo alla gola, al succo, tratta di un minuscolo piccolo grande immenso rimorso, nent’altro che di un conticino lasciato in sospeso per anni da un bambino diventato ragazzo e poi adulto. Al succo: soltanto di un rimorso. 190 pagine di tavole per dire un rimorso: praticamente una poesia.  

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Kant e la verginella

«Ti sto osservando, stai studiando Kant». Mi ronza in testa da ieri, il messaggino spedito alla diciassettenne palermitana dal suo ex furibondo, che forse stava premeditando un futuro da assassino. Probabilmente il nome del filosofo era scritto sulla lavagna, un docente spiegava e l’sms è arrivato facendo piano. Le classi, si sa, non sono impermeabili ai messaggini. Mi ronza in testa perché stride con le parole che coll’immaginazione avrei fatto digitare su un display ad un tale mostro, e forse perché ho un ricordo indelebile di quando, a quell’età, di notte, sui tavolini all’aperto di una pasticceria, semiclandestinamente, studiavo la Critica della ragion pura con i compagni di liceo, in quelli che chiamavamo “simposi”, il giorno prima dell’interrogazione.

 

«Probabilmente alle primarie voterò Bersani ma, per favore, da navigato ambasciatore della sinistra nel rapporto con i poteri forti, davvero, non faccia la verginella». C’è posto per un altro ronzio, nella mia testa. A scrivere questa volta è Gad Lerner, uno di quelli che mi hanno insegnato un sacco di cose, uno che, con Alex Langer, ha contribuito a seminare in me le idee di cui vado più orgoglioso, uno la cui trasmissione in tv, a volte, mi ricorda un simposio a parlare di Kant ai tavolini di una pasticceria. Non è certo colpa del grande giornalista se la lingua italiana è incrostata di maschilismo, così tanto che l’errore di un maturo politico maschio viene sanzionato attraverso il paragone con una giovane donna dai costumi facili e ipocritamente celati.

 

Il centesimo assassino di una donna in questo 2012 forse pensava alla “sua” donna come ad una “verginella”, che, mentre teneva a distanza lui, ricuciva rapporti con fidanzati precedenti, coltivando il vizio censurabile della libertà.

 

C’è materia per infinite passeggiate kantiane: il cielo stellato sopra di noi, la legge morale questa sconosciuta. 

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Chiedi chi erano i Beatles

Nella mia biblioteca di montagna c’è un grosso quaderno cartonato: il “quaderno delle presenze”. Chi entra fa la sua firma sotto la data, se si dimentica la fa qualcun altro al posto suo. Com’è abbastanza ovvio, quella carta è presto diventata una specie di muro dove viene affisso ciò che passa per la testa ai giovani avventori, quasi tutti alunni o ex alunni di Scuolamagia. Disegni, scarabocchi, impronte della mano, versi di canzoni, sfottò, marchi commerciali, cazzi e tvb. Il 5 ottobre, quando mi sono avvicinato, Giorgio stava disegnando il logo dei Beatles. Adesso bisogna dire che Giorgio ha 19 anni, che non sono pochissimi ma non sono nemmeno tanti. Il suo festeggiare i cinquant’anni di Love me do in quel modo così intimo e sentito mi ha fatto pensare che forse quell’anniversario andava celebrato anche con gli alunni ufficiali, quelli di ogni mattina a scuola. Così, rischiando un po’ di retoria fabiofazista, ho chiesto loro – scusate il bisticcio – di “chiedere chi erano i Beatles”. L’hanno fatto, e i risultati sono stati a dir poco sorprendenti. Lo scoop l’ha fatto Marimù, scovando un signore del paese che può andar fiero di aver partecipato ad un concerto dei Fab4 allo Stern Club di Amburgo, nei primissimi anni ’60. Una nonna ha invece soltanto sfiorato la partecipazione ad una data romana della band: quel giorno del 1965 dovette accudire i bambini della coppia per cui lavorava. Dai quaderni sono usciti aneddoti e storie: il concerto sul tetto, la nomina a baronetti, l’arrivo di quella cinese che ha rovinato tutto… no, forse era una giapponese. I papà han tirato fuori i CD, i nonni han rispolverato i vinili, manco a dirlo MAI prestati a nessuno. Sono emerse mamme che hanno subito il fascino di Lennon, con quell’irresistibile faccia da “cane bastonato”, e mamme “tendenza McCartney”, che poi sarebbe la mia.

