Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

L’ora buona delle Fate silenzio

 
– Fate piano!
Maestra, esistono davvero?

– Chi?
le Fate piano…

– Secondo voi bambini?
Per me sì: appoggiano le cose adagio, camminano a rallentatore, non hanno mai fretta e se uno va troppo veloce, con la magia lo fermano per un po’, e salvano le persone che potevano morire alla svelta, invece pianino pianino non sbattono contro le cose.

– Io ho conosciuto le Fate silenzio
Cosa fanno?

– Cercano di far star zitti tutti quelli che urlano o non smettono mai di parlare, e alle volte tolgono i rumori della paura.
E voi bambini sapete cosa sono i rumori della paura?
Io lo so: quando nel buio senti qualcosa che dà i brividi, le Fate silenzio ti aiutano e non li senti più, smetti di tremare e torni a dormire.

– Ci sono solo di notte?
No… un giorno durante un terremoto mia sorella ha sentito come un tuono che non finiva mai, sono arrivate le Fate silenzio e tutto è finito subito.
Una volta io ho visto le Fate così.

– E cosa facevano?
Così

– Così come?
Come dicevano loro: se io dovevo scrivere o disegnare, mi aiutavano a fare così, se dovevo mangiare, lo facevo, così loro erano felici anche per me…

– Ma come sono?
Così

– Così come?
Non so…. come della gente che vola quando è felice, e se non vola scende e guarda cosa può fare per far volare anche gli altri che sono a terra

– Bambini cosa vuol dire essere a terra, qualcuno me lo sa dire?
Mio padre aveva una gomma a terra, sgonfia come un pallone.
Mio fratello aveva un pallone sgonfio ma con un calcio lo ha fatto volare.

– A terra vuol dire anche stanco, malato, triste, giù.
Se mia mamma mi aspetta giù io devo essere triste?

– Se lei è giù devi essere giù anche tu!
Io abito in una casa a tre piani e certe volte uno è giù e gli altri sono tutti su, ma tristi…
Io abito a un piano terra e siamo sempre tutti giù: più giù di così moriamo, ci seppelliscono.

– Adesso bambini andate, fate presto.
Le vedo: andiamo con loro, così non saremo mai più in ritardo.

 

Alessandro Bergonzoni, “il Venerdì”…

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The question

La ragazza chiede se può andare in bagno. Nell’aula i banchi sono disposti a ferro di cavallo e lei sta all’angolo, quello opposto alla porta d’ingresso. Può, certo che può.

L’insegnante, momentaneamente chinato sul banco di un assente, scartabella cercando una fotocopia colorata smarrita e la sente tagliare la classe, tracciandone di buon passo la diagonale. Cinque secondi al massimo, percepiti come un piccolo fruscio.

Il ragazzo, dal suo banco, è soltanto una voce – curiosa, da scienziato.

«Prof., ma perché le donne sculettano?»

 

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Disegnare insieme

Un noto mensile ha chiesto a due disegnatori, diversi ma neppure troppo, di sedersi allo stesso tavolo e di condividere lo stesso foglio bianco. Ne è nata una jam session d’inchiostro nero che mi ha ricordato la bellezza di un gesto che in fondo frequento da sempre e che continuo a praticare nel mio lavoro quotidiano.

Disegnare insieme a qualcun altro.

Ma non ognuno per sé: insieme sullo stesso foglio. Gomito a gomito. Un atto di condivisione profondissima. Riunire due strumenti musicali non regala a parer mio lo stesso tipo d’incanto: bellissimo, ma rimane una somma, un unopiùuno. Disegnare sullo stesso foglio è invece un intero. È dare un morso alla stessa mela. Mi piacerebbe riuscire a farlo capire, ai cuccioli che mi chiamano per segnalarmi che la riga che han tracciato è storta, che il cerchio è tutto fuorchè tondo, che “gli occhi proprio non mi vengono”; far loro capire che sedermi al loro posto, o al loro fianco, stringere tra le dita la loro matita mangiucchiata, il loro pennarello da due lire è per me un onore e un’emozione grande, capace di riportarmi con la memoria a tutta la carta che ho riempito di segni con l’aiuto di altre mani.

