Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Quando eravamo giovinetti

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Prima di tuffarci nei meandri del fiume della Storia, spesso a inizio anno a Scuolamagia ci dedichiamo alla storia minuscola delle pareti e dei pavimenti che ci ospitano. Come piccoli Champollion decifriamo incisioni sul legno di certe finestre, datiamo antichissimi “W Inter”, ci chiediamo il perché di misteriose scritte avvitate alle porte: “App. tecniche maschili”, saranno mica parenti delle app sul display dei nostri cell.? Complici vicende davvero notevoli legate alla nascita dell’edificio oggetto di studio, l’attività capita che appassioni un bel po’, specie nelle sue fasi dinamiche di “caccia all’indizio” storico, su e giù per le scale, chi qua e chi là e che vinca il migliore.

Le ricerche odierne hanno portato al rinvenimento di alcuni interessanti documenti cartacei. Un foglietto volante arancione, perso dentro un vecchio registro, non era altro che il decreto di un’espulsione. Il 29 gennaio 1969 la Prof. Taldeitali presenta a carico del giovinetto (avete letto bene: GIOVINETTO) Tizio Caio il seguente rapporto disciplinare: scarsa applicazione (ancora queste app… n.d.r.) e contegno scorretto. Va da sé: c’era stato il ’68 anche nelle scuolette di montagna. Quella specie di multa, in copia, doveva essere esposta all’albo ed inserita nella cartella personale dell’alunno, che avrebbe avuto la fedina penale sporca alla faccia del garante della privacy.

Altro documento ingiallito, sfogliato in una nuvola di polvere: una raccolta di temi risalenti all’anno scolastico ‘73-’74. Tracce brevi, piuttosto sul vago. Una mi colpisce. Parla di cosa trovi profondamente ingiusto. Da quella e da altre tracce sparse tra i fogli di protocollo deduco un profilo di insegnante sinistrorso, illuminato e forte dei suoi valori. Di altra estrazione l’autore del tema, a occhio. Il suo pensiero, esposto con elementare efficacia, in soldoni: chi ammazza una persona dev’essere condannato all’ergastolo; chi ne ammazza due merita la pena di morte. In proporzione diretta al numero delle vittime, la pena capitale vedrà incrementare l’atrocità della sua esecuzione. Immagino l’inchiostro rosso del collega bollire nella plastica della Bic. Proseguendo, altra grave ingiustizia: la fame nel mondo. E come dare torto al giovinetto? Che continua: mi chiedo perché si siano spesi tutti quei soldi per il referendum; uno solo di quei miliardi sarebbe bastato per aiutare tutti gli uomini affamati ed assetati del pianeta. Spietato, come si evince dall’immagine, il commento dell’insegnante.

Una chiosa in rosso appare anche a margine della chiusa. “I politici inoltre sanno soltanto parlare, ma non agire”. Il Prof., in corsivo nervoso: “da approfondire…”.

Si può star sicuri che hanno approfondito, i politici.

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La fantasia al palo

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Durante le vacanze le loro fantasie mi sono mancate un sacco.

Ed è come se si inaridisse anche la mia, in assenza delle loro.

Sono stato un’ora davanti alla pagina vuota di word, prima di ideare l’ultimo “tema” da svolgere a casa. Ho appallottolato decine di idee prima di ripiegare su un banale giochino suggeritomi direttamente dall’oggetto su cui stavo picchiando le dita.

Prendete 15 lettere dell’alfabeto, in stampatello maiuscolo, e ditemi cosa ci vedete dentro. Anzi, oltre. Partite da lì e tornate il più tardi possibile. Buon lavoro.

E sono andati.

E hanno visto.

Mont(A)gne innevate e farfalle (B) di profilo, posate su un ramo di ciliegio.

Chiavi a pappagallo (F) del papà, mani abbraccianti di mamma (C).

Facce di bambini con il termometro in bocca, indiani con frecce conficcate sulla faccia, topolini con la codina visti da dietro mentre scappano da un gatto: tutto in una semplice (Q).

