Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

Avere gli anni di una carezza, di un pianto leggero

La sera in cui per la prima volta ho visto Federico Tavan ero seduto in quarta fila. Uno scrittore di fama (prima che si riciclasse come sabotatore di cantieri…) e un grande fotografo stavano presentando un volume realizzato a quattro mani”. Spiegavano il perché di quell’impresa, la natura del loro rapporto, le dinamiche di una fruttuosa collaborazione. Spiegavano, ma nessuno poteva ascoltare. Tavan, infatti, camminava inquieto in fondo alla sala. Parlava a voce alta, infervorato, teatrale, imprigionato da una vitalità ingestibile, travolgente. Io non sapevo chi fosse, quell’uomo, e ovviamente mi sembrava strano che nessuno intervenisse censurandolo, invitandolo ad uscire. Gli organizzatori di quell’evento, ad esempio. Niente, tutti zitti con gli occhi rivolti ad uno scrittore muto e gli orecchi ricolmi delle parole incomprensibili di un matto.

Poi ho capito che quell’uomo era un poeta, uno dei più grandi. E che tutte quelle persone, silenziose e rispettose, conoscevano i suoi versi.

 

No stéi domandâme ce tanç ans che ài

 

Ài i ans

de Pasolini e Leopardi

del passero solitario

e de Silvia

dei fugulins

ch’i no clarìs pì

al cjant dei crics.

Ài i ans

de un nin

che la mestra

à trat davour la lavagna

parceche al era

cjatif e brut.

Ài i ans

de un Jesu Crist

ch’a no’l puarta

nissun lare

in paradis

de una carecja

de un vaî sutil

de un acuilon

sbregât dal vint.

Ài i ans

di una riduda

de un gjat

pecjacât

dai compagns de zouc

d’un ospedâl

a catordes ans

e d’una mare

ch’a resist

de un par cui nasce

al éis comunque biel.

 

[Non chiedetemi quanti anni ho. Ho gli anni di Pasolini e di Leopardi, del passero solitario e di Silvia, delle lucciole che non rischiarano più il canto dei grilli. Ho gli anni di un bambino che la maestra ha cacciato dietro la lavagna perché era brutto e cattivo. Ho gli anni di un Gesù Cristo che non porta nessun ladro con sé in paradiso, di una carezza, di un pianto leggero, di un aquilone strappato dal vento. Ho gli anni di un sorriso, di un gatto preso a calci dai compagni di gioco, di un ospedale a quattordici anni e di una madre che resiste, di uno per cui nascere è comunque bello.]

 

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Letteratura leggera

Capita spesso, ormai. Chiudere il librino e riporlo sotto il lume, prima della nanna, pensando “bah, tutto qui? E Einaudi (o Feltrinelli, o Bompiani, o Sellerio…) si è ridotta a pubblicare ‘sti romazetti sciapi? Facevo meglio a leggere qualcosa su internet…”.

Perché davvero il divario tra ciò che se ne sta inscatolato sotto nobili insegne editoriali, avvolto da altisonanti fascette rigorosamente gialle, prefato da autorevoli padrini letterari e ciò che nasce su un banale foglio di Word per essere copiincollato su una bacheca di WordPress e reso pubblico dopo una mezza rilettura al volo… si sta assottigliando.

L’ho constatato anche stamattina alle 5:30, mezzoretta prima di partire per il lavoro, dopo essermi imbattuto in un nuovo fulminante post di Enrica.

Io Enrica non la conosco. Io mi relaziono soltanto con il personaggio del suo blog, i cui destini ho mille motivi di pensare siano aderentissimi a quelli dell’autrice, ma non è questo il punto, perché le riflessioni che la verità vi spiego sull’amore mi regala, e lo fa spesso, diventano immediatamente mie. Esattamente come quelle scovate dentro ai libri che – al momento di riporli sul comodino – ti fanno dire “apperò” al posto di “bah, tutto qui?”.

