Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Cose da fare, prima che sia troppo tardi

La notizia è finita in prima pagina. A prima vista sembrava una di quelle un po’ farlocche, in genere fatti di costume, spesso legati a una nuova statistica o a qualche scoperta scientifica destinata a rivoluzionarci la quotidianità. Invece era una notizia succosa e bisognava soltanto spremerla con pazienza. L’abbiamo fatto a scuola, una mattina come tante, matita alla mano. Dice che in Inghilterra i ragazzini cadano ormai più dai letti che dagli alberi. I numeri dei pronto soccorsi parlano chiaro. Perché? Semplice: troppa Tv, troppa consolle, troppo cemento, troppa merenda. Da qui una campagna per promuovere e valorizzare le attività all’aria aperta, con un elenco di 50 esperienze fondamentali, un cursus honorum da percorrere entro e non oltre i 12 anni.  

È quindi entrata in gioco la matita. Gli alunni hanno percorso l’elenco: su e giù, giù e su. Voce del verbo: spuntare. Per una sorta di contrappasso scolastico, gli studenti dalle pagelle più brillanti hanno cominciato ad innervosirsi, a grattarsi la testa, a cavillare (prof., ma va bene anche se non è il mare ed è solo un lago? Vale anche se è una coccinella e non una farfalla?). Al contrario, quelli che “possonofaremoltodipiù”, quelli che “nonstannomaiunattimocomposti”, quelli che “nonèuncinquemanonèneancheunsei” hanno acquisito un’insolita fierezza, taluni ipotizzando addirittura un en plain.

Per casa: individuare altre attività che, svolte prima del compimento del dodicesimo anno, possano evitare ad un essere umano di stramazzare sulle proprie pantofole.

Ecco alcuni spunti, freschi di lettura e correzione.

Fare una gara a “chi trova per primo 5 quadrifogli”.

Raccogliere erbe selvatiche per fare una buona frittata.

Rubare i lamponi dal cespuglio del vicino.

Costruire un igloo molto grande.

Acchiappare una rana colle mani.

Fare almeno una volta la pipì all’aperto.

Sparare ad un gatto randagio con la pistola a pallini (utile per chi voglia entrare nell’esercito).

Sperimentare l’eco in montagna.

Scavalcare un cancello.

Suonare un campanello e scappare.

Raccogliere castagne in un bosco.

Fare la ribaltata.

Fare finta di avere un ristorante all’aperto, cucinando brodaglie con acqua e erba.

Raccogliere margherite e farne dei braccialetti.

Andare sull’altalena.

Contare le formiche che entrano in un formicaio.

Individuare la forma delle nuvole.

Arrivare in cima a una montagna e scrivere il proprio nome sul libretto.

Mangiare un insetto vivo.

Dare da mangiare ad una mucca o ad un cavallo direttamente dalla propria mano.

Al mare fare castelli di sabbia o distruggere quelli degli altri bambini.

Correre in un prato con l’erba alta fino al bacino.

Giocare a nascondino al buio.

Picchiare il proprio fratello.

Nuotare contromano in un fiume.

Giocare a Puzza.

Giocare a “chi finisce prima una bottiglietta d’acqua” (anche se una volta M. ha vomitato…). 

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Tanto tuonò che nevicò

Ieri e oggi a Scuolamagia c’era un ragazzino nuovo. Veniva da lontano, era un ragazzino siculo. Salito eccezionalmente con il padre, il pendolare più pendolare del mondo: Ragusa-Forni Avoltri ogni settimana per una giornata di lavoro. Robe da matti, robe da finire sui giornali. Robe distorte da “scuolaitaliana”, ma anche robe che se non accadessero – conosciuto l’uomo e apprezzato l’insegnante – bisognerebbe farle accadere.

Quasi a voler fare un regalo a quel dodicenne piombato da una realtà così differente, oggi – annunciata da alcuni tuoni assurdi – è arrivata la neve. Pesante, come quest’anno mai, nemmeno in gennaio. Caparbia, tenace. In poco più di un’ora ha riempito il cortile, lo stesso in cui già da un paio di mesi il pallone lo si stoppa con i calzoncini corti e ginocchia e gomiti – liberi dai tessuti – si sbucciano che è un piacere.

Il ragazzino l’ha prima toccata con le mani, la neve del 24 aprile, poi ha raggiunto il centro del grande spazio per accoglierla tra tra i capelli, sulle guance, in bocca.

«Papà, posso fare l’angelo?».

Il mio collega, che dallo sguardo non deve aver capito granchè di quella domanda, ha abbozzato una richiesta di chiarimento, per poi subito abortirla.

«Sì».

Lorenzo si è sdraiato, faccia al cielo. Gambe e braccia divaricate. Un piccolo uomo vitruviano inscritto nella neve.

