Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le cose cambiano, e la scuola è gay

Chissà che conclusioni avrebbero raggiunto, gli insegnanti sguinzagliati dalla curia milanese alla scoperta di come e quanto l’immaginario gay abbia invaso le classi, le file di banchi, i corridoi, le file davanti ai distributori di merendine.

Probabilmente al termine della loro “indagine informale” avrebbero tratto un bilancio confortante, dal loro punto di vista, ché i docenti italiani tutto sono fuorché un’avanguardia. In nessun campo, figuriamoci in quello.

Le cose, tuttavia, cambiano. Indipendentemente da chi sieda in cattedra.

“Prof., nel tema posso metterci un gay? In tutte le serie americane ce n’è almeno uno…”.

Rimasi stupito, ed era il 2003. Certo che si poteva.

Poi qualche anno dopo venne un tema cupo e di difficile lettura. Ma era colpa mia, non riuscivo a capacitarmi – aprendo e richiudendo il protocollo – che la protagonista fosse trans. Messa a fuoco la cosa, tutto scorreva liscio nel racconto di un’identità complessa e tormentata. Racconto che io non avrei saputo scrivere, figuriamoci in seconda media.

Molta strada rimane da percorrere, per gli insegnanti, per gli alunni e per gli 007 delle curie curiose.

Ma intanto non posso non pensare agli esami di stato di questo giugno, con una ragazza concentrata sulla brutta del suo tema: dentro c’è il suo futuro, il suo realizzarsi nel mondo della moda, tra collezioni da disegnare, sfilate da allestire, party e jet lag. Un futuro di fama e soldi a palate, ma anche di fatica e di stress. Tanto da rendere indispensabile la presenza costante di un assistente tuttofare. Ma i lettori non si facciano strane idee, tra la stilista e l’efficientissimo Andrew (in mio onore, NdR) non c’è niente. Quello è gay fino al midollo.

Standard
Imago, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Lezione di didattica incendiaria (2)

Immagino i dialoghi, dalle parti del tinello.

“Che compiti hai? Roba che ci si sbriga o pomeriggio d’inferno?”.

“Ecco, devo immaginare che casa nostra bruci…”.

“Cosa??? Abbiamo ancora 35 anni di mutuo, se va bene la finisci di pagare tu…”.

“Mah, il Prof. dice che c’è un sito molto trendy…”

“Ma come parla quel cialtrone?!?”.

“Dice che la gente ci mette le fotografie delle cose che salverebbe in caso d’incendio, se avesse quei due minutini prima della fuga…”.

“Col casino che c’è in camera tua… un mese ti ci vorrebbe…”.

“…le cose quelle a cui sei più legato, tipo una felpa, l’orsacchiotto di pezza…”.

“Ma lo sa che al giorno d’oggi l’orsacchiotto di pezza lo produce la Sony e costa 80 euro?”.

“Dice che tra le mie cose ci posso mettere anche il gatto…”.

“Sì, bravo, quello ti aspetta sicuro, prima di scappare…”.

Compiti strani, con esiti da guardare e riguardare.

E soprattutto, niente da correggere. Tutto giusto, niente da rifare.

CLICCA PER VEDERE LE FOTO

(L’edizione precedente)

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

E improvvisamente produrre il nuovo disco di Giua

Era la primavera del 2007 e stavo guardando svogliatamente un Tg3 del pomeriggio. L’ultimo servizio, in quota cultura, mostrava una cantautrice coi capelli rossi appollaiata sopra uno sgabello. Cantava e suonava, a margine di qualche festival tenuto chissàdove. Dopo meno di dieci minuti una mail di conferma confermava con fermezza l’avvenuto acquisto di un CD.

Ne sono passate di canzoni sotto i ponti delle chitarre, ma quelle di Giua continuo a cantarle a squarciagola. Perché sono oggetti preziosi, perfetti, prismi con tante facce, facce che riflettono sempre qualcosa di nuovo.

Poi Giua ho avuto la fortuna di conoscerla davvero. L’ho ascoltata ai piedi di vari palchi, ma anche nel corso di esibizioni postprandiali improvvise come urgenze, in osservanza al pervasivo demone della musica.

Un giorno la mia alunna Ilaria ha orecchiato una sua canzone nella mia macchina, durante un breve e casuale tragitto. Conseguenze: amore a prima vista e un messaggio spedito dalla Carnia alla Liguria, complice Facebook.

Un anno e mezzo dopo, Ilaria si “laureava” in terza media con una tesi sulla sua cantautrice preferita, eseguendone un brano dal vivo preparato via Skype, discettando di scuola genovese e di quante cose ci siano in Via del Campo.

Per tutto questo penso a Giua come ad una persona molto, molto generosa.

Oggi, però, è la cantautrice a chiedere a tutti un gesto di generosità e di fiducia, dopo aver lanciato un finanziamento collettivo per la realizzazione del suo terzo album.

Andando qui, tutto è spiegato con chiarezza.

Si tratta si una sorta di patto da stringere, con l’arte e con la bellezza.

Stringiamolo.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Senza categoria, Soletta, Stream of consciousness

Buona scuola a tutti

 

Che cosa c’è dentro le vostre teste, bambini?

Che cosa c’era dentro la mia?