Prima o poi l’amore arriva…, recita il sottititolo del blog, e già senti aria di famiglia, e ti viene in mente un vecchio librino di fantasiose poesie, quand’eri un adolescente o poco più. Soltanto che l’amore… ecco… capita sia un filino privo di scrupoli, succede che non ti guardi proprio dritto dritto negli occhi e proceda – mettiamola così – per vie tra(per)verse. Nasce da un dolore grande, il blog con i caratteri più grandi (e siano benedetti dal dio degl’orbi!) del Web. Nasce dalla rabbia, dal rancore e da mille cocci di vita infranta. Ha voglia di rivincita, però, e di aggrapparsi all’inventario infinito delle cose belle: un vecchio film, una canzone, il disegno di un bambino, un gioco di parole, un gioco di parolacce. E ai figli, si aggrappa. E anche qui si potrebbe divagare sulle mamme nella blogosfera, nel giorno in cui mi scopro anch’io gelosissimo del primo amore di un’altra bambina virtuale ma non troppo, l’Alice che porto in classe in fotocopia per la gioia dei miei alunni…

Il blog di Enrica mette nere su bianco, letteralmente, un sacco di faccende terribilmente serie, e diresti che ti fa piangere se contemporaneamente non ti facesse anche molto ridere; quindi ti disorienti e alla fine ti vien da dirle solamente grazie, come diresti a uno di quelli che per strada ti vengono incontro con un cartello di cartone e una scritta senza senso: free hugs.

No, non ho scritto che i blog sono meglio dei libri. Anche perché ho il sospetto di aver pescato i libri sbagliati, ultimamente. Però mi piace chiamare questa piccola miniera di storie reperibili in rete – basta un po’ di fiuto, e tanta santa pazienza: “letteratura leggera”. Proprio come la musica con quell’aggettivo lì.

È tutta letteratura leggera – si potrebbe dire parafrasando quello… – ma come vedi la dobbiamo leggere.  È tutta letteratura leggera ma la dobbiamo imparare.

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Bramare di bramire

 

Non il solito sabato sera.

Ce l’avete tutti il concetto di “non il solito sabato sera”, vero?

Il centro del vostro finesettimana quando non somiglia a nessun altro di quelli precedenti, è più unico che raro, irripetibile, grazie ad un incontro, grazie ad un’emozione, grazie a qualcosa che sembra accadere soltanto per regalarvi sorpresa e benessere.

Ecco, non ci siamo. Dovete aggiornarvi. Dovete aggiornare il concetto di “non il solito sabato sera”.

Sabato 21 settembre accadra di più, sabato 21 settembre accadrà di meglio.

I membri di una giovanissima associazione sportiva e naturalistica vi aspettano alle 17.00 in località Pierabech, a Forni Avoltri, per raggiungere in notturna l’oasi di Bordaglia. In notturna e in incognito, perché l’obiettivo è quello di ascoltare – meravigliosamente soltanto ascoltare – i bramiti dei cervi. Un gesto soltanto all’apparenza passivo, in realtà attivissimo, pieno forza e di rispetto. Una piccola innocente intrusione in un altrove riconciliante. Un modo per sentirsi ospiti e non padroni, attori che abbandonano le velleità da registi e si accontentano di recitare la parte più difficile: il silenzio.

 

È il caso di dirlo: accorrete silenziosi!

 

P.s.: l’associazione Trôis richiede un’iscrizione di 10 euro, a sostegno di future iniziative, raccomanda inoltre di dotarsi di una torcia e di eventuale binocolo. 

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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Balene

Cercavo un libro che mi insegnasse cose che non sapevo. Fatti e idee che proprio ignorassi, non le diverse declinazioni di un fenomeno che mi fosse già noto.

Così ho comprato un libro che parla di balene.

Ho quindi scoperto che un tempo solcavano gli oceani creature a dir poco pazzesche. Testimonianze storiche molteplici e circostanziate – purtroppo antecedenti l’evo videofotografico – riportano avvistamenti di animali giganteschi, serpenti marini lunghi cinquanta metri, capaci di spezzare a morsi imbarcazioni poderose.

Ho imparato che in fondo al mare può nuotare ancora oggi, grazie ad una straordinaria longevità, qualche balena coetanea di Moby Dick (data di pubblicazione: 1851).