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Quel giorno pioveva

C’è il bel racconto lungo di Paola Zannoner, con dentro una ragazzina che finisce quasi per caso in Piazza della Loggia, quel giorno del 1974. Un racconto coraggioso, pubblicato prima da solo e poi raccolto in un volume con altre 3 storie. Non sono davvero sicuro che abbia senso mettere quei fatti nelle mani di un tredicenne. Nemmeno noi adulti li abbiamo capiti. O meglio: li abbiamo capiti benissimo, sappiamo tutto ma non abbiamo le prove e soprattutto non abbiamo messo le pezze dove servivano, abbiamo lasciato gocciolare il rubinetto rotto. E lui, il tredicenne, che idee si può fare? Una specie di minuscolo 11 settembre? Ma chi è il nostro Bin Laden? Chi glielo spiega. Non starò seminando una malsana angoscia, con le mie fotocopie?

Ho saputo poi che l’esplosione si era sentita a diversi chilometri di distanza, che per lo spavento tanta gente aveva smesso di lavorare o aveva interrotto quel che stava facendo.

Ho saputo che erano morte otto persone e che più di cento erano rimaste ferite. E che la bomba era nascosta in un cestino dei rifiuti, sotto il portico. Se fossi rimasta nel punto in cui mi ero fermata a leggere il volantino, forse sarei morta anch’io.

[…]

Perché polizia, carabinieri, vigili del fuoco, tutti erano accorsi nella piazza devastata. E parte delle forze dell’ordine erano già lì, a guardia della manifestazione che si era trasformata in una trappola mortale. Così, mentre le ambulanze arrivavano ululando e la gente accorreva verso la piazza, lasciando i negozi e le auto e le case, io andavo verso la stazione dei pullman senza udire niente intorno a me.

E mentre me ne stavo seduta a fissare lo strappo nel seggiolino, erano arrivati gli idranti dei vigili del fuoco a lavare la piazza bagnata dalla pioggia e a spegnere un incendio che non c’era, cancellando le tracce dell’ordigno, spazzando via i detriti e tutto quello che, nei film americani, i detective chiamano indizi.

Paola Zannoner, Quel giorno pioveva

 

(Nel mio librino scopro anche delle righine sottolineate. Non da me, il meraviglioso vizio l’ho preso in seguito. Però ho sempre lasciato piena libertà – libertà di matita – agli abituè dei miei prestiti. Ricopio e sottolineo:

 

Ma non è mai così, non si può fermare niente, di certo non il tempo e quello che alcuni chiamano il destino. Qui poi non c’entrava il destino, ma l’idea di qualcuno, un’idea capace di diventare azione e devastazione. È pazzesco, ma cose del genere nessuno le ferma, nessuno le può fermare.)

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ɐʇɐıɔsǝʌoɹ ɐl

Al ritorno dalle vacanze, scruto Francesco alzarsi a fatica dal banco, imprecare per qualcosa come una fitta, o un colpo di pugnale. Le mani, entrambe, corrono a puntellare la schiena, epicentro del male cane. Poi il ragazzo fa passetti piccoli, per raggiungere la porta e respirare, rito indispensabile ad ogni cambio d’ora. Va detto che la scena è stranissima, perché Francesco è un prodigio di energia ed agilità, pura potenza di montanaro mista a sangue e fibre caraibici.

Mi avvicino e mi informo preoccupato, ipotizzando incidenti stradali o fastidiosi contraccolpi in un corpo che cresce a vista d’occhio.

Niente di tutto ciò. Con la naturalezza di chi altro non ha fatto che il suo dovere, mi spiega la ragione di quel claudicare:

«Non è niente, prof., ho solo fatto troppe rovesciate volanti…»

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Federico ha voluto la bicicletta e adesso pedala

Farei un torto a Federico se affermassi qui che gli piace scrivere. Gli piace raccontare, quello sì, e so benissimo che è un’altra cosa. Su un blog, quando dentro un post hai inserito una foto e vuoi che gli altri capiscano, tocca aggiungere anche qualche parola e allora Federico lo fa. Che non gli piace scrivere si vede da come strapazza i fogli su cui si applica a scuola. Magari basta soltanto tracciare quattro crocette (e lui le traccia quasi sempre nella casella giusta), eppure il suo test sembra essere passato attraverso un sistema di presse idrauliche, cesoie industriali, macchine punzonatrici.

Raccontare quello sì, quello gli piace un sacco. A volte sembra abbia vissuto già 14 vite e non 14 miseri anni.

Ieri, ad esempio, si è messo lì alla quarta ora e ha detto al mondo di essere il proprietario di una fiammante bicicletta nuova. Un animale a due ruote su cui investirà energie e passione nei prossimi mesi, in attesa di ricalzare gli altrettanto amati sci. Un animale che forse dovrà imparare a domare un po’ meglio, specialmente in discesa, per evitare che il suo prof. debba scrivere di lui, al passato: «a Federico piaceva raccontare…”.  