Ali da angelo (W), fischietti da arbitro (P, ruotata di 90°).

Navi sul pelo dell’acqua (Z).

E altro, molto altro.

Compresa una (I) che – premessa: prof. non è la prima cosa che mi è venuta in mente – diventa un palo da lap dance.

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Bramare di bramire

 

Non il solito sabato sera.

Ce l’avete tutti il concetto di “non il solito sabato sera”, vero?

Il centro del vostro finesettimana quando non somiglia a nessun altro di quelli precedenti, è più unico che raro, irripetibile, grazie ad un incontro, grazie ad un’emozione, grazie a qualcosa che sembra accadere soltanto per regalarvi sorpresa e benessere.

Ecco, non ci siamo. Dovete aggiornarvi. Dovete aggiornare il concetto di “non il solito sabato sera”.

Sabato 21 settembre accadra di più, sabato 21 settembre accadrà di meglio.

I membri di una giovanissima associazione sportiva e naturalistica vi aspettano alle 17.00 in località Pierabech, a Forni Avoltri, per raggiungere in notturna l’oasi di Bordaglia. In notturna e in incognito, perché l’obiettivo è quello di ascoltare – meravigliosamente soltanto ascoltare – i bramiti dei cervi. Un gesto soltanto all’apparenza passivo, in realtà attivissimo, pieno forza e di rispetto. Una piccola innocente intrusione in un altrove riconciliante. Un modo per sentirsi ospiti e non padroni, attori che abbandonano le velleità da registi e si accontentano di recitare la parte più difficile: il silenzio.

 

È il caso di dirlo: accorrete silenziosi!

 

P.s.: l’associazione Trôis richiede un’iscrizione di 10 euro, a sostegno di future iniziative, raccomanda inoltre di dotarsi di una torcia e di eventuale binocolo. 

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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A volte ritornano

A Scuolamagia. Succede. A settembre e a ottobre di più. Che tornino. Appena possono. Quando la scuola nuova non è ancora cominciata o quando è chiusa per un santopatrono. Si guardano intorno. Cercano riferimenti nello spazio, mentre sono travolti da quelli nel tempo. Che riaffiorano, crudeli e taglienti. Vedono i nuovi – alle medie da due giorni – muoversi già padroni di tutto. Anche di ciò che era loro, soltanto ieri. Entrano quando vogliono, a Scuolamagia si può. Se ci sono io entrano anche in classe, si siedono per terra, sulla cattedra. Si appoggiano al muro. Protestano: “Ma ‘sto giochino che si vincon le Fonzies con noi non lo facevi…”. Vero, ma l’ho inventato l’altroieri, giuro. Mi giustifico ma arranco: avrei potuto inventarlo prima. Cala un velo di tristezza sottile mentre suona la ricreazione. “I migliori sono i ricordi brutti” – diceva Gassman in quel vecchio film. Quelli belli li pensi e ti accorgi che parlan di cose che non ci sono più. Come la tua vecchia scuola. Come la tua prima adolescenza, che non ha niente a che vedere con la seconda. Come i tuoi 11, 12, 13, 14 anni. Tornate presto, è mio il congedo per loro. Ma lo voglio davvero? Con tutto il male che fa? 

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I diari della bicicletta

«Prof., guarda lassù, quello è il Monte…»

«No, Marcello, oggi non sono il Prof., oggi sono il Capitano…».

Proprio così, un capitano che non sa la strada, che ignora i dislivelli, le pendenze, la quantità dei tornanti. Non conosce i nomi delle montagne e fatica a distinguere dall’alto i paesi che frequenta abitualmente. Però oggi gira così, in questo giro assurdo di tarda estate, nato per gioco, quasi per caso, da un dialogo via Skype.