Ho scoperto che l’ambra grigia – sostanza rarissima pescata in mare e usata dai migliori produttori di profumi per la qualità di inglobare trattenendole le altre essenze – non è che cacca solidificata di immenso cetaceo. Non lo sapevano neanche i produttori di profumi, all’inizio, e posso solo immaginare l’imbarazzo al momento di accogliere la nuova nozione elargita gratuitamente dalla scienza.

Ho imparato che le balene non sono solo natura – cosa più di questo mammifero può essere associato alla vita selvaggia?! – ma sono anche cultura. Per via culturale i cuccioli apprendono comportamenti e tecniche di sopravvivenza. Per via culturale – altro che istinto – imparano a soccorrersi e a rispettarsi. Con lo sterminio sistematico l’uomo cacciatore non ha posto fine soltanto all’esistenza di milioni di individui della specie, ma anche ad elaborazioni collettive che possono essersi estinte in seguito al calo demografico.

Ho scoperto – ma lo sapevo già perché me l’aveva raccontato uno scrittore – che le balene lasciano impronte. Sì, sull’acqua. Temporanee, certo, ma nemmeno troppo. L’acqua solcata da una megattera o da un capodoglio non è infatti davvero più la stessa di prima, cambia a livello molecolare, nella forma ma anche nella sostanza.

Ho capito perché da piccolo questo fosse il mio cartone animato preferito, e perché costruissi con i Lego complesse navi baleniere destinate ad attraversare la superficie mossa del parquet, tra la poltrona e la televisione. Per costruire Moby Dick mi mancava il know how. E i mattoncini non sarebbero comunque stati sufficienti. Tuttavia, i miei omini di plastica erano vigili e pronti alla caccia.

 

 

«Una rapida sequenza di stridii. Più che udirli con le orecchie, li sentivo dentro il petto; la mia cassa toracica era diventata una cassa di risonanza. La balena si stava creando un’immagine mentale di me: una scansione dell’intruso in risonanza magnetica nucleare, un profilo dell’alieno invasore.

Sentii il mio corpo rilassarsi e pisciai nell’acqua. Un pensiero ridicolo mi passò per la testa: mi ero presentato senza preavviso, con l’unico risultato di perdere il controllo delle funzioni corporee e orinare sulla soglia di casa del mio anfitrione. Poi, nel momento cruciale, la testa si girò e si chinò impercettibilmente, come mi avesse identificato. Non commestibile. Privo di interesse.

Passai dal puro terrore a qualcosa di diverso. Capii che era una femmina. Una grande madre che fluttuava davanti a me, intensamente viva. Malgrado il suo disinteresse, un invisibile cordone ombelicale sembrava unirci. Da mammifero a mammifero; la sua grigezza senza fine, il mio pallore senza madre. Perso e trovato. Un altro orfano.

Non riuscivo a capacitarmi che qualcosa di così grande fosse così silenzioso. Scansionato dalla carica elettrica del suo sesto senso, mi sentivo insignificante, e tuttavia non del tutto. Ricreato a misura sua e a misura del mare, ero stato assimilato dalla sua alterità, nella sua mente c’era una mia immagine. Mentre la balena mi sfilava davanti, vidi il suo occhio: grigio, velato, senziente, disposto lateralmente, centro della sua coscienza. Dietro, tutto il resto era muscolo, che si muoveva senza sforzo. Quel momento durò per sempre, un’eternità di pochi secondi. Entrambi nella nostra nuda interezza, separati soltanto dall’oceano sconfinato».

 

Philip Hoare, Leviatano ovvero la balena, Einaudi

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L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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“Per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse”

Aveva ragione Samuele Bersani, nella canzone che ha dedicato a Enzo Baldoni. Una cosa che penso ogni anno, ad ogni scoccare di anniversario, riascoltandola nei giorni d’agosto in cui molti ricordano questa particolarissima figura di italiano: uno dei nostri, ma anche uno anni luce più avanti. Uno che aveva capito prima un sacco di cose, ma che sicuramente si sarebbe fermato in fondo alla strada per aspettarci e raccontarci tutto.

Aveva ragione a scegliere una sineddoche, Bersani. Una parte per dire il tutto. Gli occhiali al posto del loro proprietario. Due lenti e una montatura al posto di un omone e del suo nomeecognome.

