Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Shit learning

 

 

Nel XXI canto dell’Inferno l’Alighieri fa mollare al Diavolo una scorreggia, un peto, una puzza. Alle poetiche classiche ed estetizzanti da sempre si contrappongono i cultori della materialità dei corpi, delle cose, delle cose dei corpi. Il poeta e scrittore Roberto Piumini ha intessuto raffinate storie di dame e cavalieri; il picco del suo successo tra i giovanissimi lettori, tuttavia, si deve forse ad un testo sulla cacca.

Una brava maestra ha realizzato con i suoi cuccioli un piccolo merdosissimo (in senso letterale) capolavoro.

Il clima di una Pozzanghera – con la sua acqua stantìa, ricettacolo di escrementi – gli si addice.

 

 

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68/57

 

“…il mio amore per i pennarelli è secondo solo

all’amore che nutro per me stesso.

Pennarello è bello e, se sai usarlo, se lo ami,

sa darti soddisfazioni,

diventa te, diventa tuo istmo,

ne ricordo uno, enorme, bleu

dopo tre anni cominciò ad avere la lingua

secca,

e presi a usarlo per le sfumature ghiaccio delle

mie nuvole, era un buon pennarello, e mi

dispiacque

quando morì, morì per aver perso il tappo…”

 

(Andrea Pazienza)

 

L’impresa è titanica, ma la 3ª di Scuolamagia sa che quando il gioco di fa duro, i duri cominciano a colorare. Si tratta di realizzare un planisfero. Il più grande mai realizzato, a mano, in una scuola media della Repubblica. E se non ci credete speditemi il post di un’altra pazza prof. o di un altro pazzo prof. che commissiona alla sua classe 6300 cm² di terre emerse e oceani da tingere a pennarello.

E qui veniamo all’amore per quegli oggetti, per i quali anch’io da sempre sbando e sbavo.

Non dovete pensare a quei cilindri con la punta grossa, quei sigari cubani di marca scadente (nonostante scomodi un grande pittore, architetto e tracciatore di circonferenze perfette) che vanno per la maggiore nelle scuole. Con quelli si colora in fretta, alla grossa, ma il primo sole basso dell’inverno, come una lancia, trafiggerebbe nazioni e acque, stingendole irrimediabilmente. Pensate a dei pennarelli teutonici, brillanti e slanciati, tenaci e costosi in maniera quasi proibitiva. Pennarelli inquadrati come in un esercito. Rosso chiaro 68/48 a rapporto. “Signorsì signore!”

Per un’ora alla settimana, quindi, eccoci sgobbare in un’operazione che sembra una Vandea didattica, un progetto di retroguardia. Ma come: oggi c’è Google Earth e questi tracciano fiordi norvegesi con le matite e li colorano a crucche tinte??? Nessuna contraddizione, in realtà: c’è un tempo per la vertigine tecnologica di planare col mouse sull’area industriale di Taranto e c’è un tempo per fare il callo sulle dita colorando di verde pisello il Madagascar. Una cosa non esclude l’altra.

Dopo un mese di lavoro, abbiamo imparato a distinguere il carattere di ogni pennarello. Infatti, solo in apparenza quei soldatini sono tutti uguali. Il rosso e l’arancione sono docili, si lasciano stendere con facilità. Il giallo ama il bianco del foglio e girerebbe volentieri al largo dal grigio della matita e da tutti i suoi colleghi. Il verde corre veloce ma non c’è verso, le linee che tracci non s’impastano, continueranno a sembrare astine ravvicinate (l’effetto ad alcuni piace, ad altri meno). Il viola stacca su tutto, è un pennarello arrogante. Il più difficile da dominare, infine, è senza dubbio un azzurro, quello che ha superato il provino per diventare oceano, ruolo ambitissimo. Non c’è verso di farlo star buono: un giorno si comporta come un cagnolino al guinzaglio, il giorno dopo inonderebbe le coste dell’Argentina e se lo guardi bene ti sembra pure più scuro della lezione prima. Capriccioso e anarchico, ma più spesso siamo soliti pensare “stronzo”.   

Si chiama 68/57, e tra un po’ ce lo sogneremo anche di notte. Sogneremo che ci rincorre, che ci dipinge fino a farci diventare dei Puffi.

Dovete capirci: in tutto son 6300 cm², e il 70% della superficie terrestre – si sa, non è una convenzione – si offre alla vista umana con quel colore, e sarà il caso di farsene una ragione…

Ciononostante, “pennarello è bello e, se sai usarlo, se lo ami,

sa darti soddisfazioni…”.

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La cultura umanista ha ancora senso, aggiungendo un po’ di brodo…

 

L’SMS, letto nel tragitto tra la Pluriclasse e la 3ª, è fin troppo chiaro: “Oggi Lodoli ti farà incazzare”.

Il pezzo in questione sta in taglio basso su “la Repubblica” di oggi. S’intitola ADDIO CULTURA UMANISTA: PER I RAGAZZI NON HA SENSO. Inizia con il lamento di un’insegnante, una delle tante a cui Lodoli dice di aver porto la spalla consolatrice: “Io non esisto più, sono diventata invisibile. Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta”.