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La Marilyn di Noemì

Quando Noemi è entrata a Scuolamagia, io non l’ho soltanto accettata, con i suoi pregi e i suoi difetti; io l’ho pure acceNtata. Nei panni di Noemì ha trascorso 3 intensi anni della sua vita prima di andarsene, con decisione unilaterale che non non ho mai digerito del tutto, a compiere studi liceali.

Qualche settimana fa, in biblioteca, stava cercando su Google immagini di Marilyn Monroe. Le servivano per uno dei suoi disegni, e alla fine la decisione è stata collettiva: sua, mia, degli altri ospiti della biblioteca. Quella lì, con la collana di perle. Poi abbiamo cliccato su “stampa” e ci siamo detti bye bye baby.

Nei venerdì successivi ogni volta che l’ho incontrata le ho chiesto notizie della sua Norma Jeane Baker, manco fosse un paziente in sala operatoria. «Devo finirla», rispondeva. Oppure: «ci siamo quasi…». Confesso che dopo l’ultimo bollettino, piuttosto sul vago, ho deciso che non avrei insistito oltre. Nella vita ho cominciato mille disegni che non sono riuscito a terminare, ho iniziato racconti che si sono persi dopo un paio di facciate, ho pieni i cassetti di prime strofe di canzoni prive di ritornello. Mi sono sentito inopportuno e indiscreto. La Marilyn Monroe di Noemì aveva tutto il diritto di giacere appallottolata nel cestino della carta, sotto la scrivania.

Parole in questo post ce ne son troppe. Com’è finita questa storia l’avete già capito.

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Daniele

Forse i Maya non avevano previsto catastrofi spettacolari, hollywoodiane. Probabilmente sapevano che il 2012 ci avrebbe portati via uno alla volta, con metodo, così come si sfoglia un calendario. Un giorno un cantautore, il giorno dopo un poeta. Oggi è toccato al mio amico Daniele.

Era stato il mio capo, al tempo in cui ero un obiettore di coscienza in un sindacato. All’inizio il mio compito era quello di fotocopiare i suoi interventi pubblici sulle più scottanti questioni economiche e sociali di questa terra, col tempo ho avuto l’onore di leggerli in anteprima e discuterli con lui. Un giorno gli dissi che la sua prosa mi ricordava quella di Cossiga, che all’epoca imperversava sul “Corriere” con certi caustici editoriali. Sapeva che a me Cossiga faceva piuttosto schifo, ma era contento ugualmente. Alla fine di quella parentesi nel sindacato, ero diventato il suo vignettista satirico di riferimento, e più cattiveria ci mettevo nel rappresentarlo e più lui si divertiva.

Poi l’ho ritrovato su Facebook, e insieme abbiamo chattato di questo mondo tutto da leggere e capire. Ogni tanto sembrava volesse rimproverarmi: gli sembravo rassegnato e mi ricordava che quel ruolo doveva essere il suo, non il mio. Io avevo ali che lui non aveva più, e avevo già perso l’entusiasmo che in lui bruciava ancora.

Daniele amava Scuolamagia ed era un attento lettore della Pozzanghera: una volta gli avevo chiesto di tradurre in lingua friulana alcuni passi dell’Eneide. Le sue perplessità si erano presto sciolte e i miei cuccioli avevano declamato i suoi versi nello spettacolo di fine anno. Aveva fatto dire a Didone, disperata: «Ah parcè m’illudio, ce chi mi spieti? / Si esal forsit ingropât a jodimi vaì? / No l’a batut cej, nencja un sospir, / nencja una lagrima par me che i vuei ben…». Si era messo dalla parte di una donna, proprio come quando si batteva energicamente perché aumentassero i posti di lavoro femminili nell’Alto Friuli.

Una volta, prima di partire per la Cina, gli avevo promesso un souvenir. Girando per Pechino, però, non avevo trovato nulla che potesse resistere al vaglio di un suo ruvido e cinico commento, avevo così ripiegato su un oggetto che fosse un simbolo di quell’altrove di cui avevamo tanto parlato. Un quadernino grande un palmo di mano, lo strumento su cui i bimbi del Celeste Impero tracciano a sinistra i loro caratteri e a destra li traducono in inglese, esercitandosi a conquistare il mondo. Un reperto del presente, al modico prezzo di mezzo dei nostri centesimi. Più di quello che sento di valere io, che quel quadernino marrone non gliel’ho mai consegnato.

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C’è farfalla di Belen e c’è la farfalla di Tonino Guerra

Io di Tonino Guerra ho letto solo una poesia. Sei versi in tutto. Ma da quel giorno non li ho mai dimenticati.

 

Contento proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando mi hanno liberato
in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.

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Macchinina rossa la trionferà

Ho accompagnato Erica Boschiero in un tour didattico-musicale all’interno di alcune scuole. Cos’è una cantautrice? Cosa fa di bello? Serve a qualcosa? Questa era la missione: trovare una risposta ad un pugnetto di domande, regalando magari qualche inaspettata emozione, di quelle che sanno consegnarti bell’e impacchettate certe chitarre e certe voci.