Soprattutto, però, ogni alunno ha portato a scuola il titolo di una canzone, opportunamente segnalata dal “consulente” domestico. Con YouTube abbiamo quindi ascoltato insieme Yesterday e Help, Let it be e Here comes the sun. E poi altre, e poi ancora. Una volta ho sentito De Gregori dire: “Cos’è una canzone popolare? È una canzone che abbiamo scritto tutti quanti assieme”. Non solo, verrebbe da aggiungere dopo quest’esperienza coi ragazzi: è anche una canzone che conoscevi già, a tua insaputa.

E la canzone preferita del Prof.? Non poteva mancare, ma è spuntata prima dalle pagine di un quaderno, direttamente dal cuore di una mamma che la suonava con la chitarra, trovandola pure lei irrimediabilmente perfetta.

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Con una finestra aperta sulla morte

Le immagini di Francesco Mastrogiovanni mentre muore legato ad un letto d’ospedale non sono inedite. In passato le tv le hanno già mostrate e discusse. La novità di questa iniziativa dell’Espresso e dell’associazione “A buon diritto” (guidata da Luigi Manconi) sta nel proporle integralmente. Quattro giorni di streaming sul sito del settimanale, con un orologio gigante a scandire il tempo infinito di quell’orrore. Una scelta forte, un pugno nello stomaco, a suo modo un esperimento che ho prima di tutto testato su me stesso. Ieri ho lasciato quella pagina aperta, mentre scrivevo e lavoravo al pc. Ogni tanto buttavo un occhio, il tempo per rabbrividire di vergogna. Quello che ho pensato, al momento di spegnere tutto e andare a dormire, è che non dovrebbero servire le immagini. Una storia così dovrebbe pugnalarci anche se raccontata da un trafiletto minimo, anche se letta da un mezzobusto in un Tg della notte. Invece, e forse non basta ancora, abbiamo bisogno di quella dose da cavalli, e di entrare in un meccanismo mediatico che sembra un gioco. Seppur terribile, un gioco.

Piccola chiosa moralista, destinatari quelli dell’Espresso.

I dubbi sull’operazione mediatica li avete avuti pure voi, immagino. Sapevate che era un azzardo. Se servirà a qualcosa bisognerà dirvi grazie. Su quella pagina web, però, almeno su quella, per il tempo di quelle 82 ore, la finestra pop up che si apre sovrapponendosi a quel corpo nudo e abbandonato per pubblicizzare la nuova Audi A3, ecco, quella no.

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V’al più l’apratica

Qualche anno fa ricordo di essere entrato in una sala insegnanti affollata mentre una collega di lettere stava facendo scompisciare un nutrito gruppo di altri prof. Gli autori di quel vasto repertorio comico erano i suoi alunni con i loro strafalcioni linguistici nei temi in classe. La sensazione fu sgradevolissima e confermò in me il disprezzo per l’elitismo grammaticale, quell’ottusa convinzione di primeggiare in cultura soltanto in virtù della dimestichezza con accenti, apostrofi e consecutio temporum.

Due giorni fa ho letto e corretto il testo appassionato di un cucciolo appena sbarcato alle medie. Tristi ricordi e amare considerazioni sul quinquennio precedente, quello alle LEMENTARI.

In passato ho incontrato interessantissime parole sul complesso mondo del L’AVORO, ho valutato immaginari viaggi sulla L’UNA e improbabili delitti compiuti a LUNA di notte.