Io non ho le parole per dire come sia cambiata la scuola in questi anni. O meglio: le ho ma sono incerte, malferme, insicure, sono forti sensazioni e sensati sospetti. Non ho ricette e medicine, e giuro che consolerei anch’io col cuore la collega. Tuttavia, nel suo lamento sembra esserci già bello spolpato il nocciolo del problema. “Entro e comincio a spiegare”. Ci sono un po’ di vasi vuoti e c’è un otre bello pieno: la scuola è compiere un magico travaso di cultura, la didattica è un imbottigliamento di nozioni, concetti, idee. Ecco, collega disperata, non è così che può funzionare, oggi. Da ragazzo sono stato un vaso vuoto, mi sono messo in fila e ho lasciato diligentemente che le mie pareti di coccio si riempissero. I prof. spiegavano e io ascoltavo. Amavo però meno di un decimo di quello che assimilavo con dedizione, il resto lo stivavo in me perché ero soltanto un vaso e a quello servono, i vasi: a stivare cose, punto. Non so cosa siano i ragazzi del 2012, ma di una cosa son sicuro: non sono – e soprattutto non vogliono essere – dei vasi vuoti da riempire. La tua spiegazione, sconsolata prof., è una chiave inglese che si prefigge di aggiustare un McBook Air che non si accende più.

Continua Lodoli, e anche il suo è un lamento:

“Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti”.

Lo scrittore è un maestro della malinconia e del disincanto, armi con cui nei suoi racconti ha disegnato personaggi difficili da dimenticare. Quando dipinge i suoi studenti con i toni della stessa sconfitta, per giunta raggiunta ancor prima di combattere, non lo sopporto. E un po’ m’incazzo, sì. Da anni descrive ragazze e ragazzi delle scuole secondarie romane viaggiare nella vita come zombie: non un orizzonte da raggiungere, mai niente da fare, figuriamoci da credere. Occhi tristi, testa povera, sensibilità spuntata. Vittime di tutto: la società dei consumi, l’omologazione culturale, la famiglia. Mai un dubbio: e se fossi io quello sconfitto? Quello che non li sa più coinvolgere, quello che racconta la letteratura come si poteva fare vent’anni fa e come non è più possibile fare ora, con i tempi ed i linguaggi così cambiati. Quello che spiega e la spiegazione rimbalza come un pallone sul muro, e torna indietro, come un passaggio rifiutato: il canestro fallo tu, a me non interessa. E cambiare strategia? Cambiare linguaggio? No, troppo difficile, diamo per morto l’Umanesimo che facciamo prima. E cos’è la cultura umanistica, poi? Siamo tutti d’accordo oppure indiciamo le primarie e rottamiamo Petrarca e Boccaccio? (son lì da 700 anni e non hanno mai vinto, direbbe un’altra corona fiorentina…).

Ora, lo scrittore (e critico, e poeta, e sceneggiatore… ma, e mollare la cattedra nella scuola pubblica a un giovane più motivato, no?) non è nemmeno così categorico e tranchant come in altre occasioni. Sul finale, infatti, riconosce agli studenti le attenuanti generiche.

“Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei”.

Puzza un po’ di soluzione di comodo, questa, però. Collocare i ragazzi in un altrove, magari nel posto giusto, chi lo sa, comunque in un universo lontano e irraggiungibile, nemico a oltranza di ogni tradizione. 

Ogni mattina mi metto lì e spiego. Una spiegazione può diventare un luogo di grande solitudine: sono terribili gli occhi che ti guardano senza guardarti davvero. È successo anche stamattina, eppure i miei aneddoti su Obama sembravano perfetti. Che delusione, maledetta 3ª di repubblicani.

Però a ricreazione c’erano ragazzini che correvano sulla fascia cantando a squarciagola le canzoni dei Beatles che abbiamo ascoltato insieme, a scuola. Chissà se la premiata ditta Lennon McCartney può essere ricondotta alla cultura umanista di cui parla Marco Lodoli…

Poi è arrivata Irene, 12 anni, gran lettrice.

“Ti ho portato un libro”, mi fa. “Mi piacerebbe lo leggessi”, continua. “Purtroppo è un po’ macchiato… una macchia di brodo…”.

Brava Ire, hai capito tutto… bisogna ridare sapore ai Classici. È quella la sfida.