Mi sono quindi immerso in un laghetto di occhi piccoli, più piccoli di quelli a cui sono abituato, e ho ascoltato vocette minuscole interrogare quell’ospite speciale dopo aver sollevato, ma molto più in su di quanto sarebbe bastato, braccine minime, palmi irrisori, ditini aghi di pino.

Alcune istantanee.

Un biondino chiede la parola e butta lì il suo quesito: “hai mai fatto concerti…”. Normale curiosità per chi siede davanti ad una musicista e normale amministrazione formulare una risposta, se solo la domanda si fosse fermata lì.

“Hai mai fatto concerti a Pisa?”: il capolavoro tutt’intero. Per la cronaca: no. Non ancora, ma a cosa stava pensando quella bionda creatura del demonio? Alla chitarra di Mazzini? Vai a saperlo…

Procediamo.

Altra manina in cielo, dopo che Erica ha eseguito la sua 3.32, canzone composta dopo il terremoto abruzzese del 2009, e ha proiettato le foto di alcune case crollate. “Ci mostri anche le foto dello tsunami?”.

Infine.

Ascoltato il brano La girandola, nel quale va in scena la vita grama di un bimbo di strada in una Parigi lontana nel tempo, e nella fattispecie orecchiato il verso “grigi gli occhi di un bambino morto prima di morire”, un altro fenomeno di un lustro e mezzo chiede lumi, piuttosto allarmato: “come si fa a morire prima di morire?”. Sembra incredulo, ma forse ha già capito che si può, e che a qualcuno meno fortunato può ancora capitare. Scacciato il pensiero brutto, che inevitabilmente tornerà, è poi salito anche lui con gli altri – e con Erica, e con me – su una macchinina rossa che se l’è portato via.

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E rinasce un fiore sopra un fatto brutto

Pomeriggi facili facili, in cui Scuolamagia riapre i battenti per ripassi assortiti, limatine alla preparazione dei ragazzi, un rabbocco d’olio alla lettura, ordinaria manutenzione dell’ortografia. Per me si tratta di aspettare un’ora, il tempo che gli studenti vadano a casa a fare la pappa prima di rituffarsi nel loro sporco lavoro che qualcuno lo dovrà pur fare.

Negli anni è capitato, qualche volta. Il cucciolo alle 14.00 arriva, bussa, io apro e nelle sue mani c’è qualcosa per me. Forse il primo è stato Paolo, con un gelato all’amarena, direttamente dal frigo del suo bar. Poi ricordo Ilaria con un bignè, deformato dopo la corsetta verso la scuola, il frutto di un esperimento della madre in cucina, al termine di un corso di pasticceria. Martina mi ha consegnato per un bel periodo un mandarino, uno dei due che le servivano alla mensa.

Oggi nelle mani di Nicole per me c’era una notizia. “Nelle mani” non è l’espressione più corretta, “sulla mano” va meglio. C’era una cosa che forse non sapevo, lontano da casa e dalla Tv, e probilmente non mi avrebbe lasciato indifferente. Sarebbe stata anzi una di quelle di cui poi magari a scuola si parla pure: per inquadrarla, per approfondirla.

Io sapevo già tutto da certi cinguettii che arrivano veloci, anche troppo, quasi in tempo reale, ma preferisco credere di aver trattenuto il fiato davanti alla voce di Nicole: Prof., sai che è morto – pausa, mano – nome e cognome.

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Un racconto di Nicola Poe

No, non si tratta di gelosia. Nicola crede davvero che il suo racconto non sfiguri di fronte a quello di Arianna. Anche lui ha spremuto la sua fantasia come un limone e il suo immaginario come un pompelmo. E chiede spazio. E vuole nuotare nella Pozzanghera. Ve la sentite, dopo aver conosciuto Allegra, di incontrare un’altra bambina mostruosa?

(Premetto che conosco il mondo dell’horror come quello della meccanica quantistica e che quindi le creazioni particolarmente splatter dei miei alunni sono il risultato di autonome interpretazioni di una vaghissima traccia libera… Insomma, non sono io a chiedere tutto quel sangue…, nel caso vi foste fatti strane idee…)

 

C’era un ragazzino che un giorno, giocando a nascondino nel bosco, si perse.

Vide una casa, si avvicinò, arrivato vicino alla porta sentì delle voci: «Non varcare la soglia di questa casa, perché è maledetta. Se entrerai morirai».

Il ragazzo curioso entrò, anche dopo tutti gli avvertimenti, e la voce tornò: «Non dovevi entrare, ti avevo avvertito, adesso morirai», disse dissolvendosi nell’aria. Ad un certo punto le porte si chiusero ed il bambino cominciò a gridare: «Aiutooooo! Aiuto! Salvatemi!!!». Poi lui si mise a piangere per la paura, e dopo un po’ si sentirono un carillon e un ritornello che faceva così: “LA LAAA LA LA… TI UCCIDERÓ NEL SONNO CON UNA MORTE LENTA E DOLOROSA… LA LAAA LA LA… IH, IH, IH”.