Sarà per quello che poi la riga rimane storta, il cerchio rimane sghembo, gli occhi non ne parliamo.

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La fuga di Guia

 

Qualcosa mi dice che nessun brano di Guia Soncini sia stato ancora “antologizzato” nei ponderosi tomi in uso nelle scuole secondarie di primo grado, strizzato tra Calvino e Buzzati, tra Piumini e Omero.

Qualcuno dovrà pur cominciare, no? Almeno a leggerla, almeno in fotocopia,  ‘sta benedetta autrice contemporanea.

Io comincio la prossima settimana.

 

La prima volta che scappai di casa ero in quinta elementare. Su Canale 5 facevano un ciclo di telefilm intitolato I simpamici (i traumi inferti da certi titolisti non sono stati abbastanza indagati): un giorno mandavano Il mio amico Arnold, un giorno L’albero delle mele – cinque baluardi degli anni Ottanta a settimana.

Litigai con mia madre per ragioni che non ricordo (e che probabilmente non ricordavo già due ore dopo), e uscii di casa determinata a non tornarci. Ero sicura della mia scelta senza ritorno almeno quanto mio padre era convinto di non poter vivere senza quel qualcosa di biondo con cui si accoppiava da anni (illudendosi probabilmente da altrettanti anni che lei lo volesse tutto per sé).

La prima tappa della mia grande fuga era casa della mia migliore amica. Non ricordo se il piano prevedesse di fermarsi lì o poi fare il giro del mondo: non sono mai stata una bambina avventurosa e l’amica abitava, secondo misurazione fornita oggi da Google Maps, a 140 metri di distanza. Ma non importava, perché il silenzio e l’inconsapevolezza di dove mi trovassi avrebbero gettato i miei nella più cupa angoscia – no?

Dalla mia amica c’era il televisore rotto. Era l’ora di pranzo. Chiamai mia madre e feci l’annuncio con tutta la pomposità richiesta dalle circostanze: «Sono scappata di casa. Torno alle cinque per i Simpamici».

Guia Soncini, I mariti delle altre, Rizzoli

 

 

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Ho un problema con la Memoria, quella Memoria

Li guardo dal basso verso l’alto, come la posizione che ho occupato nel teatro mi consente di fare. Lo spettacolo è appena iniziato. L’attrice esperta li ha fatti entrare ed accomodare su una lunga fila di sedie. Racconteranno – benissimo – la storia di quelle donne friulane che aspettavano i convogli ferroviari diretti verso i campi e intercettavano i bigliettini dei prigionieri, scritti in fretta e furia prima che la deportazione fosse compiuta e prima che fosse troppo tardi. Gli attori sono ragazzi delle medie, come i miei, e io riesco a guardare solo le loro scarpe.

Ci sono le Nike marroni, le Asics da corsa, le Adidas blu. Ci sono le Puma basse e affusolate e quelle alte da basket, slacciate, bianche. Una ragazza indossa due ballerine nere e muove velocemente i piedini che le abitano: ha freddo. Una indossa degli stivaletti che arrivano a metà polpaccio, il suo vicino un paio di scarpette eleganti con il bordino argentato.

Da qualche anno la Giornata della Memoria mi mette in crisi, mi fa traballare. La scossa più forte me l’ha data un libro fondamentale, e ne ho già scritto, ma forse tutto è cominciato prima, quando ho smesso di essere sicuro e di entrare in classe il 27 gennaio più motivato che in un giorno qualsiasi.

Che diritto ho di far vedere loro tutto questo? A quell’età, dico. Non dovrebbero scoprirlo più tardi, già grandi, dentro lezioni e discussioni (e film, e libri, e spettacoli teatrali) da adulti? Sono sicuro che sia giusto mostrare uomini orribili e terrificanti a ragazzini e ragazzine che forse non hanno ancora preso davvero le misure di un uomo buono e di un uomo cattivo? No, non ne sono più sicuro. È una questione di memoria. La Memoria con la maiuscola, certo, tutta la vita. Ma non in quel momento, non con l’intensità che c’ho messo in certe occasioni.