Il sandalo sporcato nella polvere,

il passo leggero del lupo

il sasso che spacca la bottiglia

l’aria pulita nel cerchio delle pupille

nel declinare del sole

la figura di un biplano rampante,

che cosa c’era dentro la mia?

 

Sono qui, con voi, perché sia voce

la mia dentro le vostre

voce dimenticata

e l’assolata fantasia dei vostri anni

la forza che reclama da ogni radice il frutto

salvata intatta nel vostro guardare di uomini,

che cosa posso perché voi possiate,

che cosa posso io, a voi che tutto potete

a voi che guardate le cose che vi daranno lo sguardo

che cosa posso, bambini?

 

Pierluigi Cappello

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness

Italy in a day (è un giorno in Italia, anche questo, in un parcheggio in cima al mondo…)

 

Cara 3ª C,

ormai ex 3ª C, ed è già quasi ora di farvi l’inboccaallupo per quando diventerete 1ª qualcheccosa, sparsi qua e là tra le scuole superiori. Ma non oggi, oggi guardo indietro e vi chiedo se vi ricordate di quel giorno, era il 26 ottobre 2013, in cui siamo usciti dall’aula per girare quei due piccoli video. Vi ricordate?

Nel primo, uno di voi se ne stava seduto sul banco per scrivere un tema, con penna, astuccio e vocabolario. Soltanto che il banco l’avevamo piazzato in mezzo al cortile, e subito cominciava una partita di calcio che di quell’oggetto se ne fregava, faceva finta che non ci fosse. Chi scriveva guardava nel vuoto, come chi pensa profondo, e mordeva il tappo. Gli altri stoppavano e crossavano, passavano, tiravano e paravano. Contemporaneamente.

Per girare il secondo ci eravamo spostati sulla Gomba, il punto panoramico di Forni Avoltri, da dove la scuola diventa piccola piccola, come tutto il resto, e soltanto il fiume sembra paradossalmente diventare più grande, mostrando con chiarezza il suo fare a fette il paese. Lassù prima guardavate in camera, sorridenti e un po’ misteriosi, poi facevate un urlo potente affacciati sul vuoto, in direzione delle case. Una parola sola dicevate al mondo, e non era nemmeno importante che fosse quella, la parola, il bello stava tutto nel fatto di dirla. Il bello stava negli altri paesani che lì sotto l’avrebbero sentita, chiedendosi a quale nuovo gioco stessimo giocando in quella mattina di ottobre.

Oggi a Venezia il regista Gabriele Salvatores, quello che doveva mettere insieme i pezzi, ha presentato il suo lavoro. Pezzi ne ha raccolti 44.000.

Voi non ci siete, ve lo posso assicurare anche se non ho visto il film. Siete minorenni, e se avessero scelto le vostre facce mi avrebbero chiesto le autorizzazioni delle famiglie, quelle che si chiamano “liberatorie”. Non l’hanno fatto, anche se per tutta l’estate ho sognato di rispondere al telefonino e dire “Ah, ciao Gabriele, certo, ok, vedrò cosa posso fare…”.

Non credo non siate piaciuti a Salvatores, nel trailer ci sono scene nemmeno troppo diverse e vi confesso che nelle “situazioni” che abbiamo rappresentato c’avevo infilato qualche piccola citazione dei suoi film… (per esempio, lui una volta s’è inventato una partita a pallone nel deserto che un po’ somigliava al nostro tema calcistico…).

Piuttosto la qualità delle immagini non era all’altezza, i nostri mezzi erano quello che erano e il sottoscritto valeva come mezzo cameraman.

È andata così, però io di quel giorno ho un bellissimo ricordo e quei due “filmati” li guarderò quando mi mancherete un bel po’, forse ma forse.

 

Il 27 settembre Italy in a day andrà in onda su Rai3. Io sarò davanti alla Tv, non si sa mai. Magari un frammentino senza facce, un fotogramma del paese visto dall’alto, il sonoro del vostro urlo… Insomma, e se…

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Piccola posta, Res cogitans, Soletta

Caro Guido Baldoni

 

Caro Guido Baldoni,

il primo giorno di settembre dell’anno 2004-2005 è iniziato nella mia piccola scuola con le parole di tuo padre. Le sue “Disposizioni per un saluto” hanno colpito moltissimo i miei alunni di 12, 13, 14 anni. Avevano tutte le caratteristiche per rimanere impresse in quella tipologia di lettore.

Prima di tutto finivano con un “Ma fate voi, cazzo mi frega”. Musica per quelle orecchie.

Poi trattavano di balli, alcoolici e sveltine.

Soprattutto, però, esplodevano di vita e di libertà.

Un funerale tutto da ridere: roba mai vista.

Le parole di Enzo, i suoi reportage, sono entrati in classe tante altre volte, da allora, e mi hanno aiutato tantissimo nella mission impossible di raccontare questo mondaccio andando oltre l’elencazione di tropici e fiumi, capitali e regimi. Mettevano al centro prima di tutto le persone e le loro storie. Erano perfetti, quindi.

Confesso così di essermi rattristato nel veder scivolare questo decimo anniversario lungo una china così poco baldoniana.

Non mi permetto nemmeno di sfiorare il dolore tuo e della tua famiglia, capitolo aperto e destinato a rimanere tale, né tantomeno di muoverti alcun rilievo (non ne ho motivo), ma ti prego di seguirmi.