Il ragazzo scappò e si nascose dentro un armadio, ma lì lui sentì puzza di cadaveri e quindi uscì e vide una ragazzina camminare per il corridoio, e lui, con la sua curiosità, la seguì fino in un bagno pieno di specchi, ed ogni specchio in cui lui guardava c’era sempre la stessa figura e la figura era una bambina con i capelli che le coprivano la faccia, con uncini insanguinati al posto delle mani. Camminava all’indietro con la schiena inarcata, a quattro zampe, con la testa girata. Ad un certo punto la porta di legno si chiuse e dallo specchio, uno dei tanti, uscì la figura demoniaca della bambina. Il bambino scappò sfondando la porta che ormai era vecchia e marcia. Quindi si nascose sotto una scrivania, ma sopra di lui c’era il demone, quindi il ragazzo scappò pure da lì. Arrivato in cucina, si fece un po’ di coraggio, prese due coltelli e andò a cercare il mostro per ucciderlo, ma non lo trovò perché era sopra di lui.

Quando il bambino si fermò per capire dove si trovasse il mostro, delle gocce di sangue caddero dal soffitto su di lui. Alzò lo sguardo, ma il mostro era sparito, quindi continuò le ricerche. Arrivò in uno scantinato buio, dove ad un certo punto si accese una luce e su un muro si vide una scritta indecifrabile fatta di sangue e lì sotto c’era una tomba aperta con scritto: «QUI GIACE MARY, LA RAGAZZA DEMONIACA CON LE MANI MUTILATE».

Il ragazzo si girò e vide il mostro. il mostro lo guardò, poi gli tagliò le mani e lo buttò nella tomba. E gli disse: «FARAI LA MIA STESSA FINE…».

Nel posto dove prima c’era scritto «QUI GIACE MARY, LA RAGAZZA SENZA MANI» adesso c’è scritto: «QUI GIACE IL RAGAZZO SENZA MANI».

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Un racconto di Arianna King

Quando gli alunni hanno tra le mani una bella storia te ne accorgi subito. Si immergono dentro i loro fogli come dentro un tratto di mare pescossissimo. Cambiano la posizione sulla sedia, ma si tratta sempre di posture performanti, mai rilassate. Se sono ragazze si spostano con grande frequenza i capelli dagli occhi. Rileggono con cura e compongono il plico – brutta + bella – con qualche cerimoniosità in più rispetto al solito. Giovedì Arianna aveva una gran bella storia da infilare nel foglio di protocollo, sotto lo smalto colorato delle sue unghie.

È da tanto che non ospito un tema nella Pozzanghera. Eccolo.

 

Come tutte le mattine d’estate, dopo essermi preparata, vado a chiamare mio cugino Diego.

La scorsa estate lui, mio fratello, mia sorella ed io abbiamo iniziato a costruire una capanna nel bosco di Frassenetto, il paese vicino al mio. Di solito andiamo tutti insieme a costruirla, ma i miei fratelli stanno male e quindi da un paio di giorni ci lavoriamo solo Diego ed io. Corro in camera sua e lo trovo a letto, ammalato anche lui. Allora prendo la bici, lo zaino con il pranzo, i chiodi e il martello e vado da sola a Frassenetto.

Dopo pochi minuti sono arrivata e comincio a lavorare. Circa mezz’ora dopo vedo un daino magrissimo, mi vede anche lui e comincia a scappare. Lo seguo e mi conduce ad una capanna abbandonata che non avevo mai visto. È un po’ rovinata, ha travi vecchie e marce. Le finestre hanno i vetri rotti e la porta ha delle strane incisioni sopra, sembrano dei simboli…

«Che ci fai tu qui?!», mi dice una voce. Mi volto e trovo una bambina di circa 11 anni, magra, con gli occhi spenti, pallida. Indossa una camicia da notte grigia e tutta rovinata, ha i piedi scalzi.

Nella mano destra stringe una bambola di pezza e con la sinistra accarezza il daino. Io le rispondo: «Stavo seguendo quel daino e poi mi sono trovata davanti a questa capanna… Comunque scusa. Se questa è proprietà privata non lo sapevo. Mi chiamo Arianna, tu?». Lei mi guarda un po’ stupita, come se non si aspettasse quella domanda. Ci pensa su e mi risponde: «Allegra. E lui è Lief», e indica il daino. Io la saluto e torno a casa. Arrivata racconto a tutti dello strano incontro.