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Chiedi chi erano i Beatles

Nella mia biblioteca di montagna c’è un grosso quaderno cartonato: il “quaderno delle presenze”. Chi entra fa la sua firma sotto la data, se si dimentica la fa qualcun altro al posto suo. Com’è abbastanza ovvio, quella carta è presto diventata una specie di muro dove viene affisso ciò che passa per la testa ai giovani avventori, quasi tutti alunni o ex alunni di Scuolamagia. Disegni, scarabocchi, impronte della mano, versi di canzoni, sfottò, marchi commerciali, cazzi e tvb. Il 5 ottobre, quando mi sono avvicinato, Giorgio stava disegnando il logo dei Beatles. Adesso bisogna dire che Giorgio ha 19 anni, che non sono pochissimi ma non sono nemmeno tanti. Il suo festeggiare i cinquant’anni di Love me do in quel modo così intimo e sentito mi ha fatto pensare che forse quell’anniversario andava celebrato anche con gli alunni ufficiali, quelli di ogni mattina a scuola. Così, rischiando un po’ di retoria fabiofazista, ho chiesto loro – scusate il bisticcio – di “chiedere chi erano i Beatles”. L’hanno fatto, e i risultati sono stati a dir poco sorprendenti. Lo scoop l’ha fatto Marimù, scovando un signore del paese che può andar fiero di aver partecipato ad un concerto dei Fab4 allo Stern Club di Amburgo, nei primissimi anni ’60. Una nonna ha invece soltanto sfiorato la partecipazione ad una data romana della band: quel giorno del 1965 dovette accudire i bambini della coppia per cui lavorava. Dai quaderni sono usciti aneddoti e storie: il concerto sul tetto, la nomina a baronetti, l’arrivo di quella cinese che ha rovinato tutto… no, forse era una giapponese. I papà han tirato fuori i CD, i nonni han rispolverato i vinili, manco a dirlo MAI prestati a nessuno. Sono emerse mamme che hanno subito il fascino di Lennon, con quell’irresistibile faccia da “cane bastonato”, e mamme “tendenza McCartney”, che poi sarebbe la mia.

Soprattutto, però, ogni alunno ha portato a scuola il titolo di una canzone, opportunamente segnalata dal “consulente” domestico. Con YouTube abbiamo quindi ascoltato insieme Yesterday e Help, Let it be e Here comes the sun. E poi altre, e poi ancora. Una volta ho sentito De Gregori dire: “Cos’è una canzone popolare? È una canzone che abbiamo scritto tutti quanti assieme”. Non solo, verrebbe da aggiungere dopo quest’esperienza coi ragazzi: è anche una canzone che conoscevi già, a tua insaputa.

E la canzone preferita del Prof.? Non poteva mancare, ma è spuntata prima dalle pagine di un quaderno, direttamente dal cuore di una mamma che la suonava con la chitarra, trovandola pure lei irrimediabilmente perfetta.

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Gli era lieve la terra, sotto le scarpe

Un corpo senza vita giace sopra il freddo di un tavolo, 45 autunni fa. È il 1967 l’anno irrequieto che correva. Quella carne sta lì, troppo facile dire Cristodelmantegna. Ci sono i lunghi capelli ribelli e c’è la barba: troppo facile davvero. Appartiene ad un uomo importante, quel corpo, un idolo per molti, un modello per tanti. Una persona colta, amante fedele di libri e artisti, una persona libera, soprattutto, capace di trasmettere agli altri l’amore per la libertà soltanto grazie alla pratica quotidiana della Sua, nemica dei conformismi e degli schemi preconfezionati.

La morte precoce consegnerà quel corpo al mito e alla Storia, ma non potrà cancellare il rimpianto per tutti i sogni che non si sono potuti realizzare, per tutta la strada che non è stata percorsa da quell’estro.

Ho imparato ad amarlo da ragazzino, ed è per me una delle personificazioni più efficaci della leggerezza e della fantasia.

A volte ne parlo a scuola, di lui, e sebbene la scelta non sia propriamente usuale, so che è giusto farlo e che nessun genitore verrà mai a protestare.

Oggi nella Pozzanghera getto il ricordo di un eroe cui sono molto affezionato.

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Scuolamagia, Maybe

Ci sono un monopattino e una bicicletta. Una bmx, per la precisione. C’è una colonna portante e c’è una bidella (im)portante. C’è un divano. No, mi correggo: c’è il divano. Ci sono quattro gloriosi computer scassati: lenti come la morte, ma ne hanno viste tante, e fatte vedere di più. Ci sono scale, ci sono banchi. C’è il pallone giallo, spompo, della scuola, e c’è quello bianco e nero, un gioiello che portano Evelyn e Marcello da casa. Ci sono un sacco di “telefoni fatti a mano”, come nel modello ispiratore dal successo planetario. C’è Nuvola, professione cane, che quasi ogni giorno accompagna a scuola Nicole. Ci sono un’Ape Piaggio e uno Scuolabus giallo con un ferro di cavallo: l’autista è lo stesso. C’è un portone che è sempre aperto e c’è una panchina di legno. C’è Andrea Pazienza. Ci sono squadrette di calcio e righelli di plastica, capriole e boccacce, corna e ballerine. Da leggere c’è il “Corriere della Sera”, ma ci sono anche i diari. Ci sono le mutande celesti di un acrobata. C’è un tablet che in teoria non si dovrebbe vedere ma se state attenti si vede lo stesso, in barba a chi lo ha adoperato come una telecamera.

Ci sarebbe anche dell’altro, molto altro, ma poi la canzone è finita lì. Sarà per la prossima volta, maybe.