C’è stato un tuo scontro con Christian Rocca, uno di quelli come ce ne sono tanti. È andato com’è andato: tu l’hai criticato, lui t’ha messo alla porta. Le vostre posizioni sono con tutta evidenza molto poco conciliabili. Rocca ti ha intimato di “smammare”, così come accade spessissimo su Twitter. Ti ha chiamato “Troll”, termine anch’esso quasi abusato in epoca di grillinismo.

Escludo che tu ritenga di godere di una posizione privilegiata in nome della tragedia che hai vissuto. Certo, la vita ti ha posto tuo malgrado in un punto di osservazione privilegiato su certe faccende, e pensi giustamente di avere molto da dire. Ma quando ci si scontra dialetticamente tu puoi dire “troll”, “incompetente”, “cialtrone” e “in malafede” esattamente come quegli epiteti ti possono piovere addosso in quanto Guido e basta, giovane italiano che si indigna e lotta con le sue idee per un mondo migliore.

Il fatto è che il tuo litigio con Rocca ha fatto venir giù un muro e le schifezze che nascondeva alle sue spalle.

Rocca è uno che ha incrociato la penna con un sacco di colleghi, li ha criticati, sfidati e sfottuti. Rocca – in questo andazzo tutto italiano che immagino facesse schifo a tuo padre – “indossa una maglia” (lanciato da Giuliano Ferrara, già giornalista al “Foglio”, da sempre irremovibile filoisraeliano, in forza al “Sole24ore”). Sicuro che chi ti ha difeso non l’abbia fatto anche per approfittare del passo falso di un nemico storico? Sicuro che tutti quelli che han cominciato a seguirti e ti hanno espresso la loro solidarietà in queste ore avessero e abbiano a cuore la memoria di tuo padre e la nobile difesa di suo figlio? Io ho dei dubbi. Mi piacerebbe crederci, ma leggendo tweet e post rimango perplesso.

Stessa cosa con Guia Soncini. Dal suo profilo Twitter molla frustate a destra e a manca, fa girare ogni giorno vagonate di coglioni, fa ribollire la bile di attori e cantanti, giornalisti e uomini politici. Il mondo dei cinguettii funziona anche così, e – forse lo ammetterai anche tu – ci piace anche per questo.

Se leggi il modo in cui è stata attaccata, ti accorgerai di come tantissimi si sono “presi la rivincita” approfittando del tuo legittimo litigare con lei di ieri. In tanti, feroci. Famosi e non. Non sono arrivati. Erano già lì, stavano aspettando.

Davvero non me ne frega niente di chi avesse ragione sul pezzo di Zakaria, dico soltanto che forse tuo padre (qui mi tremano un po’ le parole che sto digitando, pensando a chi sia il loro destinatario) vi avrebbe guardato scazzottarvi di geopolitica, avrebbe fatto il tifo per te (perché sei tu e per le idee che aveva) e alla fine vi avrebbe offerto una birra. Ti avrebbe sussurrato all’orecchio “Quel Rocca con capisce un cazzo…”, ma basta, punto… Di tutto l’odio e di tutta la rabbia dei tuoi “difensori”, a lui “cazzo gli frega?”.  

E se avesse visto un tweet come questo… 

 

Sarebbe diventato subito rocchiano di ferro, Enzo. Seduto comodo comodo dalla parte del torto. Perché nel pandemonio di ieri è successo anche quello che ha descritto bene Luca Sofri in questo breve post, con un azzeccato esempio finale.

(A proposito di cinguettii, c’hai pensato anche tu, vero, a che strepitoso utente di Twitter sarebbe stato?).

Sono sicuro che oggi, a margine di questa querelle che finirà presto nel dimenticatoio, ci sarà stato per te il tempo di “musiche allegre, violini, sax e fisarmoniche”. Scusami quindi per i minuti che ti ho rubato, e per essermi permesso di parlare di tuo padre, che ho conosciuto ahimè soltanto nelle pagine dei giornali.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Senza categoria, Soletta, Stream of consciousness

Zeza e Giorgia

Mica per buttarla in politica, ché non ha senso.

Svegliarmi ieri mattina, però, e scoprire da Facebook come due vecchi frequentatori delle mie classi (“diplomati” a Scuolamagia tra il 2007 e il 2008) hanno percorso le strade del loro paese nel giorno topico della sagra – storia e radici, tradizioni e gastronomia – mi ha messo proprio di buonumore.

L’ironia è sicuramente un tratto distintivo nella personalità dei due giovini, che già ai tempi delle Medie nelle ore di teatro gigioneggiavano spavaldi, ma non posso non pensare come il loro rimanga un piccolo paese di provincia, dentro una nazione che si spaventa e traballa perché qualcuno mette un tanga e un boa di struzzo attorno alle sue statue più mascoline e virili.

Ignoro se si trattasse per loro di saldare il debito di una scommessa, se fosse stato indetto (dubito) qualche concorso per maschere o gara di camuffamento, se abbiano semplicemente voluto giocare un gioco nuovo. Non importa, quello che importa è che: belli, belli, belli!

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness

Ho scritto a Scarlett Johansson

 

Cara Scarlett Johansson,

qualche giorno fa ho finito il romanzo di Grégoire Delacourt che ti ha fatta molto arrabbiare, o forse ha fatto molto arrabbiare i tuoi avvocati e coloro che si occupano della tua immagine.