Quella sera mio nonno mi chiede il martello e solo allora mi accorgo di averlo lasciato alla capanna misteriosa. Prendo la bici e mi precipito a Frassenetto a prenderlo. Arrivo a destinazione e lo trovo poco lontano dalla capanna. E all’improvviso sento la voce di Allegra che recita una cantilena, mi giro e la vedo tortutare un uomo! Mi nascondo dietro un albero e continuo a spiarla, anche se la cosa giusta da fare sarebbe chiamare la polizia e scappare da quel posto maledetto! Allegra non si è accorta della mia presenza e continua a canticchiare quelle strofe ipnotizzanti mentre tortura quell’uomo. La vittima non fa rumore, ma riesco a vedere l’espressione di dolore sul suo volto… In quel momento mi squilla il cellulare! Allegra si gira e mi fissa con rabbia dai suoi occhi spenti! Cerco di scappare ma sono paralizzata, e intanto il telefono continua a suonare! Finalmente ritrovo il controllo del mio corpo e comincio a correre, ma dopo pochi metri Lief e Allegra mi hanno già raggiunta e io sono bloccata dai rami di un albero. Allegra mi si avvicina e con la sua vocetta mi dice: «Seguimi…». Le mie gambe cominciano a muoversi in direzione di Allegra anche se la mia mente urla: «Scappa, Ari!».

Arriviamo nella sua capanna, lei apre la porta e un raggio di luna illumina l’interno. Con mio grande orrore vedo un sacco di corpi mutilati, teste sgozzate appese a dei bastoni, sangue ovunque. «Loro sono i miei genitori», mi spiega Allegra indicando due corpi con la testa ancora appesa al collo, ma senza occhi e con il busto aperto da cui escono tutte le interiora! Lief ne sta mangiando le budella… mi viene da vomitare. Allegra comincia a raccontarmi la sua storia.

«Era il 1600 e io ero piccola. Ero una bambina strana, che giocava con la magia nera e che veniva temuta da tutti. Una notte i miei genitori mi portarono nella piazza di Frassenetto. Poi vennero tutti gli abitanti del paese e cominciarono a gridare: “A morte la strega!”…»

Fa una breve pausa e vedo che le tremano le mani e le lacrimano gli occhi.

«Dopo mi gettarono giù per un burrone. Mentre cadevo lanciai loro una maledizione: sarei tornata e mi sarei vendicata. Dopo 411 anni la maledizione si è avverata e io ho avuto la mia vendetta. Quello che mi hai visto torturare prima era l’ultimo che dovevo punire. Ora posso riposare in pace». E così dicendo comincia a sparire. Io le urlo: «E questi cadaveri?!». «Hanno avuto quel che si meritavano», mi risponde. Poi non la vedo più.

Esco da quella maledetta capanna sperando di non aver lasciato impronte, in modo da non venir accusata di omicidio.

Torno a casa, do il martello a mio nonno, mi infilo sotto le coperte e spero di dimenticare tutto.

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Fiori di biblioteca (5)

C’era una volta, in onda su questo blog, una rubrica che si chiamava “Fiori di biblioteca”. Si trattava di piccoli quadretti, istantanee, il racconto di gesti e parole minimi incrociati nei miei venerdì pomeriggio nel paese di Scuolamagia. Erano Fiori proprio perché fragili e spontanei, fatti legati a persone carissime ma viste poco e poco spesso, il tempo di una breve chiacchierata, il tempo di farsi consigliare un libro, il tempo di fare capolino con la testa dalla porta d’ingresso per un ciao al volo. Poi ho smesso. Poi la biblioteca ha addirittura cambiato sede. I fiori non hanno smesso di spuntare, anzi. Ho solo smesso di coglierli e portarli qui nella Pozzanghera, li ho soltanto guardati. Ho pensato spesso, però, immobile davanti alla poesia di uno di quegl’attimi, “…questo sarebbe stato un fiore”.

Ieri pomeriggio, nonostante il gelo che si spiava dalle grandi finestre, la mia biblioteca era una primavera. C’era A. con il cane enorme, una specie di orso bruno, e la cosa speciale era che lui a modo suo abbracciava lei, giuro, davvero, prima che lei abbracciasse lui. C’era M. pensierosa, troppo pensierosa, e veniva da strapparglieli via con le unghie, quei pensieri. C’era l’altra M., che coccolava avidamente il nuovo soprannome che le ho appioppato e raramente ho saputo fare meglio, in quella nobile arte. C’era… 

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La chiave di Sara ma anche la vasca di R.

R. è risoluta di natura. Giovedì mattina, venuta a conoscenza dei miei programmi per la Giornata della Memoria, mi ha raccontato a brutto muso un passato, negli anni della scuola primaria, fatto di filmoni pieni di immagini agghiaccianti che le sono stati sbattuti in faccia così, a tradimento, in una mattina di gennaio che per lei era soltanto una delle tante. Non si fa così, pensa R., perché c’è chi ce la fa, a sopportare la vista di quei corpi ammucchiati come stracci, e chi non ce la fa, come lei, che poi deve vedersela con certi incubi che neanche me li immagino. Perché io, continua R., non verso la lacrimuccia perché mi commuovo… Io riempio la vasca da bagno. E quasi comincia, R, a piangere. Ed è solo giovedì 26, e io non ho mostrato proprio nulla. Non ho nemmeno ancora detto nulla.