Alle nove in punto il mio gregario mi aspetta già in sella ai piedi del Gigante. Dico gregario con grande rispetto, pari almeno all’ironia con cui mi sono definito capitano. Marcello non è uno sportivo in senso stretto, non indossa divise e non porta con sé tessere federali. Corre se c’è da correre, pedala se c’è da pedalare. Calcia per gioco, scia per divertimento. Deve muoversi, glielo impone l’istinto, e lo sa bene chi come me tra pochi giorni tornerà a fargli da carceriere tra le mura di un’aula.

La salita scivola nel bosco morbida e costante. La strada è stretta, il fondo liscio e curato. Il capitano procede composto, sa che va dosata ogni goccia di energia. Il rapporto è agile, la postura di sfinge dipinge traiettorie regolari nemiche di ogni zig zag. Non si alza mai sui pedali e sopporta stoicamente i malesseri del soprassella. Il gregario sale invece brillante e inquieto, tra una mezza impennata e un improvviso cambio di direzione per schivare un grillo. Ha quattordici anni, lo scudiero, e nonostante il parere contrario espresso dal suo superiore, decide di rompere il silenzio dell’ascesa con gli mp3 stivati nel suo cellulare. Mi sembra di bestemmiare quel paesaggio, penso allo sguardo di altri ciclisti puristi incrociati nell’ascesa, ma in fondo anche quelle canzoni han sostenuto questa piccola impresa. Laura Pausini, Ligabue, Il cielo d’Irlanda della Mannoia, i Beatles e una versione a me sconosciuta – e ne conosco tante – dell’Alleluja di Leonard Cohen.

Usciti dal bosco e dalle sue carezze d’ombra, la strada ci ha svelato il suo disegno. Un arabesco di tornanti tatuato sulla schiena verde della montagna. Una roba da sindrome di Stendhal, se non ci fosse il serio rischio di finire stesi dalla fatica. Quindi: testa bassa e pedalare.

Finisce l’asfalto, comincia lo sterrato. All’ansia di non farcela si somma quella di bucare. A scacciare i pensieri neri ci pensa Marcello, insegnandomi nomi di montagne e di versanti, indicandomi falchi e marmotte, lepri e uno stambecco maestoso che ci scruta da un metro sotto il cielo.  «Prof., guarda lassù…». Questa volta, però, a parlare sono io.

La meta di quest’avventura in bicicletta risponde al nome di “Panoramica delle Vette”. Lo sguardo, infatti, riesce ad abbracciare distanze colossali, orizzonti senza limiti. Scendo i sentieri della memoria, fino all’ultima volta davanti ad un’emozione così: in Cina, nel 2006, giocando a rincorrere con gli occhi la Grande Muraglia fin dove andava a perdersi, dentro nebbiose lontananze.

La discesa è insieme una faticaccia e una paura. Solo per me, però: il mio compagno di viaggio, annoiato dalla lentezza che gli ho imposto, battezza traiettorie insensate e appoggia il collo del piede sulla sella, la pianta sul manubrio. Gioca. Lo sgrido, vabbè, ma andiamo davvero piano. Mangiamo fragole di bosco e beviamo altri panorami. Planare sul primo luogo abitato dagli umani, ultima frazione sulla soglia della montagna, è un sapore variegato di gioia e tristezza. Ce l’abbiamo fatta, ma com’è insipido questo asfalto di “pianura”, e come sono già lontane quelle immagini così pure, che a filtrarle con Instagram ti sembra di sottoporre ad un bombardamento nucleare.

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I numeri del Barcellona (anche lasciando Messi e Neymar in panchina)

Stavo annaspando nella calura agostana. Il mouse era sudaticcio come le news su cui cliccavo. Poi all’improvviso ho guardato l’immagine di un calciatore di spalle. La notizia era quella del suo debutto nella formazione che l’ha acquistato a peso d’oro. A colpirmi, però, è stato il numero sulla maglia. Un undici particolare, strano, vagamente a sghimbescio, somigliante al profilo stilizzato di due montagne, o al muso appuntito di due cavalli. Non ho pensato “bello”, ma mi ha incuriosito come sanno fare tutte le cose un po’ fuori posto, e tutti i frutti del pensiero divergente. Sono quindi finito su Twitter, digitando le parole chiave “numeri” e “Barcellona”, ed ho trovato reazioni di marca italiana estremamente severe: quanto sono brutti, fanno schifo, che roba è? Fino ad un emblematico: li ha disegnati uno spastico?