La causa intentata verso l’editore francese del libro si è conclusa in tuo favore, nonostante la cifra del risarcimento che ti verrà corrisposto sia decisamente ridicola: 2.500 euro. Non ti accuso certo di aver voluto monetizzare la faccenda, lungi da me, e ti credo invece affezionata alla sottostante controversa questione di principio. Uno scrittore ha preso la tua vita, non la mia, e l’ha fatta diventare protagonista di una storia che poi prende certe sue affascinanti e autonome strade.

Io non ti conosco particolarmente bene, e i film in cui ti ho vista recitare si contano su una zampa di gallina. In Lost in Translation mi avevi colpito moltissimo, ma senza nulla voler togliere al tuo talento me l’ero spiegato più con la magia soffusa messa in piedi dalla regista e dal direttore della fotografia, con lo zampino della stessa Tokyo. A volte sei spuntata nelle chiacchiere serie e meno serie che si fanno a scuola. Mi è capitato di citarti in quanto donna ebrea, per allontanare dalle menti degli alunni qualche immagine datata e soprattutto stereotipata.

Per i ragazzini di oggi sei soprattutto l’emblema della bellezza, il paradigma della “diva”. Mica per niente l’autore di La prima cosa che guardo ha scelto te e non un’altra per il suo esperimento letterario.

Il fatto è che il romanzo gli è uscito davvero carino. Dentro ci sei tu, ma ci sono anche alcuni snodi di una dolcezza sfacciata, ci sono un sacco di dolori taglienti che si spingono molto oltre la problematica dell’ “essere/somigliare a Scarlett Johansonn”. Ci sono tematiche, nel libro, davanti alle quali anche tu, che sei tu, passi in secondo piano. C’è anche molta ironia e c’è tra i capitoli, a cucirli insieme, un’aria fresca e leggera. Leggera come l’allusione del titolo, chiaramente riferito ad una dote tua diciamo… non proprio spirituale. Una lunga scena di sesso accompagna il lettore per molte pagine verso il finale, ma sembra uscita dal genio di Jean Luc Godard: accadono molte cose su quel talamo, ma hanno più a che fare con la storia dell’arte, della letteratura e del cinema.

Ecco, arrivo al motivo di questa lettera.

Incassa i 2.500 euro. La legge è legge. Voi Star in genere devolvete in beneficienza i guadagni delle cause vinte e tu sarai impeccabile anche in questo. Poi, però: telefona a Delacourt e chiedigli di trasformare il suo romanzo nella sceneggiatura di un film. Una pellicola che altrimenti sarebbe irrealizzabile: dove la trovi un’attrice che impersoni Scarlett Johansson senza esserlo? Impossibile, finirebbe come coi i film sul ciclismo, con attori che nonostante le diete mai e poi mai avranno il fisico asciutto e spigoloso degli assi delle due ruote a pedali.

Tu, invece, saresti perfetta. Il lungometraggio risulterebbe raffinato, ma nel contempo sufficientemente pop.

Insomma, un trionfo al botteghino.

Senza contare – scusami se è poco – che ti leveresti di torno quella fastidiosa patina d’antipatia che unge le celebrità troppo permalose, trasformandola nel suo esatto contrario.

 

«Mia madre diceva che ero una neonata splendida. Poi una bambina incantevole. Il sindaco voleva creare un concorso di Miss solo per me. Una bambina incantevole. La cosa ha causato dei fastidi con il mio patrigno. Faccende sgradevoli. Che ti fanno venir voglia di andartene. Come Jean Seberg nella sua automobile. Poi mia madre ha smesso di trovarmi bella. Ha smesso di parlarmi. Non so che cosa ne sia stato di lei. Ho vissuto con mia zia. Setta anni fa il mondo ha scoperto il mio viso in Lost in Translation. Dal giorno in cui è uscito, il 29 agosto 2003, odio la mia faccia. La odio ogni minuto, ogni secondo. Tutte le volte che una ragazza mi guarda chiedendosi cos’ho io più di lei. Ogni volta che un tizio mi fissa e io mi domando se mi abborderà, mi toccherà, tirerà fuori un coltello, un taglierino, pretenderà un pompino o somplicemente mi chiederà un autografo. Forse solo un caffè. Soltanto un caffè. Ma non succede mai. Non è me che guarda. Non è me che reputa bella. Non sono io.

Il mio corpo è la mia prigione. Non ne uscirò mai da viva.»

 

Cara Scarlett,

nella speranza che tu non faccia causa anche a me (per così poco…), ti saluto e ti auguro tutto il bene possibile.

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Tre anni chiusi in una mano

 

A metà pomeriggio (R) scrive uno status (Solo adesso mi sono accorta che il tempo è passato troppo velocemente! Vorrei tornare indietro! È stato bellissimo…) e tagga amici come li tirasse per la maglia. OOOOOHHHHHH.

È il giorno dopo.

L’esame è finito.

Ventiquattro ore e l’effetto è quello di un portone che si è chiuso alle tue spalle.

Ha fatto SBAM, sbam forte, e tu non hai potuto far niente per fermarlo. Non sei rimasta chiusa dentro, sei rimasta chiusa fuori.

È il giorno dopo e io quella sensazione, provandola ogni anno, la conosco bene. Per (R) probabilmente è la prima volta.