Io NON SONO D’ACCORDO con quanto scrive Carla Melazzini nel suo interessantissimo Insegnare al principe di Danimarca. No, non del tutto. Però alcune sue considerazioni mettono il dito nella piaga di una leggerezza con cui, anno dopo anno, si sono cominciati a celebrare certi riti, e a ripetere certe parole. Come se fossero scontati contenuti e modi, stili e approcci, tanto urgente pare essere l’imperativo morale di (FAR) RICORDARE.

Io NON SONO D’ACCORDO con Carla Melazzini, non del tutto almeno, e oggi ho parlato a R. e le ho mostrato immagini scelte con cura maniacale, ma ancora una volta mi sono trovato davanti ad una giornata che è in tutti i sensi un salto mortale, carpiato e all’indietro. Per atterrare su un filo.

 

La parola magica epidemica di questi tempi è senza dubbio “memoria storica”. La sua frequenza settimanale è impressionante, sulla bocca degli illustri pensatori come dei più umili professori. Suo obiettivo prevalente è di incolpare la gioventù – oltre che di tutto il resto – anche della svolta conservatrice in atto nel paese, in quanto priva della medesima (memoria storica).

Non mi capacito come gente così istruita possa dimenticare a un tratto (a proposito di memoria) ciò che la scienza e l’arte ci hanno insegnato sull’essere umano; e far finta di credere che esso sia non un labirinto ma una tavola di cera su cui basti incidere qualche buona parola, o un paio di capitoli del programma di storia, per esorcizzare il male.

Una risposta adulta tendente a schiacciare il giovane sotto la incontrovertibile verità dei fatti (la memoria storica) non può che ottenere l’effetto contrario: aumentare l’angoscia e la conseguente negazione.

Si aprirebbe qui un discorso sull’uomo, le sue angosce, le sue difese che, per quanto difficile e doloroso, avrebbe un duplice vantaggio: di attribuire ai sentimenti dell’adolescente – invece che una condanna sommaria – la drammatica dignità di un problema umano universale; e di offrire qualche spiraglio per una effettiva “assimilazione della tragedia” che è ben altra cosa da quella operazione intellettualistica, per non dire scolastica, che viene predicata sotto il titolo di “memoria storica”.

Trovo ingiusto caricare gli orrori del mondo sulle spalle fragili di una gioventù che non ha la responsabilità e non è tenuta a pagare i sensi di colpa degli adulti.

Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca

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Adriano Sofri e le tasche di Tom Sawyer

 

Niente male come prima azione da uomo libero. Interrogare un bambino molto sveglio, che a scuola dice di aver letto Tom Sawyer. Sì, ma cosa c’era nella tasca di Tom Sawyer? Una pallina, un topo morto legato col filo, un pezzo di gomma, una scatola di petardi e una piccola pulce. Risposta esatta: bravo il bambino e bravo Adriano Sofri, autore del quiz. Bocciato io, che quella lettura a suo tempo l’ho affrontata ma senza serbare il ricordo di un particolare decisamente non secondario.
Ho percorso il tragitto del mio ritorno in macchina da scuola facendo un gioco: cosa mi ha insegnato Adriano Sofri? Via, si comincia. Che le balene comunicano da distanze infinite, anche da un oceano all’altro, e che la globalizzazione le disturba. Che bisogna stare dalla parte delle ragazzine che salgono sugli alberi perché non vengano abbattuti. Che il futuro è appeso ai destini delle donne, specie delle donne iraniane. Che Sarajevo era uno specchio e che non si può non amare Israele, anche se si disprezzano le azioni dei suoi governi. Che la faccia di Alex Langer va stampata sulle magliette. Poi la strada è finita, mentre le cose imparate (e quelle capite) no. Sarebbero serviti altri chilometri, tanti chilometri.
Rincasato, poi, ho incontrato il suo nome tra i temi più dibattuti su Twitter. Molti si felicitavano, ma senza troppa fantasia: “Sofri è libero ma in fondo lo è sempre stato”. Suona bene, sicuro, ma a cosa sono servite tutte le sue parole sul carcere e sulla vita dei detenuti? Io mi sarò dimenticato del topo morto e della pallina di Tom Sawyer, ma c’è chi ha problemi di memoria molto più gravi.
Molti, moltissimi, esprimevano riprovazione e odio, e le solite parole d’ordine di una storia infinita. “Sofri è finalmente libero, ma quel commissario è ancora morto”. Come se scontare e non scontare una pena fossero la stessa cosa.
La scelta migliore, ancora una volta, quella dello stesso Sofri. Niente da dichiarare, proprio niente, con tante scuse. È proprio che non c’è, qualcosa da aggiungere. C’è altro da fare. Il mondo è pieno di bambini da interrogare. Chissà cosa nascondono nelle tasche.