Fuochino (…e figura di merda).

I numeri li ha disegnati Anna Vives, che non ha lesioni di nessun tipo al cervello ma è una giovane donna con la sindrome di Down. Dopo una prima esperienza lavorativa in un supermercato, ha deciso di dedicarsi con successo al disegno e alla grafica. Probabilmente nelle partite ufficiali (quello di ieri sera era “calcio d’estate…”) la squadra catalana tornerà a sfoggiare i numeri “tradizionali” pensati dalla Nike; tuttavia, l’idea del calciatore Iniesta rimane molto dolce e suggestiva. Come lui, anche altre star dello sport spagnolo, il motociclista Lorenzo e il cestista Gasol, hanno voluto regalare notorietà al lavoro di Anna. Perché di lavoro si tratta.

 

Nel prossimo anno scolastico mi sa che a Scuolamagia scriveremo con Anna.

 

(Il font Anna, comprensivo di numeri e segni di interpunzione, si può scaricare gratuitamente, ma sul sito è possibile effettuare una donazione…) 

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Ugo Riccarelli: nei suoi libri l’amore si faceva così

 

Allo stesso modo, quando fu nell’oscurità della stanza di Cafiero, stesa accanto a lui, le piacque perdersi nei suoi abbracci, lasciare che lui imparasse a conoscerla come un viaggiatore un Paese sconosciuto, così come per tanto tempo aveva immaginato che avrebbe fatto Sole alla ricerca di Oriente.

E a sua volta si fece vincere dalla curiosità di esplorare il continente che le stava accanto, e allora si stupì che sua madre avesse sempre raccontato l’amore tra un uomo e una donna come il tramestare d’animali che, quasi per conferma, l’Ulisse aveva poi esercitato nei confronti della Mena. E invece, mentre Cafiero per la prima volta entrava in lei, l’Annina gli si strinse contro e le parve di essere lei a possederlo, di essere un cielo così vasto da riuscire a tenere quella nuvola di carne tutta dentro il suo piccolo abbraccio, di portarselo dentro a conoscere luoghi che non avrebbe mai immaginato, e fuori di sé, di corsa e lentamente, in una camminata senza fine.

E il cielo sognò, più tardi, sfinita da quel viaggiare, e sognò anche le nuvole e l’Oriente, e l’acqua che risaliva i fiumi, e una notte piena di luce, e un treno che procedeva in retromarcia, e la Mena che seppelliva i propri vestiti, e lei che finalmente dormiva tranquilla sopra un nocciòlo.

Nei giorni seguenti, sola nella casa vicina alle mura, sentì questa tranquillità come qualcosa alla quale non avrebbe mai potuto rinunciare, qualcosa che era saldato col sangue a Cafiero, e quando si accorse di sentire ancora su di sé l’impronta del suo corpo capì che non avrebbe mai potuto rinunciare a quel peso, né per le chiacchiere del paese, né per il Prataio, né per il buon nome dei Bertorelli.

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori.

 

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La verità di Alice

Le avventure di "Alice in Newland".
 
No. Io non sono una bambina affettuosa.
Non nell’accezione che di solito si dà ai bambini affettuosi.
Se mi chiedi un bacino non te lo darò mai.
Neanche se sei mia madre, mio padre, mia nonna, la mia migliore amica. 
Neanche se sono mesi che non ci vediamo. 
Mai.
 