In quel luogo hai riso, ti sei scompisciata, hai pianto, hai sognato, hai aiutato e sei stata aiutata. Hai pronunciato nomi, certi li hai accorciati, altri li hai storpiati, alcuni li hai perfino inventati.

Hai letto hai scritto hai studiato: spesso le cose che hai imparato, però, non erano né dentro al leggere, né dentro allo scrivere, né tantomeno dentro lo studiare.

Hai mangiato e hai bevuto. Hai festeggiato e hai litigato. Hai mandato a fareinculo – sì, anche me – ma più spesso hai fatto la pace. Hai cantato, in quel luogo. Hai ballato. Hai bestemmiato, e a volte serviva pure quello.

Hai abbracciato, ti sei appoggiata sulle spalle degli altri, ti sei fatta portare in groppa. Hai disegnato sul banco e ti hanno disegnato e scritto sulle mani. Hanno inventato i selfie e tu ti sei fatta dei gran selfie.

Ti sei seduta sul banco finché ha cominciato quasi ad andarti stretto. Hai guardato gli altri attorno a te, mentre facevano pressappoco quel che facevi tu, e hai pensato che stessero cambiando, crescendo, “diventando grandi”. Hai pensato che magari stava capitando anche a te, anche se era più difficile da capire.

Oggi sei lì, e nelle orecchie sembra ci sia solo il suono di quel portone sbattuto.

Un rumore fortissimo con un’eco assurda.

Strano, perché in realtà quell’ingresso è minuscolo. L’ingresso minuscolo di una scuola minuscola. Minuscola quanto? Facciamo come la sorpresa di un ovetto Kinder. Ma dentro c’è tutto e da lì non lo sposta nessuno: le risate, i nomi, gli abbracci, le parolacce, le cose scritte sulla lavagna, i panini col salame e le scritte sul banco.

Le tue Medie son tutte lì dentro, e stan nel palmo della mano. La tua.

Stringila forte e vai, perché adesso è ora di andare.   

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Happy a Scuolamagia

 

Il piccolo festival del cinema indipendente di Forni Avoltri continua (e si conclude) con il cortometraggio delle ragazze: Irene, Nicole, Evelyn e Rebby.

Non chiamate “disimpegno” la cifra stilistica della loro opera. Vi assicuro che per raggiungere l’obiettivo di spassarsela al massimo ce l’hanno messa davvero tutta, sottoponendo il paese intero ad una sorta di invasione barbarica a colpi di balli, strilli e risate.

Buona visione.

(Piuttosto agghiacciante scoprire che nelle settimane di lavorazione analoga impresa di abbinare allegre movenze a quella musica così globalmente popolare era tentata anche da un gruppo di giovani adulti di Teheran, con la differenza che i malcapitati – in realtà molto più composti delle quattro tredicenni italiane – hanno scontato con il carcere la colpa di essersi dichiarati nientepopodimeno che felici).

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta

Cartolina di Forni Avoltri

 

Marcello, Cristiano e Thomas hanno raccontato con un video il loro paese, che è poi quello in cui ha sede Scuolamagia e in cui mi reco ogni giorno a bordo della mia aula, pardon… della mia auto. L’hanno realizzato a scuola e nel corso dei loro pomeriggi, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Ad unire tra loro le varie scene hanno voluto che fossero le biciclette.

Le ricadute sul Pil del comune in cui vivono saranno inevitabili e incalcolabili (incremento dei flussi turistici, commesse industriali…), ma i 3 giovani cineasti hanno agito in maniera del tutto disinteressata, concentrati cioè sulle consegne del profdisint e su null’altro.

Buona visione.

 

Domani tocca al secondo video prodotto dalla 3ª C, quello delle ragazze. Stay tuned.

Standard
Le storie di Scuolamagia

L’aula 206

206

Da un mese o poco più, ogni mattina alle 10.00 in punto, al suono della campanella della ricreazione, un gruppetto di miei alunni sparisce e va a rifugiarsi nell’aula 206.

Per entrare è necessaria una chiave, ma quelle 3, 4, 5 bestiacce (il numero dipende dai giorni…) hanno capito dove viene solitamente riposta e non faticano ad impadronirsene. In fondo, all’ingresso dell’aula 206 nessun cartello vieta o limita gli accessi.

Dovete sapere che la 206 è l’aula più piccola di Scuolamagia. È davvero minuscola, davvero poco più grande di uno sgabuzzino. Si tratta di un ambiente molto disordinato, ma nel complesso sostanzialmente comodo e a modo suo accogliente.

Confesso di non aver ancora capito il perché di quella scelta dei ragazzi. In fondo il luogo in cui lavoro è una delle poche realtà scolastiche in cui gli alunni possono ancora correre e rincorre, colpire un palo o una traversa, fare un canestro, impennare con la bicicletta. Perché allora stringersi tra quelle pareti anguste? Cosa mi nascondono?