Lo spettacolo era calibratissimo e dolce. Luminoso. C’erano i bigliettini, al centro. E dentro i bigliettini parole d’amore. I ragazzini hanno ancora dimestichezza coi bigliettini, nonostante il cellulare; a scuola i Prof. lo sanno e fanno finta di non vedere la carta che transita clandestinamente tra le ginocchia e il ripiano dei banchi. Era calibratissimo, dolce, luminoso, lo spettacolo. Ma giocava col fuoco. Un fuoco che mi sono illuso di domare tante volte, e da cui oggi – forse, però – difenderei quelle scarpe pulite, ancora così povere e ignare di cammino.

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Una domenica da leoni

I giornali, questa mattina, pullulavano di leoni.

C’erano vecchi leoni spelacchiati che credevo quasi estinti. Invece ruggivano piangendo un compagno morto. Ripensavano alle battaglie vinte e perse con gli altri animali della savana, gridavano che la guerra non è finita, perché la guerra non può finire. Erano ciechi, quei vecchi leoni, in fondo lo sono sempre stati. Erano tre, erano quattro, erano più di 24, purtroppo.

Scrocchiano un paio di pagine e riecco altri leoni. Fuor di metafora: leoni d’Africa più veri del vero. Erano 100.000, 50 anni fa. Sono rimasti in 15.000, nelle stime dei pessimisti, oggi. Quindicimila, un po’ meno dei miei concittadini in questa piccola landa friulana. Chissà cos’avrei risposto, m’avessero chiesto “quanti sono in tutto i leoni?”. Pur privo di qualsivoglia strumento, avrei risposto 900.000, massimo 1.200.000. Mi sarei sentito realista, e senza l’aria di chi spara a caso.

Corro a preparare la lezione, domani in classe si parla di leoni.

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Imago, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Jakarnia

Bisogna essere elastici, bisogna saper trasporre, traslare.

Avrei voluto mettere nella Pozzanghera un’immagine che raccontasse la mia giornata da prof. di montagna, e soprattutto il mio avventuroso viaggio di ritorno, 2 ore e ½ di guida al posto della classica ora tonda tonda, con l’ansia, la paura, il cambio – terza, seconda, prima, seconda, terza – a sostituire da solo gli inutili freni. Avrei voluto ma sarebbe servita troppa concentrazione, e avrei perso minuti preziosi per rintracciare il telefonino e l’inquadratura giusta. Tanto, come dicevo, basta essere elastici, trasporre, traslare. Ecco quindi un odierno scatto da Jakarta con un protagonista che potrei essere io, con un mezzo di trasporto che potrebbe essere la mia Peugeot e un clima avverso che potrebbe essere la neve di questo gennaio virato al bianco.

 

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

La dolce supplenza

Come in una sorta di dolce supplenza. Come avessero ricevuto una delega, e se ne occupassero per conto terzi. Consapevoli che, anche se son costati 35 euro (!!!!), i miei pasticcini non sono e non saranno mai la stessa cosa. Consapevoli altresì che con le mie mani non saprei da dove cominciare…

Ogni anno una mamma di Scuolamagia confeziona con figlio e figlie la mia torta di compleanno, in un gesto che è stato dapprima una grande sorpresa ma che in fondo in fondo ormai finisco spudoratamente per attendere, per prefigurare (cioccolato, crostata? cosa staranno architettando quei demoni del forno?), e che oggi si è compiuto con puntualità, inesorabilmente tenero, a dir poco magico.

Poi le torte a scuola, si sa, hanno vita breve di farfalle. Ma il profumo resta nell’aria, e impregna l’anima.