 

Questo post è stato pubblicato il giorno in cui a scuola cominciavano gli esami. Fuori tempo massimo, quindi, per entrare a far parte dell’Antologia dei miei alunni. Da qualche anno, infatti, ho smesso di affidarmi ad una raccolta ufficiale di testi letterari. Ho detto basta con quel gran calderone messo insieme da un arbitrio che non era il mio, in cui magari i curatori pensavan bene (maleee!!!) di ammazzare i brani con qualche domandina “Invalsi style”, per allenare i ragazzi alla comprensione di ciò che gli adulti desiderano con intransigenza essi comprendano.

Così, l’Antologia nasce giorno per giorno nelle mani degli alunni, attraverso fogli stampati o fotocopiati che si accomodano nelle bustine traparenti di un quaderno ad anelli o in quello che tecnicamente si chiama “portalistino” e viene via a pochi euro in qualsiasi cartoleria. Il numero esiguo di alunni non mi fa nemmeno sentire troppo in colpa per lo scialo – davvero minimo – di fotocopie.

Per rendere più gradevole l’oggetto, ogni tanto ci concediamo un foglio colorato o la stampa di una bella immagine; ognuno poi è libero di inserire disegni e di personalizzare la copertina.

Ma torniamo al post di cui sopra, tratto da un blog di cui ho già scritto e che “a volte ritorna” nell’Antologia di Scuolamagia. Senza che nessuno studente si sia mai lamentato, senza che nessun dodicenne maschio abbia mai sollevato sospetti di cicciopucciosità da ragazzine.

No, ad Alice si sono affezionati tutti, e chi rimane assente il giorno in cui leggiamo un post reclama quando torna la fotocopia mancante. Un gesto che viola e contraddice ogni statuto di vita studentesca. 

Il perché di questo successo?

Credo abbia a che fare con il fatto che quella bimba esiste davvero. E che quelle pagine trasudano verità. Tutta la verità, nient’altro che la verità. E tutto questo – com’è giusto – Alice non lo sa. 

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Aria che cambia aria

Aria è stata una delle mie prime alunne. Son passati dieci anni, ma sembra ieri. Era una ragazzina entusiasta e volitiva… No, fermo subito le parole astratte, sto parlando in “pagellese”, che in questi giorni – purtroppo – scatta di default. Proviamo così: era la prima ballerina nei miei spettacoli, costruiva gigantesche mummie con la carta igienica e la colla vinilica, portava a scuola – e mi convinceva a farceli rimanere! – gattini trovatelli con la tosse. Ecco, così la descrizione è più concreta e va decisamente meglio.

Una volta abbiamo litigato e sul suo quaderno, il giorno dopo, ho trovato al posto del tema domestico una frase: “Lei capisce sempre e solo quello che vuole”. Ripetuta 30 volte, il contrario di quello che una volta facevano fare i maestri e i prof. (“Ho dimenticato il libro a casa. Ho dimenticato il libro a casa, ho dimenti…”). In calce, tuttavia, c’era scritto anche “…però adesso basta litigare, ché domani è un altro giorno”. È fatta così, la ragazza.

Aria, con la sua calligrafia piena ci curve e tornanti, inseriva nei suoi quaderni riflessioni spiazzanti. Come lei stessa ricorda, non tutti i giorni erano ugualmente ispirati e buoni per la scrittura, ma quando capitava che lo fossero dalle righe nascevano pensieri difficili da dimenticare: “riuscirò a raggiungere i 18 anni?”.

Beh, c’è riuscita. E poi si è pure laureata. E poi? E poi – complice quest’Italia che lasciamo perdere… – ha deciso che il suo futuro andava almeno momentaneamente ricercato altrove. Da qualche settimana, infatti, Aria vive ad Ankara, e lavora nell’ambito di un progetto di volontariato. Ovviamente non conosce la lingua turca e i suoi colleghi, a quanto pare, non masticano granché l’inglese. Insomma, ci vuole un bel coraggio. E, di questi tempi, ci vuole anche un bel blog per raccontare tutto a chi è rimasto qui sotto questa mezzaluna senza stelle.