Ecco il punto. Perché a me, almeno in quel quarto d’ora, l’ingresso nell’aula 206 è proibito. Proprio non posso, è evidente, anche se nessuno si è mai premurato di comunicarmelo. Quello spazio viene letteralmente requisito. Occhio: nulla di sconveniente o vietato o crudele o volgare avviene per opera di quei ragazzi in quell’angolo di mondo. Lo so e lo so perché un vetro – quello che separa l’aula 206 dal resto della scuola – mi fa vedere tutto quello che succede all’interno. Si ride, nella 206, si ride tanto. Si ascolta musica, in realtà sempre la stessa, nella 206. Si gioca a guardare il riflesso delle proprie boccacce, perché nell’aula 206 c’è anche uno specchio. Ci si appoggia al compagno o alla compagna di turno: l’aula è piccola e favorisce la confidenza dolce dei corpi. Si parla, nella 206, e qualche volta sembra pure seriamente, magari il giorno che si è soltanto in due e quel posticino sembra nato per starsi ad ascoltare reciprocamente.

Al termine di quella piccola frazione di tempo, l’aula viene abbandonata in condizioni sostanzialmente dignitose e ogni cosa rimane al suo posto. In una sola  occasione si è verificato il furto di alcune caramelle Mentos – 6 esemplari – ma le colpevoli hanno prontamente confessato.

Io non ho nulla contro questa autosegregazione volontaria. È evidente quanto sia innocua, benefica, rilassante. Forse mi pesa un po’ il fatto di non esserci, di dover “guardare da fuori”, di non essere contemplato in quello che nei ricordi futuri delle mie alunne e dei miei alunni rimarrà come uno dei più bei giochi fatti ai tempi della scuola.

Ma poi, sono così sicuro di non essere contemplato?

In fondo, l’aula 206 è pur sempre la mia macchina.

 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

To Be Continued 2014: anche noi listening point

TBC...2014flyer

Siamo il paese del #jobsact e della #spendingreview e domani la mia scuola, alias Scuolamagia, diventerà un #listeningpoint.

Dalle 8.00 alle 16.30 chiunque passerà per l’aula polifunzionale (no, non la chiamiamo così, siamo soliti dire “giù dai computer”, anche se ho sognato che quel luogo rimanesse impresso nelle menti come “AULA MAFALDA”, dopo aver commissionato ad alcuni alunni la realizzazione di una bimba argentina da appiccicare al legno della porta…) potrà cogliere nell’aria note provenienti da un sacco di altrove. Domani, infatti, si rinnova il piccolo grande miracolo di To Be Continued, 48 concerti incatenati l’uno all’altro, piccoli anelli di mezzora che andranno ad unire la mezzanotte del 23 marzo con quella del 24. Non ci sarà un ascolto “forzato” e in teoria nessuna lezione del lunedì si svolge solitamente in quegli spazi. Tuttavia, capita che ognuno ci passi più di una volta, per recuperare la riga da 60 cm o un barattolo di tempera blu, per stampare una cartina del Congo o per cercare il tappo di un evidenziatore volato giù dal piano superiore. Sarebbe bello che studenti e insegnanti si chiedessero anche solo se i suoni a quell’ora scendono da Mosca o risalgono dalla Nuova Zelanda, se piovono dall’Irlanda o riaffiorano dai cantoni svizzeri, oppure se lo strumento che sta sfornando note è un sitar, una balalaika o un asciugacapelli impiegato in modo strambo.

A fianco del computer ci sarà una stampa della locandina dell’iniziativa, un disegno strepitoso di Cosimo Miorelli. Ci fosse un prezzo del biglietto – ma ovviamente non c’è – la locandina da sola lo varrebbe.

Un punto di domanda: la primavera è cominciata da 3 giorni, i miei alunni vengono da una settimana in cui hanno giocato a calcio durante l’intervallo in canottiera e pantaloni corti e il meteo nella notte prevede nevicate oltre i 500 metri. Con le nuvole gonfie di neve, la banda già non molto larga di Scuolamagia si fa strettissima, un vero collo di bottiglia. Mannaggia.

(Eventualmente ci si stringerà tutti attorno al mio cell., ma non sarà la stessa cosa…)

 

Per ascoltare To Be Continued, nella giornata di lunedì 24:

CLICCA QUI

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

CV: Curriculum VitaLe

Sono un insegnante inadeguato davanti ai misteri (per me lo sono) della geografia fisica. Non ho mai capito perché piove, accetto da sempre come un dogma i benefici effetti della Corrente del Golfo, confonderò sempre la tundra con la taiga. Me la cavo un po’ meglio con la geografia antropica, pur rifuggendo il nozionismo capitalista (nel senso: la sai la capitale del Turkmenistan?). Nutro invece una curiosa ignoranza nei confronti della geografia economica, che mi porta a compiere esperimenti ai danni dei miei cuccioli.

Parlo quindi di crescita e sviluppo, PIGS & BRICS, terziarioavanzato e outsourcing davanti a occhi che un po’ rimpiangono gli affluenti del Po e un po’ ci si affogherebbero volentieri.

Qualche giorno fa ho deciso che tutti, dalla prima alla terza, avrebbero dovuto inviarmi il loro CV. Ho creato un bando (5 posti all’interno di un campo scuola per bambini londinesi in Carnia, 4 settimane intensive per 3000 euro, astenersi perditempo) e ho raccolto 17 buste (il quaderno, si sa, è superato) su cui qualcuno ha disegnato la ceralacca e qualcuno ha applicato davvero (!!!!) la ceralacca.

Mi sono quindi seduto alla scrivania e ho vagliato, selezionato e scelto.

Come sempre mi sono sentito surclassato in creatività, e poche sensazioni sono più appaganti di questa.