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V’al più l’apratica

Qualche anno fa ricordo di essere entrato in una sala insegnanti affollata mentre una collega di lettere stava facendo scompisciare un nutrito gruppo di altri prof. Gli autori di quel vasto repertorio comico erano i suoi alunni con i loro strafalcioni linguistici nei temi in classe. La sensazione fu sgradevolissima e confermò in me il disprezzo per l’elitismo grammaticale, quell’ottusa convinzione di primeggiare in cultura soltanto in virtù della dimestichezza con accenti, apostrofi e consecutio temporum.

Due giorni fa ho letto e corretto il testo appassionato di un cucciolo appena sbarcato alle medie. Tristi ricordi e amare considerazioni sul quinquennio precedente, quello alle LEMENTARI.

In passato ho incontrato interessantissime parole sul complesso mondo del L’AVORO, ho valutato immaginari viaggi sulla L’UNA e improbabili delitti compiuti a LUNA di notte.

Una ragazza in possesso di una scrittura limpida ed efficacissima mi ha raccontato una volta della sua partecipazione alla DUNATA degli alpini.  

Già ripiena di tutti i crimini che mente umana possa immaginare, la famosa lettera che circola in questi giorni sulla stampa si macchia anche di gravissimi reati di lesa grammatica. Primo fra tutti quel D’AVVERO.

(E tutti a scherzare quel L’AVITOLA, pensare che è stato pure direttore de “LAVANTI”.)

Anche in questo caso, non rido e non piango (per gli apostrofi, almeno; per il resto ne possiamo parlare…) e propongo con forza la depenalizzazione dei reati linguistici minori. 

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Profumo di verità

Spesso fatico a comprendere i Ministri della Pubblica Istruzione. Una volta lessi un lancio d’agenzia riferito ad una dichiarazione di Maristella Gelmini: “UN TETTO AGLI STUDENTI STRANIERI”. Partii per la tangente, giuro, e immaginai progetti di accoglienza rivolti ai figli senza casa dei migranti sbarcati sulle nostre coste. Non era propriamente così, come avrete intuito.

Non li capisco e allora sto più attento.

Ieri mi è sembrato di capire che Francesco Profumo abbia affermato di non trovare giusto che dalle classi italiane debbano uscire – mettiamo alla quarta ora del martedì – gli alunni stranieri devoti a divinità monoteiste, in sostanza tutte propugnatrici di ideali di umana fratellanza, affinché i loro compagni italiani, devoti a una divinità monoteista fonte di pace e serena disposizione a porgere l’altra guancia ai nemici, possano discorrere da soli, guidati da un insegnante pagato dallo Stato, di come il mondo debba reggersi sull’amore universale che non conosce confini e barriere.

Ecco, mi pare che il ragionamento dell’ing. Profumo fili liscio come un olio crismale, ma non fidatevi di me, che io i Ministri della Pubblica Istruzione non li capisco.

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Aura visiva

 

L’aura visiva è il corollario di una certa tipologia di mal di testa.

Per circa mezz’ora il mondo sfarfalla davanti agli occhi e ci si sente come abbagliati dai fanali di un autotreno che non si sposta e non procede. La cefalea viene dopo, quando sei così contento di vederci di nuovo da non curartene nemmeno. Se viene a sera, quando sei seduto sul divano e la giornata è scivolata via lungo i suoi binari, l’aura visiva la maledici appena e ti infili sotto le coperte: se sei fortunato e non ti svegli nel cuore della notte, eviti pure il mal di testa.

Se arriva alle 9 di mattina, però, nell’ora di geografia, il terzo giorno di scuola quando le classi sono tutte accorpate e non hai uno straccio di collega, è un filo diverso. Non smadonni, ché non puoi. Non spieghi, ché non vuoi. Appoggi il gessetto, la lavagna nel frattempo è diventata uno strobo, chiudi gli occhi e pronunci parole che sono gli spigoli del mare, la superficie ghiacciata del deserto, il sapore metallico degli alberi, la voce roca di tutte le formiche del mondo, i riflessi argentati del petrolio, le ali dei cani, la buccia smerigliata delle nuvole, il tramonto a precipizio visto dalla cima degli anulari. Pronunci le parole che solo quei venti ragazzi ora conoscono.

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“L’hanno prossimo mi metteranno l’aria condizionata”

Giuro che non si tratta di deformazione professionale. Quando correggo non sono uno spietato cacciatore di errori, ho fin troppi dubbi attorno a una miriade si misteri grammaticali e se due opzioni linguistiche per un istante mi sembrano in conflitto, prefiguro immediatamente una soluzione che le contempli e le accetti entrambe, senza nemmeno scomodare il vocabolario.

Sono uno di quegli insegnanti a cui capita che gli alunni dicano: “ho dimenticato un accento e non te ne sei accorto”. Rispondo sempre in maniera diversa – “l’ho fatto apposta, per vedere se te ne accorgevi tu…”; “mi scuso e corro a firmare la mia lettera di dimissioni”; “è colpa della tua calligrafia incomprensibile, vedi, quella virgola mi sembrava un accento…”; “esiste una variante trecentesca senza accento, la usa anche Dante”; “quanto vuoi per insabbiare questa storiaccia dell’accento? Se lo sa tua madre sono rovinato…” – e non ci penso più.