Come quell’oggetto di uso così comune, anche Enzo Baldoni era estremamente delicato, fragile, sempre a rischio di smarrimento o rottura. Ma come gli occhiali vedeva, metteva a fuoco, scrutava dentro e guardava oltre.

Celebri aihimè sono soprattutto i suoi reportage dai luoghi di guerra, la cui fama – doppio ahimè – è stata purtroppo un frutto postumo.

Baldoni, però, vedeva lungo in un sacco di altre direzioni.

Oggi ho riletto questo pezzo sulla pedofilia. Una testimonianza diretta, intima e vera, senza reticenze, lucida. Niente di specialistico – Baldoni ne sapeva quanto ciascuno di noi che poco abbia studiato e approfondito – piuttosto un mattone concreto messo lì per tutti, generosamente, gratuitamente, perché era giusto e naturale fare così, perché non si sa mai possa servire, nella costruzione di una società migliore.

 

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Niccolò Fabi e la ragazza limone

Chissà se Niccolò Fabi l’ha vista, arrivando al centro commerciale che avrebbe ospitato il suo concerto, la ragazza vestita di giallo vicina a uno degli ingressi. Non era una ragazza vestita di giallo qualsiasi. Il suo lavoro, infatti, consisteva nel protendersi da un chiosco giallo a forma di limone, distribuendo dissetanti bicchieri – gialli, ça va sans dire – rigorosamente a base di quell’agrume.

Il cantautore era reduce con la sua band da un evento particolarissimo ai piedi delle Dolomiti: aveva cantato a 2000 metri sul livello del mare davanti ad un pubblico che si era guadagnato quella musica infilando i passi in un faticoso sentiero di montagna.

Abbia o non abbia intercettato con lo sguardo la ragazza-limone, dopo il terzo brano della sua performance Fabi ha confessato il suo imbarazzo: «Carissimi, ieri ho suonato in paradiso e qui, non posso fingere, è molto più difficile».

Mescolato tra i fan, assisteva al concerto un piccolo popolo di spettatori inconsapevoli, giunti sul posto per accaparrarsi qualche canottiera d’occasione. Le prime file, riservatissime, toccavano di diritto ai fedelissimi aficionados di certi corredi e di certe trapunte, possessori di una preziosa tessera-punti, del tutto ignari dell’opera omnia del cantautore romano.

Lungi da me fare della sociologia d’accatto, e lungi da me colpevolizzare il direttore del centro commerciale casualmente seduto a pochi metri dalla mia sedia – schiumante alle battute del cantautore («Ragazzi, io continuerei a suonare, ma qui ci sono delle regole piuttosto rigide…»). Ho solo intravisto in questo quadretto uno spaccato di quest’epoca fragile e ricca di contraddizioni. Con il Mecenate che invita nel suo palazzo l’Artista che forse più profondamente ha combattuto i suoi valori di riferimento.

 

Prima di partire si dovrebbe essere sicuri

di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri

Allora io propongo per non fare confusione

a chi ha meno di cinquant’anni

di spegnere adesso la televisione 

 

Non si può entrare in un negozio

e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo

se la vita è un’asta sempre aperta

anche i pensieri saranno in offerta

 

Ma le più lunghe passeggiate

le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo

non so dove l’ho comprate

di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta

perché l’argento sai si beve

ma l’oro si aspetta

 

Le canzoni, si sa, sanno scavalcare le contraddizioni, ha chiosato infine il filosofo con la chitarra. E la musica deve andare ovunque, adattandosi pure alla scenografia posticcia di un tempio consacrato allo shopping, proprio come fosse un anfiteatro dolomitico o il più blasonato dei teatri.

E chissà com’erano, i versi di Niccolò, assaporati da dentro il chiosco a forma di limone. E chissà come batteva, il cuore della ragazza vestita di giallo, ospite di un agrume il tempo necessario per pagarsi gli studi, prima di rimettersi a caccia dell’oro tanto aspettato. Giallo anche quello, in fondo.