Una ragazza in possesso di una scrittura limpida ed efficacissima mi ha raccontato una volta della sua partecipazione alla DUNATA degli alpini.  

Già ripiena di tutti i crimini che mente umana possa immaginare, la famosa lettera che circola in questi giorni sulla stampa si macchia anche di gravissimi reati di lesa grammatica. Primo fra tutti quel D’AVVERO.

(E tutti a scherzare quel L’AVITOLA, pensare che è stato pure direttore de “LAVANTI”.)

Anche in questo caso, non rido e non piango (per gli apostrofi, almeno; per il resto ne possiamo parlare…) e propongo con forza la depenalizzazione dei reati linguistici minori. 

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Profumo di verità

Spesso fatico a comprendere i Ministri della Pubblica Istruzione. Una volta lessi un lancio d’agenzia riferito ad una dichiarazione di Maristella Gelmini: “UN TETTO AGLI STUDENTI STRANIERI”. Partii per la tangente, giuro, e immaginai progetti di accoglienza rivolti ai figli senza casa dei migranti sbarcati sulle nostre coste. Non era propriamente così, come avrete intuito.

Non li capisco e allora sto più attento.

Ieri mi è sembrato di capire che Francesco Profumo abbia affermato di non trovare giusto che dalle classi italiane debbano uscire – mettiamo alla quarta ora del martedì – gli alunni stranieri devoti a divinità monoteiste, in sostanza tutte propugnatrici di ideali di umana fratellanza, affinché i loro compagni italiani, devoti a una divinità monoteista fonte di pace e serena disposizione a porgere l’altra guancia ai nemici, possano discorrere da soli, guidati da un insegnante pagato dallo Stato, di come il mondo debba reggersi sull’amore universale che non conosce confini e barriere.

Ecco, mi pare che il ragionamento dell’ing. Profumo fili liscio come un olio crismale, ma non fidatevi di me, che io i Ministri della Pubblica Istruzione non li capisco.

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Rottamare le matite

La satira dev’essere più importante del pane che abbiamo in tavola. Bisogna incatenarsi a difesa della libertà di ogni autore satirico, perché possa sputare il suo veleno in ogni direzione, approfittando di qualsiasi vento. Bisogna gridare contro ogni intimidazione, fatwa e censura sempre, e tutti assieme.

Ciò detto, la vignetta di Vauro sul ministro Fornero fa cagare. È davvero maschilista e non insegna / spiega / svela nulla se non che gli uomini da sempre, quando disprezzano una donna, la veston da puttana. A parole, a sottintesi, a vignette.

Abbiamo i politici che ci meritiamo e li abbiamo da 20 – 30 anni. Nel nostro paese, però, capita che anche chi li disegna sui giornali lo faccia ininterrottamente da decenni, replicando gli stessi cliché triti e ritriti, giocando sui soliti meccanismi che fino ad oggi hanno sempre funzionato.

Forse andrebbero rottamate anche le matite.

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Ci vuole orecchio, ma anche naso

 

Cara Mia,

ti stavo scrivendo una classica mail perché ero in debito con te di una spiegazione. Ieri sera ti ho allertata con un messaggino pregandoti di sintonizzarti su Rai Sport 1, mentre su quel canale era in corso la cerimonia conclusiva delle Paralimpiadi, in diretta da Londra.

Mi hai risposto all’istante, rammaricandoti però di non poter svolgere quella piccola consegna, trovandoti – ma guarda un po’ – nel bel mezzo di un concerto.

Mi perdonerai se allargo questa lettera agli occhi dei milioni di lettori della Pozzanghera. Non pensare sia una questione di tempo, che cioè io non abbia voglia di scrivere anche un post dopo la mail indirizzata a te. Ti prego di credermi, non voglio accaparrarmi i classici due piccioni. Ti uso invece come “espediente letterario”, perché queste parole risultino il più possibile calde e vere e non sembrino il solito consiglio spocchioso che dà un blogger all’universo mondo dopo aver visto un film o letto un libro.