Nei libri, però, gli errori non li sopporto. E capita sempre più spesso. E il più somaro, nella classe (casta?) degli editori, è senza ombra di dubbio Einaudi. Vabbè “STILE LIBERO”, ma così si esagera! L’avreste detto, Einaudi, così ordinato, con quel grembiule bianco e lindo, lui così di buona famiglia. La colpa non è degli scrittori, molto spesso sono infatti le opere tradotte le più lacunose.

Uno si affeziona a Chloe, ragazzina di strada dal tragico passato. Si affeziona soprattutto a sua sorella Camille, vittima delle peggiori violenze, personaggio di una feroce vitalità. Trova interessante lo psichiatra che si fa carico di entrare nella mente della protagonista, fino a riuscirci. E quando i due – medico e paziente – sono uno di fronte all’altra nell’ultimo breve capitolo, nello stanzino di cui hai quasi imparato a sentire il caldo asfissiante, ecco…

Non può finire così…

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Gore Vidal l’americarnico

Nel paesino dove insegno abitano un bel po’ di persone che di cognome fanno Vidale. “Vidale” è anche il nome dell’unico panificio rimasto, appoggiato alla curva da cui chi proviene dal Friuli può scorgere per la prima volta, da lontano, Scuolamagia.

Ricordavo di aver letto da qualche parte, on line, la storia di Gore Vidal che raggiunge Forni Avoltri sulle tracce dei suoi antenati italiani, e proprio in quel panificio sosta brevemente per incontrare coloro che probabilmente conservano con lui un seppur sbiadito legame di sangue.

È il 1977.

Lo zio, Michele Vidale e GoreIl divo della letteratura (e del cinema, e della saggistica, e…) indossa una giacca scura. Ha già fatto la guerra, è stato candidato al Congresso, ha sceneggiato Ben Hur, ha recitato in un film di Fellini (nel ruolo di sè medesimo), ha scritto il suo capolavoro.

È il 1977.

Quell’uomo si sveglierà ancora per molti anni con davanti un panorama mozzafiato, si divertirà a fare a fettine il suo paese, solleverà dubbi sulle dinamiche dell’11 settembre, reciterà – per interposto pupazzo giallo – in alcuni episodi dei Simpson.

Digitando il nome dello scrittore su Google, dopo aver cliccato sulla barra spaziatrice, si può usufruire dei suggerimenti del motore di ricerca, immagino basati sul calcolo statistico delle chiavi inserite con maggiore frequenza dagli utenti. “Gore Vidal Gay” viene prima di “Gore Vidal Libri”. Ci sta: fu anche una testimonianza di profonda libertà individuale, la vita di questo americano. 

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Dott.ssa Cicciuzza

Finché un giorno, vai tu a ricordare il perché, ho cominciato a chiamarla Cicciuzza.

Correvano gli anni scolastici 2000-2001 e 2001-2002 ed ero il suo insegnante – precario – di lettere, in seconda e in terza media. Anni mica da ridere: sono entrato in classe e dopo pochi giorni stavamo discutendo tra i banchi, anche con Cicciuzza, di cosa diavolo fossero Erica&Omar; sono rientrato in classe dopo l’estate e sul registro avrei potuto scrivere: “Undicisettembre: e adesso chi glielo spiega?”.

Devo a Cicciuzza, la Cizziuzza dell’epoca, preziosi insegnamenti. Una mattina, ad esempio, mi sente rimproverare una compagna che per la terza volta in un’ora mi ha chiesto di andare al bagno, mi sente dirle che “non è possibile che una persona debba andare alla toilette ogni venti minuti, ecchediamine…”, mi sente, si avvicina e mi spiega pacatamente ma con fermezza che a una donna – sono persone, le donne, no? – IN DETERMINATI GIORNI capita eccome di dover ricorrere così frequentemente ai servizi igienici. Sulla fiducia, Prof., davvero: capita. Da quel giorno nelle mie ore le ragazze escono dall’aula senza chiedere il permesso, suppergiù.

Devo a Cicciuzza e alla sua classe, inoltre, la sorpresa di un ragionamento diventato col tempo concreta realtà: NON AVREMMO DOVUTO PERDERCI DI VISTA, una volta percorso quel fugace ciclo scolastico. Ci eravamo incontrati e quell’incontro non doveva fermarsi davanti ad un tabellone con un foglio e la scritta “licenziato-licenziata”. Non ci credevo, ma avevano ragione.

Crescendo, Cicciuzza è diventata una liceale, ma soprattutto una meteorologa. La mia meteorologa. Dopo la sveglia per andare a scuola, alle 6.00 di mattina, controllava quale fosse il clima nel suo incantevole paese di montagna, per avvertirmi puntualmente in caso di nevicate. A volte bastava uno squillo, a volte un messaggino segnalava: “15 cm”, “35 cm”. Io, già alla guida, mi comportavo di conseguenza, rallentando o eventualmente ripiegando su un più sicuro mezzo pubblico. È capitato che fosse così solerte da allertarmi anche il giorno precedente, se la nevicata aveva avuto inizio col buio. Da qui il proverbio “Cicciuzza di sera…, prendo la corriera”.