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Il mio presepio

 

Camminavo ieri nella mattina di ghiaccio, portando a spasso il malditesta del sabato. La luce era una coperta distesa sulla mia cittadina, senza riuscire a scaldarla. Solo la facciata della grande chiesa sembrava giovarsi di quel miracolo luminoso. Da una nicchia su quella spianata verticale di marmo mi ha raggiunto l’eco di una musica. Diamonds, Rihanna. La cantano le mie alunne e ne hanno devozione. Tre corpi si riparavano dal freddo su quegli scalini protetti. Avranno avuto quindici, sedici anni, e probabilmente a quell’ora avrebbero dovuto essere in classe. I cappucci d’ordinanza alzati, gli zaini buttati lì su quelle pietre consacrate. Sullo sfondo, quello con gli occhiali si occupava della musica col suo cellulare; due gradini più in basso quello biondo e quella coi ricci rossi fuoco erano abbracciati. Lei distesa su di lui, con i capelli a cascata, gli unici ad uscire dalla nicchia per finire a favore di vento. Una pietà a ruoli invertiti: lui madre, lei cristo. Il campanile ha scoccato lentamente le undici. Biondo ha scoccato un bacio robusto sulle labbra di Rossa. Alleluja, alleluja. Io un presepio così bello non l’avevo mai visto.

 

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Compiti delle vacanze

Cara 3ª,

ve l’ho detto che ieri ero cotto. Avevo preparato 6 fogli (erano blu) con i vostri compiti per le vacanze, ma poi ho avuto la brillante idea, mentre riordinavamo Scuolamagia dopo lo spettacolo di giovedì, di appoggiarci sopra una decina di maschere dei Beatles, più quella di Yoko Ono. Risultato: sommersi e dimenticati.

Così, mentre giocavamo a “Spenna il pollo” all’ultima ora, a me ronzava nella testa una domanda: “C’è qualcosa che devo DIRE a queste creature del demonio, ma cosa?”. E non mi veniva in mente nulla, perché era DARE, non DIRE.

Se cliccate qui sotto trovate i compiti. Se qualcosa non dovesse funzionare o ci fossero dei dubbi su come impostare il vostro lavoro, sapete come fare a trovarmi.

Buone vacanze, statemi felici, nonostante i compiti.

Profus

Compiti Natale terza 2012

 

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Costruire ponti che non toccano l’altra sponda

Forse li sorprendeva il fatto che @Pontifex fosse arrivato su Twitter, nuovomondo, prima di loro. Fatto sta che dopo avermi sentito declamare il primo tweet papale, mentre diligentemente ricopiavano il compito d’italiano oggi alla quinta ora, mi sono sembrati un po’ delusi. Tutto qui? Certo, erano abituati ai cinguettii di @BarackObama e di @MichelleObama, i miei ragazzi, e forse con un principiante bisognerebbe essere più indulgenti.

Rincasando, qualche ora dopo, rimuginavo su quella schermata giallina, su quell’utente così “autorevole”, sulle ambizioni di quel progetto comunicativo, cercando di mettere a fuoco il conto che non tornava. Che è in fondo sempre lo stesso. Centinaia di migliaia di persone che ti seguono (followers, per gli iniziati…), e presto saranno milioni, nessuna da seguire. Anzi, 7: se stesso twittante in altri 6 idiomi del globo terracqueo. Il trionfo dell’autoreferenzialtà, e l’assurdo di un account ex cathedra, col dogma dell’infallibilità. Forse è solo questione di tempo e di acclimatamento, ma perché non seguire… che so… @CardRavasi, @fam_cristiana, @AndreaDisint@DalaiLama (uno che a dirla tutta non segue neanche se stesso nelle altre lingue…), solo per citarne 4?

Come diceva Alex Langer, autentico “costruttore di ponti”, è bello e importante amare le bandiere, ma a patto di cominciare da quelle degli altri. Sono convinto possa valere anche per i tweet, che provano ad essere dei cip cip. Potenzialmente qualcosa di molto più ambizioso dei soliti beeh beeh.

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Li vidi intrisi di spicchi di kiwi

 

Non ricordo bene chi fosse il poeta. Credo Fortini. Ricordo il sapore severo di quelle sue parole, però. Insegnanti, vi prego di non far comporre versi ai bambini e ai ragazzi a scuola. Realizzeranno perlopiù delle schifezze, non per colpa loro, e ne saranno consapevoli. Quella sensazione si legherà in modo indissolubile alla loro concezione di poesia: una schifezza. Fortini? O forse era Raboni…

Sono stato quasi sempre fedele all’autorevole raccomandazione, con qualche eccezione. Come quella, ad esempio, delle poesie monovocaliche.