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Non sapersi

Amore e guerra; amore è guerra. Incauta occupazione di territorio straniero. Dentro di te, nel giorno, nella notte, nelle cose da fare, in tutto. Essere invasa. La resistenza e la resa. Resa ovvero rendimento: si potesse misurare il frutto, il vantaggio, gettando sulla bilancia da una parte sé, dall’altra quanto si offre, quanto si perde e quel che rimane. L’unica certezza il consumo: del pensiero, della ragione, del tempo che evapora in congetture. Se fantastichi ciò che vuoi lo perdi, lo sciupi? O perfezioni e anticipi una possibilità? E poi? Resto o differenza: la differenza con l’altro, l’abisso che separa, attira e chiama, il vallo da colmare, il salto da sé. Lo prendo, mi faccio avanti e prendo ciò che è mio, ciò che non lo è ancora, quello che vorrei e non so, o aspetto che mi venga deposto tra le mani? Prendere o dare? Darsi? Si fa? Stare in punta di divano, le mani ferme in grembo, un vago sorriso in volto, il cuore che si contorce nell’attesa, o sporgersi dalla finestra di notte, indovinando l’ombra nell’ombra? Ciò che si deve e ciò che si vuole. Infine, ciò che si può. Posso qualcosa, io, sola, sola e femmina al mondo, o posso soltanto volere, sperare, e alfine dire sì? Si può dire anche no? Sì la freccia che conduce al futuro, no la pietra che ti trascina a fondo e lì ti lascia, tra le alghe, stordita come morta? Padre, padre, quante cose non mi avete insegnato; siete andato via troppo presto. Accanto a voi avrei saputo distinguere, valutare. Ascoltarmi e infine capire. No, avrei solo interpretato i vostri cenni, avida e curiosa, e mi sarei portata di conseguenza, rinunciando a pensare, a decidere, in facile pace. E sarei stata contenta così. Anche quello, anche il nostro era amore. Ma non è metro che si possa usare ora. O invece mi avreste aiutato a leggermi, con pazienza devota, come decifrando una lingua sconosciuta, in trepida anticipazione del messaggio? Voi, voi che già avevate deciso di lasciarmi andare, prima di tutto, prima di questo strazio. E io ora non so niente. Io non mi so.

 

Beatrice Masini, Tentativi di botanica degli affetti, Bompiani

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Pensosa sul campo

La lettura di una fotografia può portare ad un numero di interpretazioni pari al numero degli interpreti: a ciascuno la sua. Giusto così. Questa ad esempio, in prima pagina oggi su un quotidiano delle mie parti, nella sua versione online è oggetto di commenti sferzanti: la gente ha bisogno e loro rivolgono lo sguardo dall’altra parte…

Io ho deciso di vederci l’esatto contrario e la faccio rimbalzare nella Pozzanghera come una buona notizia, dal fronte di una politica nuova.

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I numeri del Barcellona (anche lasciando Messi e Neymar in panchina)

Stavo annaspando nella calura agostana. Il mouse era sudaticcio come le news su cui cliccavo. Poi all’improvviso ho guardato l’immagine di un calciatore di spalle. La notizia era quella del suo debutto nella formazione che l’ha acquistato a peso d’oro. A colpirmi, però, è stato il numero sulla maglia. Un undici particolare, strano, vagamente a sghimbescio, somigliante al profilo stilizzato di due montagne, o al muso appuntito di due cavalli. Non ho pensato “bello”, ma mi ha incuriosito come sanno fare tutte le cose un po’ fuori posto, e tutti i frutti del pensiero divergente. Sono quindi finito su Twitter, digitando le parole chiave “numeri” e “Barcellona”, ed ho trovato reazioni di marca italiana estremamente severe: quanto sono brutti, fanno schifo, che roba è? Fino ad un emblematico: li ha disegnati uno spastico?

Fuochino (…e figura di merda).

I numeri li ha disegnati Anna Vives, che non ha lesioni di nessun tipo al cervello ma è una giovane donna con la sindrome di Down. Dopo una prima esperienza lavorativa in un supermercato, ha deciso di dedicarsi con successo al disegno e alla grafica. Probabilmente nelle partite ufficiali (quello di ieri sera era “calcio d’estate…”) la squadra catalana tornerà a sfoggiare i numeri “tradizionali” pensati dalla Nike; tuttavia, l’idea del calciatore Iniesta rimane molto dolce e suggestiva. Come lui, anche altre star dello sport spagnolo, il motociclista Lorenzo e il cestista Gasol, hanno voluto regalare notorietà al lavoro di Anna. Perché di lavoro si tratta.