Evelyn, vai a capire se si trattasse di sbaglio suo, del programma di videoscrittura o di genio purissimo, ha scritto a fianco della sua foto, sotto la sigla CV: “Curriculum VitaLe”. Spieghiamole, se siam capaci, che un documento del genere non debba essere anche impregnato di vitalità.

Marco ha indicato, in una specifica sezione dedicata alle attività sportive, un 3° posto in una gara di “corsa coi sacchi”. Ottime credenziali.

Irene si è detta già cameriera in pizzeria, ma in una pizzeria di Boston: conoscenza dell’inglese pertanto ottima.

Micael ha millantato, paroparo, la laurea in scienze dell’educazione della madre.

Manuel ha raccontato di essere passato dal lavaggio dei piatti al cabaret all’interno dello stesso albergo, grazie a doti comiche innate.

Cristiano ha vinto le Olimpiadi di Torino, Martina ha trionfato a Wimbledon, nel 2011: i bimbi di sua Maestà la Regina apprezzeranno di sicuro.

Oleg ha redatto il suo CV a mano su un foglio a quadretti, ma Oleg è uno che “giustifica” meglio di Word.

Francesca ha in saccoccia un Master, e la passione sfrenata per il canto.

Thomas dichiara di amare la storia antica e la chitarra elettrica.

Carlotta è stata l’unica a dichiararsi patentata; nel suo passato anche un periodo da “ragazza alla pari” presso i “signori Smith”, a Londra.

Yuma ha infilato nel suo curriculum la sua (vera) passione per i cavalli, e forse non le sarà troppo d’aiuto la conoscenza dell’argentino.

Nicole ha fatto la gelataia a Riccione e la baby sitter a Reggio Emilia; in seguito ha scoperto il mondo della grafica.

Davide conosce poco l’inglese (dice proprio così: “poca conoscenza”), ma ha fatto il bagnino in quel di Bari.

Rebecca ha lavorato in un circo (mansione: “gonfiatrice di palloncini”) e rimanda al suo sito http://barbonimangiatidaunlama.com. A distanza di settimane continua a vantarsi per la sua “innata capacità di usare Paint”. Pensa se ci si fosse pure applicata, quel palloncino gonfiato.

Gabriele è l’unico ad aver contemplato l’esistenza di una moglie e di un figlio a carico, sperando che i campeggiatori britannici si mettano one hand on the heart.

Quello di Marcello più che un curriculum è una confessione: “mi piace mangiare, mi piacciono i film d’azione, ho un cane Labrador”. Dice anche, però: “Aiuto le persone che hanno bisogno in qualsiasi momento”. Non posso che confermare, il ragazzo non mente.

 

(Tocca pure raccontare – dovere di cronaca – della personcina che, svolte brillantemente le proprie consegne domestiche, ha dedicato un pensiero al suo prof., chiedendogli se avesse avuto altre esperienze d’insegnamento, al di fuori di quelle pluriennali a Scuolamagia… Incassato il no un po’ imbarazzato del suo insegnante, ha commentato, con un occhio da angioletto e uno da creatura del demonio: “ma quindi… il tuo CV sta tutto in un post-it…”)

Standard
Imago, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Letteratura leggera

Capita spesso, ormai. Chiudere il librino e riporlo sotto il lume, prima della nanna, pensando “bah, tutto qui? E Einaudi (o Feltrinelli, o Bompiani, o Sellerio…) si è ridotta a pubblicare ‘sti romazetti sciapi? Facevo meglio a leggere qualcosa su internet…”.

Perché davvero il divario tra ciò che se ne sta inscatolato sotto nobili insegne editoriali, avvolto da altisonanti fascette rigorosamente gialle, prefato da autorevoli padrini letterari e ciò che nasce su un banale foglio di Word per essere copiincollato su una bacheca di WordPress e reso pubblico dopo una mezza rilettura al volo… si sta assottigliando.

L’ho constatato anche stamattina alle 5:30, mezzoretta prima di partire per il lavoro, dopo essermi imbattuto in un nuovo fulminante post di Enrica.

Io Enrica non la conosco. Io mi relaziono soltanto con il personaggio del suo blog, i cui destini ho mille motivi di pensare siano aderentissimi a quelli dell’autrice, ma non è questo il punto, perché le riflessioni che la verità vi spiego sull’amore mi regala, e lo fa spesso, diventano immediatamente mie. Esattamente come quelle scovate dentro ai libri che – al momento di riporli sul comodino – ti fanno dire “apperò” al posto di “bah, tutto qui?”.

Prima o poi l’amore arriva…, recita il sottititolo del blog, e già senti aria di famiglia, e ti viene in mente un vecchio librino di fantasiose poesie, quand’eri un adolescente o poco più. Soltanto che l’amore… ecco… capita sia un filino privo di scrupoli, succede che non ti guardi proprio dritto dritto negli occhi e proceda – mettiamola così – per vie tra(per)verse. Nasce da un dolore grande, il blog con i caratteri più grandi (e siano benedetti dal dio degl’orbi!) del Web. Nasce dalla rabbia, dal rancore e da mille cocci di vita infranta. Ha voglia di rivincita, però, e di aggrapparsi all’inventario infinito delle cose belle: un vecchio film, una canzone, il disegno di un bambino, un gioco di parole, un gioco di parolacce. E ai figli, si aggrappa. E anche qui si potrebbe divagare sulle mamme nella blogosfera, nel giorno in cui mi scopro anch’io gelosissimo del primo amore di un’altra bambina virtuale ma non troppo, l’Alice che porto in classe in fotocopia per la gioia dei miei alunni…

Il blog di Enrica mette nere su bianco, letteralmente, un sacco di faccende terribilmente serie, e diresti che ti fa piangere se contemporaneamente non ti facesse anche molto ridere; quindi ti disorienti e alla fine ti vien da dirle solamente grazie, come diresti a uno di quelli che per strada ti vengono incontro con un cartello di cartone e una scritta senza senso: free hugs.