Manco a farlo apposta, appena atterrata sul suolo turco, il paese che la giovane ha scelto per trascorre il prossimo anno della sua vita s’è incendiato come un mucchietto di foglie secche approntate d’autunno da un metodico contadino.

Insomma, Aria ha cambiato aria, nonostante Aria non sia cambiata.

 

(Da oggi il blog Ariaditurchia lo trovate tra i link della Pozzanghera)

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On the road… to the school

Un vecchio classico dei giornali online, ormai, è la foto dei bambini che vanno a scuola. Cioè, quelli che “lo fanno strano”: alunni che guadano fiumi dopo che una piena si è portata via il ponte, zainetti sulla teleferica, scale di corda che si inerpicano sulle rocce, canotti e dorsi di elefante. Oggi scopro da “Repubblica” che c’hanno fatto pure un libro, su queste avventure on the road… to the school, e nel suo commento a quegli scatti Marco Lodoli mi ha dato pure l’idea per un tema da assegnare ai miei virgulti.

Innegabile che la questione abbia un suo fascino. Nonostante siano molto meno esotici e avventurosi, mi soffermo spesso sui tragitti casa-scuola di mia competenza. C’è C. che arriva in bici e comincia subito ad esercitarsi nelle sue piccole acrobazie da cortile: impennate e giochi di equilibrio che lui sostiene si debbano definire trick. Ci sono E. e M., fratello e sorella, che camminano a distanza. Non hanno litigato e il loro legame è fortissimo, ma quel viaggio funziona così. Tra i loro pensieri del mattino non c’è fratellanza. C’è O. che non ha strade davanti a sé. A separare casa sua dalla scuola sono un grande prato e una piccola ringhiera da scavalcare. C’è N. che arriva quasi ogni mattina scortata dal suo fedele cagnetto, il quale sembra concederle indulgente il permesso per quelle cinque ore di libera uscita. Ci sono T. e F., anche loro sangue del loro sangue, che arrivano e cercano subito il pallone, c’è R. che cammina piano, sempre pensierosa e mai spensierata, compie tragitti vagamente tortuosi, quasi a voler allungare quelle operazioni di sbarco a scuola. C’è M. che si siede sulla panchina del cortile e sembra avvolta in un guscio. C’è un’atra M. che cammina con le cuffiette: capita che ascolti P!nk o la lezione di geografia in podcast, e io sono felice perché le ho passato entrambe. C’è G., c’è Y. ,c’è L. e ci sono altre tre diverse M.: ognuna di queste iniziali ha la sua strada ed un suo modo di percorrerla verso la prima ora di lezione. Per ultimo ecco lo Scuolabus, ma quello è tutto un altro arrivare, con le sue regole e i suoi stilemi. Materia per una prossima puntata.

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La foto

Finché un giorno a Scuolamagia si catapultò un fotografo. Arrivò di notte, con un’auto astronave che non ostentava ricchezza, no, ma raccontava l’esigenza di raggiungere le cose in fretta e immortalarle, prima che svaniscano. Certe foto non aspettano, sembrava dirti quell’Audi parcheggiata davanti all’albergo. Io il fotografo l’ho incontrato in quella mattina di novembre mentre il campanile non aveva ancora battuto le sette. Un paio d’ore di sonno a quel professionista erano parse sufficienti, e si trattava di trovare il set giusto. Una minuscola scuola di montagna non la puoi mica fotografare all’interno, con il planisfero sulla parete, con la lavagna sullo sfondo. Ci siamo quindi ritrovati nei prati del paese, e io temevo ad ogni passo di aver invaso qualche proprietà privata. Lui, al contrario, era per mestiere incline a pensare che tutto appartenesse per diritto naturale alla sua macchina fotografica. Difficile spiegarlo a certi cani da guardia, però, mi diceva col sorriso sciorinando un’aneddotica da Indiana Jones.