Il suo trasferimento in città per proseguire gli studi dopo il liceo è stato per me un vero dramma. Tanti carissimi alunni hanno provato a sostituirla nel gravoso compito; di nessuno mi sono mai fidato completamente come di lei.

Oggi Cicciuzza è diventata la dottoressa Cicciuzza. Si è laureata, ha disquisito di “intelligenza dei sussidi didattici” davanti ad un agguerrito plotone di docenti universitari e mi ha fatto commuovere come non credevo. È stata la prima, tra i miei ex alunni. Meritava una menzione sulla Pozzanghera, concorderanno i 25 lettori.

Cicciuzza che da quel giorno, vai tu a ricordare il perché, ha cominciato a chiamarmi Cicciuzzo.

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Tu mi fai girar come fossi una GIF

Quando tutti si sono finalmente seduti, a mezzaluna, davanti a vecchio e glorioso Computer 1 di Scuolamagia, in genere qualche vocetta formula la domanda: “Prof., si va sul Post?”.

Non è sempre così, ovviamente. Cioè, intendo, si va anche altrove… il Web è un mare vasto e pieno zeppo di pesci. Però, il sito con cui più spesso provo a stupirli, stimolarli, pungerli, provocarli e perché no… anestetizzarli è proprio il Post.it. Perché ci sono le gallerie fotografiche con gli animali, quelle con gli sportivi, ci sono carte geografiche bizzarre, i grattacieli più spaziali del pianeta e soprattutto ci sono i video, roba di una certa qualità, mica il primo gattino che un giorno abbaia e diventa virale su YouTube.

Oggi, per dire, ci sono queste GIF animate, frutto del lavoro di certi giapponesi, ed è stata durissima scegliere quella da inzuppare nell’acqua sporca della Pozzanghera.

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A scuola non si Url!

“La Repubblica” ha messo le prove Invalsi in prima pagina, oggi, dentro un bel pezzo della scrittrice Mariapia  Veladiano. Acuto, accorato, ma anche leggero al punto giusto: i GRANDI vogliono incasellare i piccoli, vogliono che mettano la crocetta sulla A, come avrebbero fatto loro. Evidentemente li tranquillizza sia ribadito che il vecchietto dei francobolli soffre soltanto di “solitudine” (A), non c’entra nulla con i suoi gesti un po’ matti la “fragilità dell’esistenza” (B) o addirittura “la noia” (C). Men che meno si parli di “avarizia” (D), quella crepi.

La cosa davvero assurda, nella Prova Nazionale 2012, l’ha sottolineata però Vincenzo Latronico sul “Corriere”. A me l’ha fatta notare un alunno, decisamente sorpreso, e io non ho saputo condire di parole il mio imbarazzo.

Alla domanda C6, un bravo studente avrebbe potuto rispondere correttamente ricopiando dal fascicolo un Url (!!!!!!!!!!!):

www.ferroviedellostato/areaclienti/condizioniditrasporto

A mano, con la penna.

“Un po’ come tracciare dei pixel a matita”, chiosa Latronico.

Un po’ come spedire il computer ad un amico utilizzando un corriere espresso. Ricordandogli di aprire in fretta quel pacco: dentro al computer, infatti, c’è una mail urgente da leggere.

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La prova INVALSI e la piccola rohingya

Non c’è mai la scuola aperta quando serve. Domani sarebbe servito. Invece la scuola sarà chiusa. Non letteralmente, perché i cancelli e i portoni si apriranno puntualissimi. Nella sostanza, sì. Chiusa, sbarrata, sprangata. “CHIUSA PER PROVA NAZIONALE INVALSI”, potrebbe recitare un cartello. Se ne starà nel suo bozzolo di meritocrazia posticcia, di oggettività un tanto al chilo. Rigorosamente con gli occhi chiusi,  allegramente al buio. Invece, anche se è giugno e fa molto caldo, avremmo dovuto esserci, insegnanti ed alunni, per parlare di una bambina.

Le cronache – quasi esclusivamente in inglese, in italiano ne accenna oggi Adriano Sofri nel suo pezzo da Oslo su Aung San Suu Kyi – dicono abbia un mese e mezzo di vita. È stata ritrovata alla deriva, a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Sembrava vuota, non lo era. Proprio come le scuole medie domani mattina: sembreranno aperte, non lo saranno. È riuscita a superare il muro eretto dalle autorità del Bangladesh al flusso di profughi rohingya (una minoranza musulmana) in fuga dalla Birmania. Centinaia di disperati che tentano da giorni di attraversare il fiume Naf, confine naturale tra i due paesi asiatici.

Raccolta dall’imbarcazione – involontaria ruota degli esposti – la bambina è stata affidata a una generosa famiglia di pescatori, che le ha prestato le prime cure.

Non ci sarebbe stato molto altro da aggiungere, domani a scuola. Le belle favole bastano a se stesse. I ragazzi sarebbero tornati a casa gonfi di pensieri da cullare, e il prof. si sarebbe chiesto – immaginandoli sdraiati su un prato o smarriti davanti a una finesta: “non avrò mica dato troppi compiti?”.