Ecco una silloge dell’ultima esperienza creativa e poetica a Scuolamagia, risalente  a qualche settimana fa. Il filo rosso che ci ha legati: la b i

 

Li vidi in bici, intimiditi, sfiniti, li vidi privi di stili.

Lì vidi i primi sprint di ciclisti primi,

vidi i visi tristi di ciclisti vinti.

(Thomas)

 

Diritti ciclisti in kilt di vimini,

i visi dipinti di spicchi grigi!

Fisici disinibiti di tipi fighi!!!

Lidi vicini, invisibili siti privi di ciclisti vidi.

(Carlotta)

 

Tinti, grigi, ricchi I mitici Kiss

li vidi in bici, sfiniti, lì in Mississipi.

Vizi, brividi, ritmi, dischi tristi:

i Kiss li vidi irrisi in viscidi irti clivi,

in fitti ripidi giri,

in primitivi tricicli.

Cibi fritti, kiwi, mirtilli, vini, spriz:

ricci tristi vidi i mitici Kiss.

(Francy)

 

Vidi i ciclisti,

tipi fighi, fisici mitici,

dissi:

“Vinci!!!”.

Giri, giri, giri, giri rigiri:

tristi ritiri, dissi:

“Spingi!!!”.

Visi grigi, distinti,

li vidi tristi, dissi:

“Ridi!!!”.

Finì…, dissi:

“Disint, whisky?”.

(Davide)

 

Vidi i fitti pini di Rimini.

I ciclisti li vidi lì.

Vidi i ciclisti figli di Gigi.

Vidi lividi tristi,

grigi litigi,

finti ritiri,

ripidi giri, tricicli dipinti,

mitici sprint, vidi.

Vissi dischi vinilici,

libri distinti, spicchi di fichi,

nidi di bimbi.

Vinsi istrici,

ghiri,

limpidi istinti,

cicli di vimini.

Vidi, vissi, vinsi.

(Cristiano)

 

Vidi i giri ripidi di ciclisti vivi,

i gridi di tipi fighi,

i ciclisti sfiniti, dissi:

“Finish!”.

I visi dipinti di kiss kiss di miss chic.

Li vidi intrisi di spicchi di kiwi,

in cin-cin di vini spritz.

(Martina)

 

Vidi Gigi, gli dissi:

“Insisti, vinci!”.

Giri infiniti in bici,

mitici ciclisti,

ritmi distinti,

fisici vinti.

Vidi il “finish”, vinsi.

Brindisi: cin-cin.

Tini di vini

vini divini,

giri finiti,

ciclisti brilli.

(Manuel)

 

Vidi i ciclisti: tipi in pink.

(Nicole)

 

I primi tricicli, spinti lì,

dipinti di grigi mitici.

(Irene)

 

Vidi i ciclisti,

fighi,

fisici invincibili!

Brividi!!!

Lì, vidi Disint,

finì i giri.

Spingi, spingi – gli dissi.

Visi sfiniti:

tristi i ciclisti.

(Rebbi)

 

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Il calendario laico di Caterpillar

 

Quando mi capita di rincasare a quell’ora, parlo delle 19:00 o giù di lì, di solito mi ricompongo, rettifico la posizione del guidatore che non ne può più di guidare e mi dispongo all’ascolto di una pagina di radiofonia che fa onore al servizio pubblico.

Vado matto per il CALENDARIO LAICO di Caterpillar. Trovo quel rovistare nel grande sacco delle storie per proporre ogni sera agli ascoltatori il “santino” di un personaggio meritevole di stima e memoria, la “resurrezione” di un popolo, l’ “annunciazione” di un oggetto quotidiano che ci ha cambiato per sempre la vita, di un’opera d’arte divenuta immortale (per dire, scrivo mentre mi raccontano la prima de La Corazzata Potëmkin…), di un’idea, di un diritto, …semplicemente encomiabile.