Era entusiasta per la luce di quel giorno che stava nascendo. Una luce rarissima, lo confermavano anche gli specifici strumenti di misurazione, una luce da sfruttare il prima possibile. Poche ore più tardi, alle nove e mezza, per il fotografo sarebbe accaduto qualcosa di simile ad un dito che pigia su un interruttore. Una luce per tutti normale e benvenuta sarebbe stata per lui come un buio paralizzante, e addio foto di copertina. Bisognava fare presto e ingabbiare quel prodigio d’alta montagna.

Taccio i preparativi di quell’unico scatto, con i banchi e gli zaini e la lavagna portati a fatica nel prato indorato dall’autunno, sotto gli occhi dei boschi e delle vette. So di aver pensato che davanti agli alunni immortalati stava andando in scena una lezione unica e bellissima. Un lavoro, una passione, un’arte si mostravano ai loro occhi perfettamente fusi, compenetrati. Ed il livello dei tre ingredienti era altissimo. E quando ci sarebbe ricapitato!

L’uomo che aveva fotografato Capaci dall’alto a poche ore dalla strage ci diceva di sorridere, di guardare a sinistra piuttosto che in basso. Era simpatico, e sembravamo comunque interessargli, vai tu a capire il perché. Pochi anni dopo spezzava il cuore l’infinita fila di bare, a L’Aquila, in un’altra fotografia aerea, sulla prima pagina del “Corriere”, il giorno dopo i funerali. Rendeva davvero inutili le cronache e gli editoriali.

Scrivo oggi queste righe dopo essermi imbattuto casualmente in quest’enormità.

 

Sest

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La gita, il fuoco, la pioggia

Gita. Ci provano da una vita a rottamare la parola sostituendola con termini più pregni e altisonanti. “Visita”, “viaggio”, “d’istruzione”. Quella tien duro: Gita. Due sillabe che non si schiodano, sono piantate negli immaginari come due querce.

Gita. Domani. 5 giorni (!). Ci saranno un ostello ed un lago, un bel po’ di verde e 13 burfaldini da accudire. Chissà se si lasciano portare a correre prima dell’alba.

 

La Pozzanghera rimane aperta, continuate pure a farci ciaff ciaff a piedi nudi, e già che ci sono ci infilo questa perlina del mio “idolo” pop, a cui qualcuno deve aver detto che, se coverava questa canzone, mi sarei irrimediabilmente sciolto. 

 

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“Papà, a Scuolamagia ci sono 21 alunni”… “Dove l’hai letta sta cazzata?” … “Sull’Unità…”

 

Come dicevamo, Andrea Satta ha trascorso un paio di giorni in Friuli, ospite della rete di scuole Sbilf. In un baretto anonimo dove ci siamo fermati per un caffè, Andrea è rimasto incantato davanti ad una carta della regione che lo ospitava, una di quelle con le montagne sporgenti, con “i rilievi in rilievo”. Mentre il suo caffè si freddava, ha percorso con il dito valli e pianure, conche e litorali. Ha accarezzato i confini, di cui mi è parso – come dargli torto – particolarmente ghiotto. Il suo mi è sembrato un atto d’amore verso la geografia. Oggi ha scritto di questo suo viaggio – quello concreto o quello col dito? cambia qualcosa? – sull’Unità.

(L’articolo si può leggere nei commenti)

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Ah che bell’ò cafè pure a Scuolamagia ‘o sanno fa

Nel primo pomeriggio la porta di Scuolamagia si è riaperta. Il tempo di far entrare un piccolo drappello di studenti in incognito, ben oltre l’orario canonico, contro le regole che gli istituti scolastici si danno per schermarsi da intrusioni e risultare impermeabili una volta che è suonata l’ultima campanella. Sono entrati, quei cuccioli, come cani in chiesa, e a convocarli sono stato io. C’erano da discutere e chiarire alcune faccende rimaste in sospeso, questioni dolorose di rapporti umani ingarbugliati. Questioni che si intonavano ad un pomeriggio di pioggia come quello, e a quelle sedie a cerchio disposte con improvvisazione nell’atrio, solo per non rimanere a parlare in piedi, nella poca luce. Non sono essenziali a questo racconto le frasi pronunciate e i toni accorati, le spiegazioni,  le recriminazioni ed i fatti discussi. Qui conta quello che a un certo punto una voce di dodici anni ha gettato nel cesto delle parole pronunciate, con disarmante naturalezza, quella delle ovvietà e delle cose giuste da dire e fare nel momento giusto.