No, non ho scritto che i blog sono meglio dei libri. Anche perché ho il sospetto di aver pescato i libri sbagliati, ultimamente. Però mi piace chiamare questa piccola miniera di storie reperibili in rete – basta un po’ di fiuto, e tanta santa pazienza: “letteratura leggera”. Proprio come la musica con quell’aggettivo lì.

È tutta letteratura leggera – si potrebbe dire parafrasando quello… – ma come vedi la dobbiamo leggere.  È tutta letteratura leggera ma la dobbiamo imparare.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

A day

Era finito il gomasio, e il gomasio dalle mie parti lo vendono soltanto lì.

Così stamattina sono entrato come faccio sempre e sempre con quell’unico scopo, ma in quel negozio non era un sabato come gli altri. Era l’ultimo. Il foglio appeso al vetro (lunedì non riapriamo) parlava chiaro, ma meno delle facce. Non solo quelle delle lavoratrici, tutte donne, i volti tirati e gli occhi lucidi. Anche quella della signora più affezionata ma anche più ignara di me, passata di lì a fare scorta di farro e yogurt biologici. Le veniva da piangere e chiedeva del domani. La sua interlocutrice era rassicurante e relativizzava in prima persona (“io per fortuna ho mio marito…”), ma lasciava trapelare un salto nel vuoto per colleghe e colleghi.

Con i miei alunni ho scelto di partecipare a Italy in a day. Siamo saliti sul punto panoramico che domina il paese di Scuolamagia e abbiamo fatto – e ripreso – un urlo. Prima avevamo filmato con il tablet una partita di calcio con in mezzo al campo una ragazza che scriveva un tema, con tanto di foglio di protocollo e Zingarelli d’ordinanza. Non ci sceglieranno mai, Salvatores si coprirà gli occhi con la mano, ma è stato divertente.

La scena giusta per raccontare il paese, però, era senz’altro quella che ho visto entrando in quel negozio, tra gli scaffali semivuoti e quella gente ferita. Prima di recuperare 3 barattoli di gomasio e venire a scrivere questo post.

Standard
Imago, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans

Trecento madonne in fondo al mare

mia-migrante

Non c’è il mare nella foto che non riesco a fare a meno di guardare. Il mare è delle balene, il mare è dei delfini, il mare è un contorno, è solo una cornice. I ragazzi a scuola non hanno neanche voglia di colorarlo, nelle cartine sui quaderni. Il mare non si addice certo alla ragazza della foto. È una ragazza di terra, di sabbia, di roccia, di prato. Ma non è nemmeno una creatura da desktop, il (non)luogo dove l’ho piazzata io da luglio, da quando è finita nell’obbiettivo di un reporter di stanza a Malta, inviato a raccontare gli sbarchi di eritrei e somali, e respingimenti ancora più violenti dei nostri. Ho voluto mi facesse da proMemoria, volevo che la mia giornata cominciasse dopo aver consultato i suoi occhi. Ogni tanto mi ha fatto tornare al secolo scorso e al mio  primo pc, un quattroottosei di seconda mano, e al suo sfondo affidato dal precedente proprietario a una seppur castissima Cindy Crawford in bianco e nero. Proprio un bel salto.

Oggi la ragazza ed io ci guardiamo e siamo più muti del solito. Il file con gli esercizi per domani, il logo del browser, l’ultima musica ancora da ascoltare: ho sempre avuto cura di spostare le icone sull’arancione dello sfondo, non violando mai la perfezione delle labbra, il viso disegnato col compasso e lo spazio di quegl’occhi traboccanti di pianto.

L’ho chiamata ragazza, penso che avrei dovuto scrivere donna. Ho scritto donna e mi convinco di poterla chiamare madonna. Una madonna contemporanea, senza bambino. 90 madonne così bruciate o affogate in mare, il mare senza colore dei miei alunni. 250 madonne così ancora disperse: leggi morte, coglione, ché il mare non è mica roba nostra, il mare è delle balene e dei delfini.

Oggi tutti parleranno, tutti diranno qualcosa. Chi regalerà un pensiero, chi scriverà un articolo, chi diramerà una nota, chi si affiderà ad un tweet. La Lega vomiterà la sua pochezza, Grillo dirà di chi è la colpa. Sarà scosso anche Berlusconi: vedrà la sua afflizione nella giusta proporzione, e scaccerà il cagnetto all’altro lato del divano. Telefonerà il Papa, porterà sincero conforto. Penserà anche lui che con trecento madonne morte in fondo al mare il numero da chiamare sarebbe un altro, ma che quel numero selezionato è inesistente.

Standard