Prima di tutto perché il progetto immagino contraddica tutti i dogmi della radio commerciale e di successo: profuma di scrittura, di buona scrittura, esige concentrazione, propina fatti spesso inattuali, ha un profilo etico altissimo.

Secondo perché è tutta la squadra del programma ad occuparsene, a turno, senza le gerarchie che sarebbe lecito aspettarsi. Un giorno ci pensa il celeberrimo conduttore, il giorno dopo la conduttrice emergente, quello dopo ancora il webmaster di cui nessuno conosce la voce.

A volte, terminato il breve frammento radiofonico, ho pensato che dovrebbero essere così, le mie lezioni di storia. Una al giorno, ogni giorno un uomo o un fatto umano da santificare. Addio Prima Guerra Mondiale, non servi a niente. Addio cronologia rigorosa degli eventi.

Da anni Caterpillar persegue un umanesimo laborioso e sincero, un umanesimo della porta accanto, ironico e fondamentalmente ottimista. Ci sarà un motivo se in passato ho spesso fermato la macchina a qualche chilometro da casa per non arrivare troppo presto e dover scendere prima che la trasmissione fosse giunta alla fine.

Ecco un esempio scritto e due orali. 

Domani è il 14 novembre
di Massimo Cirri

Il 14 novembre 1889, alle 9.40 del mattino, a New York, una ragazza si imbarca su un battello a vapore. Ha 25 anni e porta con sé il vestito che indossa, un cappotto robusto, una piccola borsa con molti ricambi di biancheria intima e gli articoli da toellette. In un sacchettino legato al collo ha un po’ di dollari, 200 sterline e anche dei lingottini d’oro.

Si fa chiamare Nellie Bly e parte per fare il giro del mondo. E deve farlo il più velocemente possibile, deve battere Jules Verne ed il Giro del mondo in 80 giorni.

Nellie è una giornalista. Ha cominciato a scrivere quando legge un articolo sessista su un giornale e allora butta giù una lettera molto precisa ed incacchiata all’editore. Che la assume. Così scrive numerosi articoli investigativi, poi viene relegata alla pagine femminili. Allora si stufa e va a New York e convince ad assumerla in un quotidiano un signore che di nome si chiama Joseph e di cognome Pulitzer. 

Poi Nellie passa una notte davanti allo specchio per imparare a fare le espressioni facciali da “squilibrata”, poi prende una stanza in un pensionato per operaie e quando è il momento di spegnere la luce dice che non vuol dormire, che ha paura degli altri, che gli altri sono matti. La mattina dopo il proprietario dice che la matta è lei e chiama la polizia. La visitano diversi medici, lei dice che non ricorda nulla. Loro confermano che è proprio matta, “un caso senza speranza”. Così finisce internata al Lunatic Asylum al Blackwell Island, un manicomio femminile. E’ quello che vuole per raccontare la brutalità, il cibo schifoso, i topi dappertutto, i calci delle infermiere, i secchi di acqua gelida. Tutto quello che fa diventare chiunque – dopo un po’ – “matto” davvero. Lei viene liberata dal suo giornale – chissà se ha avuto paura che la lasciassero lì per sempre – e scrive il libro che inventa il giornalismo investigativo sotto copertura. Come mettere insieme Sabrina Giannini di Report e Fabrizio Gatti de L’Espresso. Si intitola Dieci giorni in un manicomio.

Invece per fare il giro del mondo di giorni ne impiega settantadue. Più sei ore, undici minuti e quattordici secondi. E’ il record di circumnavigazione della terra. Attraversa l’Inghilterra, la Francia (dove incontra Jules Verne), il Canale di Suez, Ceylon, Singapore, Hong Kong e il Giappone. Passa anche da Brindisi, viaggiando sempre senza essere accompagnata da un uomo. Poi sposa un milionario.

Così domani 14 novembre Caterpillar si ricorda di quelli che si intrufolano nei luoghi chiusi per raccontarne gli orrori e delle donne che viaggiano da sole.

 

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Ballottaggio tra Vecchio e Nuovo

 

 

Ho sempre paragonato quel gesto alla muta di un serpente.

Le prime volte ero impacciato, lento, insicuro, confuso.