 

Nel prossimo anno scolastico mi sa che a Scuolamagia scriveremo con Anna.

 

(Il font Anna, comprensivo di numeri e segni di interpunzione, si può scaricare gratuitamente, ma sul sito è possibile effettuare una donazione…) 

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Se il Principe diventa solo un tizio

 

Francesco De Gregori ha detto la sua in un’intervista al “Corriere della Sera”. Al solito l’ha fatto in quella maniera un po’ così, che sta alla simpatia come il giorno sta alla notte. Ha sparato nel mucchio della politica, affermando alfine di averne preso le distanze, dal mucchio. Ognuno è libero di concordare o meno con i singoli concetti espressi dal cantautore, di condividerne o no lo sguardo pesantemente disincantato.

Colpisce, tuttavia, il tono di alcuni commenti un tantino tranchant, e a titolo d’esempio cito quello del giornalista dell’Espresso Gilioli:

“Poi qualcuno mi spiega il senso di un’intera pagina di intervista politica a un tizio che fin dall’inizio spiega di seguire poco la politica, di non sapere chi è ministro di cosa, e che preferisce guardare dai finestrini invece di leggersi un giornale”.

Un tizio. Poi dice che è Grillo quello che storpia i nomi dei suoi interlocutori.

Il tizio scrive e canta da quarant’anni pezzi che – piacciano o non piacciano – raccontano l’umanità tutta e nello specifico questa sua piccola fetta che risponde al nome di Italia. Il tizio ha cantato il lavoro e le migrazioni, vecchie e nuove. Il tizio ha cantato i poveri, stivati sempre qualche piano al di sotto dei ricchi. Il tizio ha cantato la Storia: la guerra, il Fascismo e la Resistenza, spingendosi pure in quel ginepraio che è stata la Repubblica di Salò (e non gliel’hanno mai perdonato, troppo poco ortodosso, nonostante le parole inequivocabili: “parte sbagliata”). Il tizio ha cantato il terrorismo e le brigate rosse prima e meglio dei romanzieri e dei saggisti. Il tizio ha messo in una canzone il 12 dicembre 1969.

 

[Per non parlare di come il tizio ha cantato l’amore ché quello è un altro discorso.]

 

Se il tizio – invecchiato, imborghesito, insalottito, quelchevoletevoi – desidera quindi esprimersi su quest’Italia e le sue magagne, su chi tenta di governarla e su chi tenta di raccontarla, su Berlusconi e Renzi, sulla CGIL e l’Ilva di Taranto, io glielo lascerei fare e lo ascolterei anche se non sa quale sia il ministero guidato da Enzo Moavero Milanesi e anche se gli è sfuggito l’ultimo articolo (o l’ultimo post su Facebook) di Alessandro Gilioli.

Perché certe voci – liberi di dissentire – vanno ascoltate.

Ascoltiamoci, è un modo di resistere (con gli occhi aperti nella notte triste).

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Lettera a Erich Priebke

Gent.mo Erich Priebke (!!??!!??),

 

vede com’è difficile già soltanto cominciarla, questa lettera? Capirà come non avrei mai potuto scrivere “caro,”, ma anche il “gentile” quello delle lettere formali, quello che non si nega a nessuno, quello che si scrive anche quando poi nella missiva si va al sodo di contestazioni critiche e reprimende, ammetterà che suoni strano, davanti alla palese non gentilezza di alcune sue prese di posizione e più in generale della sua condotta da quando nel 1995 è stato estradato in Italia.

La notizia è che lei sta per compiere 100 anni e soprattutto che qualche italiano sembrerebbe intenzionato a festeggiare il suo genetliaco e di farlo spudoratamente in un luogo pubblico. Non è di questo che le voglio parlare, tuttavia. Esistono i mezzi per evitare quello scempio e mi auguro che chi è nelle condizioni di utilizzarli lo faccia prontamente.