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

L’allegro demiurgo

Per la legge un insegnante che lascia la sua classe incustodita è passibile di pene severissime e ci mancherebbe anche che non fosse così.

Oggi mi chiedevo, però, se la pesantezza della sanzione possa variare in base all’entità temporale dell’abbandono. Per dire, lasciarli soli 4 ore consecutive, i cuccioli, sarà più grave di lasciarli soli per 45 secondi, no?

Perché è davvero meraviglioso, nel corso dell’ultima ora del pomeriggio, quella più difficile dove affiorano feroci le stanchezze e si assottigliano le soglie di attenzione, quella dedicata per statuto al teatro, affacciarsi nell’aula spogliata di sedie e banchi e intimare serio agli undici corpi ciondolanti sulle piastrelle:

«Quando torno, tra meno di un minuto, dovete aver diviso la stanza in due, usando solo i vostri corpi».

(Tornare e apprezzare un cordone umano stretto stretto, sul lato corto, più affiatato di una nazionale ai mondiali durante l’inno…)

«Quando torno, tra meno di un minuto, sul pavimento al posto di 22 dovranno poggiare soltanto 9 piedi».

(Tornare e contare fino a 9 – missione compiuta – passando tra ragazzine che tengono in braccio ragazzine con una taglia in meno, piccoli atleti a testa in giù, le mani sulle piastrelle e una scarpa da ginnastica appoggiata al muro, adolescenti nella posizione della candela, ecc. ecc.)

«Quando torno, tra meno di un minuto, ognuno di voi dovrà indossare un indumento o un accessorio di qualcun altro».

(Tornare e ridere di scarpe spaiate, felpe enormi su corpi piccoli, piccole felpe calzate a fatica da corpi enormi, gli occhiali di Irene sugli occhi di Rebecca, la kefiah di Martina attorno al collo di Nicole…)

«Quando torno, tra meno di un minuto, voglio poter cercare una città su una cartina dell’Italia».

(Rientrare nell’aula, le cui pareti sono geograficamente libere, e fare l’appello, davanti ad uno stivalone di corpi plasticamente adagiati a terra, dov’è Torino? Risponde Luca. Treviso? Mattia. Palermo. Psst, Psst, Martina, sei tu… e Prof., che mal di schiena, a fare la Sardegna. Già, Marina, ma sembravi quella vera…)

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Apologia di Socrates

A dieci anni non aveva alcuna importanza il fatto che Socrates fosse comunista. Forse un po’ di più contava il fatto che avesse alle spalle studi da medico, tanto evidente era come i suoi compagni si fossero tenuti lontani pure da quelli da geometra e da ragioniere. Il centro di tutto erano i suoi colpi di tacco, liberi e irrazionali, a volte irragionevoli, per noi ragazzini delle giovanili che se soltanto ci provavamo, sul campo, venivamo sepolti di insulti da parte dei veterani della prima squadra, gente concreta, pochi fronzoli, “non fare Platini e passa il pallone prima che puoi”. Scoprire a un certo punto che si poteva “essere Socrates” fu una rivoluzione, nel cortile della scuola e nel campetto del pomeriggio. Non eri più lento e macchinoso, eri Socrates. Non eri egoista e poco incline al gioco corale, eri Socrates. Un nome di quelli da far risuonare nell’aria dentro le telecronache che si facevano e si fanno ancora da ragazzi. Racconti orali improvvisati e folli: una partita finiva 3 a 2 e potevano esserci stati anche 4 goal di Socrates, 2 per parte, e poi dicono che il calcio non affratella.

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Imago, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Lezione di didattica incendiaria


Capita di leggere saggi ultraspecialistici per professori d’assalto e non ricavarci un fico. Capita di sfogliare distrattamente, in treno, l’inserto femminile di “Repubblica” e percarci un’ideona da sbattere sui banchi dei ragazzi come un poker d’assi. Gente, casa vostra sta bruciando. Lo dice un sito molto trendy. Sì, ve ne siete accorti anche voi, quella è tutta gente fighetta piena di Canon come cannoni e di purissimo orgoglio Mac. Però l’idea è buona, fidatevi. Il salotto brucia e vi restano pochi minuti. Quel che basta per rintracciare una felpa, l’mp3 (quelli c’han l’iPod, lo so…), quei calzini che sapete voi, l’orsetto di pezza, il CD di Eminem e pedalare verso la salvezza.

Magari finisce che alla fine – sbirciate le reciproche foto – ci si conosca meglio, noi. E pazienza se il vostro letto è andato in fumo. Se siete stati svelti magari avete salvato il cuscino.

E adesso via, andate. Fate la punta alle digitali e buoni compiti. Ci si vede venerdì, prima ora, davanti al computer n. 1.

(altri compiti: qui)

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