(Vecchie “battaglie” contro l’Invalsi…: qui, qui e qui)

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Le storie di Scuolamagia, Soletta

Quando la melma è melmosa, il racconto* di Marimù

Era una buia notte di settembre, il 2 settembre. Fuori pioveva, la casa era vuota, c’ero solo io, sola. Entrai nel salotto e mi buttai sul divano. Il telecomando che era sul divano, quando mi buttai, rimbalzò e io lo presi al volo.

Premetti il tasto “Entra” e finii sul canale Italia1, sul sei, dove trasmettevano “Il mostro della palude”, un film dell’orrore.

Quando, ad un tratto, apparve sul telecomando uno strano nuovo pulsante, io lo schiacciai per vedere cosa fosse e la Tv mi risucchiò nel film e mi ritrovai in una melma melmosa e viscida di color verde. Insieme a me c’erano altri tre ragazzi, anche loro risucchiati dal film. Uno si chiamava Cha Hio e proveniva dalla Cina, aveva la pelle giallastra, gli occhi marroni e anche i capelli marroni e aveva un naso grande e schiacciato. Poi c’era una ragazza argentina di nome Cristina; aveva i capelli color biondo, gli occhi azzurri e aveva una maglietta rossa con scritto “I LOVE ARGENTINA”. Da lì ho capito da dove provenisse.

Poi c’era un africano: è stato facile capirlo, aveva una carnagione scura ed era vestito non come noi, ma con una specie di tunica.

Eravamo tutti terrorizzati, quando abbiamo visto delle bolle in mezzo alla palude e da lì è spuntato un mostro di color arancio, alto due metri e mezzo e aveva due braccia grandissime, con due mani enormi, con delle unghie affilatissime. Camminava come un umano. Ci ha guardati per un po’. Noi dalla paura non ci riuscivamo a muovere. Eravamo fermi come statue.

Dopo dieci minuti si è avvicinato e ci ha detto “caliacamaciatoia”, ma nessuno lo ha capito, a parte il cinese che ci faceva dei segni. Solo dopo un quarto d’ora abbiamo capito, il mostro aveva detto “BUON APPETITO” e allora siamo corsi via, con lui che ci inseguiva. Ma noi per la paura eravamo più veloci. Poi mi sono girata e da lontano ho visto una Tv… era un po’ da pazzi il mio piano, però ha funzionato. Mi sono messa a correre ancora di più e mi sono buttata sullo schermo. Sono atterrata sul divano e ho giurato che non avrei mai più guardato la Tv.

Purtroppo non sono riuscita a mantenere la promessa.

(* mi sono assentato per un paio di mattine, qualche giorno fa, il tempo di portare i grandi in gita a Firenze… i piccoli, nel frattempo, li ho messi al lavoro indicendo una sorta di concorso letterario con tanto di giuria esterna. Il nostro premiostreghetta, il nostro campiellino… Ha vinto il racconto di Marimù, di misura su altri bravi autori esordienti… In premio, tra le altre cose, c’era anche la prestigiosa :roll:  pubblicazione sulla Pozzanghera…) 

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L’uomo che metteva gli alberi

Oggi mi ha colpito una parola. L’ha usata un boscaiolo in un video che abbiamo visto a scuola, mentre un ingegnere utopista ci stava raccontando il suo sogno di legno. Davanti ad una superpianta, centenaria, destinata a diventare trave, scelta per sorreggere un tetto, un bestione da tagliare, atterrare, stroncare, abbattere, schienare, far cadere, far stramazzare, decapitare o come cavolo avrei detto io, l’esperto mago della motosega – al minuto 0.53 – dice soltanto: “l’unico punto in cui la posso mettere…”. Mettere??? Sì, mettere, proprio come fosse una copia del “Corriere della Sera”, la custodia di un paio d’occhiali, una scatola di pennarelli.

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Per questo canto una canzone triste triste triste

Alle otto meno un quarto di sabato 19 maggio, nell’hotel forentino in cui alloggiavo coi miei alunni avrebbe dovuto suonare la sveglia. Non l’ha fatto, almeno per me e per le ragazze della 3ª C. Eravamo infatti già usciti dalle sei, per la corsetta mattutina con cui sono solito far concludere le gite scolastiche, per un saluto alla città – qualunque essa sia – ancora sonnecchiante prima dell’invasione dei turisti.

La stazione, Piazzasantamarianovella, il Lungarno, Pontesantatrinità, Pontevecchio, Piazzaledegliuffizi, Piazzadellasignoria, Viadeicalzaioli, Piazzadelduomo, Viade’cerretani, ecc.

Un sereno tour nella bellezza sempre spiazzante di una città incredibile, mentre altrove, ma sempre in Italia, in quei medesimi istanti, si stava per compiere l’itinerario opposto, la corsa verso un baratro. Anche quella una storia di ragazze, poco più grandi di quelle che hanno corso a fianco a me, sorprese dalla rinuncia a quell’impresa da parte della componente maschile della classe, stremata dalle fatiche notturne alla playstation.