Ieri tutti i siti dei giornali hanno pubblicato un video in cui lei sta camminando su un marciapiede romano accompagnato dalla sua badante. Una scena come se ne vedono tante in giro per le città e per i paesi. Abbiamo infatti riscoperto la sua esistenza. Quel 100 tondo tondo ci ha ridestati dal sonno e abbiamo di nuovo incrociato quel suo corpo possente, certo invecchiato, ma ancora in grado di deambulare, seppur sostenuto, in maniera sostanzialmente dignitosa. Mi sono chiesto cosa volessero i nostri occhi da quelle immagini. Che lei incespicasse e sbattesse la faccia sull’asfalto? Che lei provasse vergogna nel veder catturata ed esibita la sua fragilità di vecchio? Pensi che lo showman Fiorello, su Twitter, ha appena associato la sua condizione di centenario alla morte di quel giovane motociclista avvenuta a Mosca pochi giorni fa. Sottinteso: come sono ingiuste le cose del mondo, un venticinquenne innocente ci saluta tanto presto e invece Priebke… Pochi istanti fa, invece, lo scrittore Erri De Luca sullo stesso social media le ha augurato di viverne altri 100, di anni: “possa trascinarsi per un altro secolo il suo nome maledetto…”.

Il suo caso ci interroga sul significato profondo della Giustizia. Lei è stato dichiarato – seppur dopo un iter giudiziario rocambolesco – colpevole per crimini orribili. Una giuria ha fatto i conti con prove certe, con riscontri oggettivi. La sua difesa ha avuto modo di giocare le proprie carte. Il verdetto nel condannarla ha tenuto presente la sua età avanzata, così come prevedono ordinamenti “uguali per tutti”, dal ladruncolo al boia nazista. Un difficile esercizio di ricerca della verità è stato portato a termine. Funziona così, in democrazia. Noi siamo “i buoni” e con i nostri strumenti da “buoni” abbiamo messo sotto la lente un tempo lontano in cui erano prassi le azioni di “cattivi” come lei. “Cattività” da cui, a quel che mi risulta, lei non ha mai preso le distanze.

Nei prossimi giorni si eserciteranno in tanti sul tema del suo compleanno. La immagino impermeabile agli insulti che nel tempo le saranno piovuti addosso in quantità, magari anche nel corso delle sue normalissime passeggiate colla badante. Ci saranno gli editoriali e le battute sagaci. Ci saranno le volgarità e le minacce. Ecco il punto: forse noi “buoni” non dovremmo cadere in questa trappola. Proprio perché non siamo come lei, proprio perché noi gli istinti li dobbiamo frenare, dobbiamo aiutarci vicendevolmente a farlo. Può capitare che qualcuno non si trattenga, è umano, ma ci dev’essere qualcun altro vicino che lo quieta indicandogli battaglie più urgenti su cui concentrare le energie.

C’è un vecchio criminale nazista che non schioda dalla vita e gode invece di ottima salute. Ma è stato condannato. La Giustizia si è pronunciata. La sua infamia è scritta, e può essere raccontata a chi verrà. Dovrebbe essere sufficiente. Perché, altrimenti, rischiamo di diventare al solito paradossali, noi italiani: prendere lei come facile obiettivo – lo sanno tutti cos’è un nazista – e gettare la spugna sul fatto che ormai moltissimi giovani ignorano che gente della sua risma, trent’anni dopo la guerra, faceva saltare le stazioni ferroviarie stracolme di innocenti. C’è talmente tanta Giustizia da fare, in questo paese e in questo mondo, per sprecare la propria rabbia e la propria indignazione su quella che – al netto dell’orrore che rimane e deve rimanere – è già stata fatta. Io la sua faccia, Signor. Priebke, me la ricorderò finché campo, e anche certi suoi infimi sorrisetti, ma la sua pratica mi devo sforzare di metterla in un’altra cartella. Io gioco coi “Buoni”, e i “Buoni” non stappano una bottiglia nemmeno quando muore un “Cattivo”. Se no che “Buoni” sono? Se tra buoni e cattivi non ci sono più differenze, o sono marginali, allora tanto vale che ci si definisca “i verdi” e “i blu”.