Col tempo è sopraggiunto un po’ di mestiere, nonostante la completa assenza di grazia.

Oggi lo compio e inevitabilmente ci vedo una metafora.

C’è da sbarazzarsi del Vecchio, dell’usato, e c’è da far spazio al Nuovo.

Chi ti ha accompagnato per molto tempo, ha occupato il tuo spazio, ti è venuto appresso nel mondo, ora scricchiola e si rompe, è una coperta che diventa troppo corta, anche se provi a fartela bastare. Ti lascia la sua ruggine sulle mani, però è fedele, madonna se è fedele. Lo rimetti subito in riga girando una chiavetta, nel caso si fosse rilassato troppo dormendo sul divano.

Il rovescio della medaglia è quel Nuovo così fresco d’incarto e di scontrino. Sai di aver scelto la qualità e di non aver badato al prezzo, ciononostante nei primi giorni percepirai una distanza, una barriera fisica. Ti sembreranno dei corpi estranei, percepirai un reciproco rigetto.

Mi sono misurato centinaia di volte con quell’ostilità metallica, con quell’indisciplina. Ci voglion giorni, poi passa. E ci vuole orecchio, va da sé.

Ci si abitua in fretta, al Nuovo. E si dimentica il vecchio, si perde per sempre la sua storia, aggrovigliata senz’arte e gettata via.

Tra vecchio e nuovo, tra il ricordo di vecchie canzoni e il pensiero per quelle da cantare presto, in un sabato di malditesta, ho cambiato le corde alla chitarra.  

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Trento e Trieste all’Italia: ADESSO!

Ora di storia, in aula informatica. Lavoriamo sulla primaguerramondiale, in gergo PGM. Si tratta di fare un po’ il punto, ripassare, consolidare. Da un testo che ho preparato e sparato a tutti sul monitor in corpo 32 ho tolto una serie di parole e concetti chiave: a loro il compito di rintracciarli e inserirli nel posto giusto. Volano rapidi sulle cause del conflitto e sulle alleanze prebelliche, compilando a dovere; procedono lanciati su Sarajevo e sull’escalation militare. Arrivano al paragrafetto sull’Italia spaccata tra neutralisti e interventisti. Bisogna risalire con la memoria a quei tizi fissati con il completamento dell’Unità d’Italia attraverso la riconquista di Trento e della Venezia Giulia. Ma come si chiamavano quelli? Bohhh… Con la “enne”, butta lì qualcuno che forse si confonde coi nazionalisti… No, con la “i”, dice qualcun altro. Da bravo prof. non nego il mio sostegno e mimo l’atto di trapanarmi un molare… Ridono, ma non serve. Allora aiuto di più: “ERANO GLI IRR…, GLI IRR…, GLI IRRE……”

 

E Marimù, raggiante, con le braccia al cielo:

 

“…gli irRENZIANI!*”.

 

* : ovviamente non considero questa uscita della mia alunna uno strafalcione e sono più propenso a considerarla un colpo di genio.

 

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Etica Ibrahimovicea

 

In qualità di Professore Ordinario di Etica pallonara e Storia delle rovesciate volanti moderne e contemporanee ci terrei a far notare ai miei studenti e a tutti gli illustri partecipanti a questo simposio che non è l’ultima opera (4-2) dell’Ibrahimovic quella maggiormente meritevole di menzione, bensì la terz’ultima (2-2). Riconosco la grandezza di quell’imperioso librarsi nell’aria, per quanto viziato dall’imperizia del portiere e da una non certo marginale componente di culo, ma indirizzerei piuttosto i vostri evidenziatori verso quel precedente stop di petto e verso quella perentoria volée di destro, ma soprattutto – mi preme sottolinearlo – vi chiederei di soffermarvi su quell’insolito quanto irrituale cruccio, con la palla già nel sacco, nei confronti di un avversario rimasto a terra dolorante dopo aver tentato invano di ostacolare il prodigio tecnico dello svedese. Gesto così poco Ibrahimoviciano e quasi tenero, dimentico della prodezza appena consumata e giustamente sancita dagli applausi scroscianti.  

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