 

«Prof., faccio il caffè?»

 

«?»

 

Tu. Fai il caffè. Tu. Sai dov’è la moka. E come si accende il fornelletto elettrico. E le dosi giuste, sai. E stringere forte quell’oggetto metallico. Mi chiedi quanti cucchiaini di zucchero, tu, prima di versarmi e di versarti nella tazzina quel liquido scuro che sorseggiamo piano, insieme, per poi riprendere la discussione, per poi rituffarci nel problema che dobbiamo risolvere.

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C’è chi in fondo al suo cuore ha una pena

 

Le parole di Jannacci entrano a scuola senza bussare, senza bisogno di chiavi. Nemmeno di chiavi di lettura. Sono una lingua sconosciuta ma non straniera. Stralunate, surreali, divertenti, sono le parole di un nonno un po’ matto che sta dalla tua parte, che ti fa l’occhiolino e pure ti copre se hai combinato qualche guaio.

Forse le ho usate troppo poco, in classe, ecco, questo è il problema. Ma quando è accaduto non mi sono mai chiesto se stessi facendo la cosa giusta. Era evidente che .

Scuolamagia omaggio a Jannacci

(clicca per ascoltare)

 

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Nella tasca di un qualunque pomeriggio

Come ogni anno, a primavera, mi occupo di un breve corso di informatica rivolto ai bimbi della scuola primaria, i dirimpettai di Scuolamagia. I pargoli – soltanto 6, a causa di alcune assenze – mi aspettano vicino all’ingresso della loro aula. Per me si tratta di prelevarli ed accompagnarli in aula informatica. Li saluto, alcuni li conosco già, alcuni li ho solo intravisti in altre occasioni: sono 5 maschietti e una femminuccia. Sono sull’attenti, non dico emozionati, ma assolutamente “sul pezzo”. Dico che ci aspetta proprio un bel lavoro e chiedo con una certa enfasi: “siete pronti?”. “Sì!”. Non è propriamente nel mio stile, ma decido di continuare con quell’anda da sergente Hartman. Perciò faccio la faccia seria e squadro il tipetto sveglio apparentemente più rilassato, al centro:

 

“E le mani in tasca?!”

 

Ed ecco che gli altri cinque, con perfetta sincronia, all’unisono, infilano palmi e ditine nei jeans e nelle tute.

(?!?!)

 

Possiamo andare.

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Epitassi

Ogni mattina a scuola cadono denti, sanguinano nasi. Tutto si ferma, in quelle giovani esistenze ferite, l’orizzonte si riavvolge attorno a quei canini dondolanti come fosse un filo interdentale. Il sangue, invece, goccia dal naso all’improvviso, macchia il quaderno, la piastrella, la manica della felpa. A 11, 12 anni manca ancora la perizia necessaria (stringi forte le narici con le dita, piega la testa all’insù), ma manca quasi sempre, soprattutto, un fazzoletto. Gli eroi son sempre giovani e belli, e immortali e figurarsi se portano con sé i fazzoletti per il naso. Non bisogna temere la tenerezza, no. Fa tenerezza il naso di una ragazzina, di un ragazzino. Inteneriscono quelle stille impreviste quanto innocue, annullano le distanze.

Anche il naso di Carolina Kostner ha iniziato a gocciolare come quello di un’adolescente nel corridoio di una scuola. Nel bel mezzo di una finale mondiale, per di più, e senza sporcarla nemmeno troppo, dimostrando come possa nascere grazia anche da una piccola fastidiosa disgrazia.

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