Qualche ora dopo quel fuoriprogramma estetico-atletico, ho pensato che i miei utenti-adolescenti dovessero sapere quel che continuavo a leggere in maniera convulsa dal display del telefono. Cosa cinguettassero quei tweet. Li ho radunati, quasi al centro di Piazzalemichelangelo, la città sullo sfondo, e ho detto loro quel che sapevo. Il fatto, dove e quando, le prime ipotesi, senza protendere per nessuna, senza sbilanciarmi. Era giusto fossero messi al corrente, anche solo per un attimo prima di rituffarsi nella loro gita spensierata. Era giusto che potessero dire – per prima l’ha fatto una ragazza – “bastardi”. 

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Un migrante lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia

Sul campetto d’erba sintetica planiamo in macchina dall’alto. Non stona quel prato finto, piazzato in quello scenario di boschi e montagne e cielo. Ragazzi e bambini già corrono dietro ad un buon pallone bianco (mi ero raccomandato, fissando l’appuntamento: “niente robaccia sgonfia, sbrecciata, sghemba, ovale…), qualcuno gironzola con la bici, inquieto, nel parcheggio. Tra tante parole sovrapposte, le prime, spicca “Prof.”, ma non è me che stanno aspettando. Aspettano Lui, l’ospite. Enaiatollah scende dalla macchina e si sgranchisce; viene da un duplice incontro nelle scuole. Ha parlato a più di 600 minori e la sua giornata di testimone non è ancora finita. Ora però lo attende una pausa. Un’idea di Martina – “ma facciamo una partita insieme a lui?” -, nata sul banco, le parole di Nel mare ci sono i coccodrilli tra le mani e gli occhi proiettati verso un pomeriggio di sole che verrà.

Martina ora è tra i pali, il suo nuovo ruolo dopo aver tentato una carriera da difensore. Comincia la partita. I ritmi sono blandi, come si dice: fasi di studio. Soltanto che ad essere studiato è solo quel ragazzo che è vestito di nero ma non sta sudando e non suderà, il protagonista di quel viaggio così incredibile. Ora però sta viaggiando lungo la tua stessa fascia, si muove leggero nella tua stessa area. Esiste, ci puoi sbattere contro. Se non stai attento ti può fregare il pallone. No, anzi, te lo frega anche se stai attento. Perché è forte Enaiat, è veloce ed elegante. Sembra danzare, fa le veroniche e i colpi di tacco. Ha un vasto repertorio di colpi e soprattutto ha visione di gioco. Colpisce questa simmetria con le capacità oratorie dimostrate negli incontri pubblici. Cogliere il senso di una domanda, custodirla come un pallone prezioso tra i piedi farla andare nel posto giusto: verso un concetto che allarga l’orizzonte, verso una sintesi che illumina uno scenario. Piccoli lampi di genio, su un campo di pallone così come in un teatro straripante di bambini. E tanti passaggi, precisi, sul piede, col contagiri, da calciatore altruista. Racconta di quando andava a scuola lui, a 10 anni, in un altrove lontanissimo, ed ecco che ti scodella subito sul piede, il tuo, il senso ultimo della tua istruzione, del tuo crescere apprendendo. Assist perfetti.

Il match procede, arrivano altri giocatori, altre ragazze si aggiungono a quelle già schierate.

L’unica differenza tra l’Enaiat calciatore e l’Enaiat “conferenziere” è presto detta: il primo non segna, il secondo sa fare gol. Sull’erba la rete preferisce lasciarla gonfiare a Francesco e a Manuel, che ne hanno bisogno come di respirare, a Pietro, che è piccolo e suoi gol valgono il triplo, a Cristiano, a Camilla, a Thomas, a tutti. Quando stringe tra le mani un microfono, il ragazzo che non conosce la sua età a volte tiene invece la palla per sè, come fanno i fuoriclasse, e fa quello che agli altri, a quelli normali, non riuscirebbe. Perché è giusto così, per salvaguardare la bellezza, perché le parole indimenticabili non escono dalla bocca di tutti. Così, un paio d’ore dopo quella partita, con qualcuno dei giocatori che è addirittura riuscito a farsi una doccia, ecco un giovane migrante venuto da Nava, Afghanistan, invitare un centinaio di italiani a leggere Se questo un uomo, ricordare loro quanto è preziosa la Costituzione che li tutela ogni giorno, invitarli a diffidare della democrazia esportata qua e là maldestramente con la guerra, senza diffondere quei semi di pace che saprebbero essere le scuole, i libri, le idee.

Qualcosa come una tripletta, prima del triplice fischio. Enaiatollah deve ripartire. Prima stringe mani, abbraccia. È affaticato, si vede: anche lui prova stanchezza. Poi va, non prima di aver risposto al mio alunno che scherzando gli aveva chiesto “facciamo cambio di nome?”. Ovviamente è un sì: quello strano baratto si può fare. L’importante è aver riempito quella scatola – il proprio nome – di azioni giuste e di dignità, dice.

E fa un ultimo gol, segnato a tempo scaduto. Ma è buono lo stesso.

(foto di Elena, grazie)

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