Da quando ci conosciamo abbiamo parlato un sacco di volte di musica, tu con competenza e passione, io al massimo con la seconda. Nella nostra ultima chiacchierata online, hai provato a redimermi dall’atavico pregiudizio che mi vede osteggiare le bande di paese con le loro divise e il loro incedere militaresco. Proprio non le sopporto, e sogno di notte che mi rincorrano.

Tu mi inviti invece a distinguere, perché c’è banda e banda, perché non tutte sono come quella della Magliana. Sostieni inoltre che i termini “orchestra” e “banda” siano nella prassi comune quasi contrapposti, mentre in realtà definiscono cose simili, talora identiche. Solo che “orchestra” fa chic, all’opposto “banda” fa “strapaese”, “sagra della pecora”…

Insomma, ieri sera su quel canale c’era un’orchestra… una banda… un ensemble… un gruppo… chiamalo come vuoi… strepitoso, sorprendente, incredibile. Si esibiva con i Coldplay e mi sa che se quelle affermate popstar ci capiscono davvero, di musica, dovevano essere proprio loro ad essere onorati. Musicisti con disabilità anche gravissime, praticamente immobilizzati, costruivano mattone su mattone una musica travolgente. Non riuscivo a capire con quale suono contribuisse a quell’insieme, lo confesso, ma c’era una donna, in quello stadio, che suonava pigiando sopra a un tablet con il naso! Con il naso!

Ci sono i video dell’evento di ieri, in rete, ma non voglio farti perdere troppo tempo su YouTube. Esiste invece questo breve documentario che racconta la genesi e la vera e propria missione della Paraorchestra, con interviste ai protagonisti e qualche spiegazione tecnica che per il momento non ho colto (ma ‘mo lo riguardo…).

Spero che la visione possa emozionarti come la musica ha fatto tante volte. Mi viene in mente l’orchestra di Dudamel, un progetto – concorderai – in fondo nemmeno troppo diverso da questo.

A presto, cara Mia, e alla prossima chiacchierata.

E buona Musica, sempre.

 

(a)

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P!nk in Carnia

Noi amanti di Maurizio Milani siamo degli incompresi. Siamo pochi e ci riconosciamo l’un l’altro come i componenti di una setta di perseguitati. Probabilmente questo ha a che fare con la nostra incapacità di spiegare, attraverso ragionamenti circostanziati, perché la prosa e i contenuti del nostro guru siano così inarrivabili. Proprio non ci si riesce. Forse quello che per noi è già chiaro, un giorno lontano lo sarà per tutti.

Intanto, in uno dei suoi ultimi scritti, quel genio ha fatto convivere in 10 righe un protagonista della famigerata “trattativa”, la mia pop-star di riferimento e un luogo che mi è così familiare da risultare, in quel contesto, ancora più assurdo.

INNAMORATO FISSO

Ieri telefono al senatore Nicola Mancino. Io: “Scusi, ho sbagliato numero”. Lui: “Si figuri!”. Io: “Ma tanto che ci sono, le chiedo: non ci conviene usare le lettere per comunicare? (questa per esempio l’ho spedita ieri e oggi è già qui in rubrica) Non penso si permettano di aprire la corrispondenza”. Mancino: “Non sarei così sicuro, pensi che ieri ho scritto una cartolina dal lago d’Iseo a P!nk, la pop star, e hanno convocato P!nk come persona informata sui fatti”. P!nk chiama me (suo impresario per l’Europa). Mi fa: “Maurizio mi hanno convocata in tribunale a Tolmezzo, sono preoccupata”. Io: “P!nk, stai a casa bella tranquilla, tanto mi convocano anche a me per questa telefonata”.

 

Maurizio Milani, Innamorato fisso, 5 settembre 2012 

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