Qualche anno fa, l’allora responsabile della comunità ebraica italiana Tullia Zevi ebbe a dire, con riferimento al suo ergastolo: “noi teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo che il condannato resti in galera e ci muoia”.

Oltre a riportare questa citazione della Zevi, Adriano Sofri ha scritto nel suo Chi è il mio prossimo:

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.»       

La vecchia donna, sua moglie, è nel frattempo mancata in quel di Bariloche, Argentina. Del suo video a spasso per Roma non mi ha colpito la sua fiera fragilità di vecchio, bensì la dedizione e l’amorevole cura della sua badante. Un’altra donna. Italiana? Ispanica (in fondo lei ha trascorso decenni in Sudamerica…)? Originaria dell’Europa dell’est come capita spesso? Chi lo sa e cosa importa. I malpensanti avranno buon gioco nell’immaginare questa signora avidamente attratta dai beni che le rimangono, e dal fatto di poter “alzare il prezzo” davanti ad un utente così fuori dal comune. A me, invece, piace pensarla come una donna che ha ben chiaro un concetto: un uomo rimane un uomo, molto prima della feccia delle sue idee e delle sue azioni. Una che gioca tra “i Buoni”, insomma, quelli di cui ho voluto parlarle in questa lettera. Me la saluti.

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Tutte queste cose passare

Ugo Riccarelli: nei suoi libri l’amore si faceva così

 

Allo stesso modo, quando fu nell’oscurità della stanza di Cafiero, stesa accanto a lui, le piacque perdersi nei suoi abbracci, lasciare che lui imparasse a conoscerla come un viaggiatore un Paese sconosciuto, così come per tanto tempo aveva immaginato che avrebbe fatto Sole alla ricerca di Oriente.

E a sua volta si fece vincere dalla curiosità di esplorare il continente che le stava accanto, e allora si stupì che sua madre avesse sempre raccontato l’amore tra un uomo e una donna come il tramestare d’animali che, quasi per conferma, l’Ulisse aveva poi esercitato nei confronti della Mena. E invece, mentre Cafiero per la prima volta entrava in lei, l’Annina gli si strinse contro e le parve di essere lei a possederlo, di essere un cielo così vasto da riuscire a tenere quella nuvola di carne tutta dentro il suo piccolo abbraccio, di portarselo dentro a conoscere luoghi che non avrebbe mai immaginato, e fuori di sé, di corsa e lentamente, in una camminata senza fine.

E il cielo sognò, più tardi, sfinita da quel viaggiare, e sognò anche le nuvole e l’Oriente, e l’acqua che risaliva i fiumi, e una notte piena di luce, e un treno che procedeva in retromarcia, e la Mena che seppelliva i propri vestiti, e lei che finalmente dormiva tranquilla sopra un nocciòlo.

Nei giorni seguenti, sola nella casa vicina alle mura, sentì questa tranquillità come qualcosa alla quale non avrebbe mai potuto rinunciare, qualcosa che era saldato col sangue a Cafiero, e quando si accorse di sentire ancora su di sé l’impronta del suo corpo capì che non avrebbe mai potuto rinunciare a quel peso, né per le chiacchiere del paese, né per il Prataio, né per il buon nome dei Bertorelli.

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori.

 

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Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Stringendo l’occhio, guardando il fiore del grano

Non ho mai letto un libro di Vincenzo Cerami, al massimo qualche suo intervento sui giornali. Non ho motivo per piangerne la scomparsa o per lodarne l’opera semplicemente perché non ne so abbastanza. Tuttavia, un piccolo senso di colpa mi ha punto in questi giorni, per aver sbeffeggiato il suo racconto protagonista della Prova Nazionale Invalsi del 17 giugno. Il testo, non credo rappresentativo della grandezza dello scrittore, era in realtà incolpevole; a farlo precipitare nei bassifondi del ridicolo sono state ovviamente le domande apposte in calce dal carrozzone nazionale preposto alla valutazione del sistema scolastico.

Leggendo qua e là, però, ho scoperto che alla penna di Cerami – il Cerami sceneggiatore – devo alcune pellicole a cui mi legano ricordi piuttosto tenaci. Nessuna pietra miliare della filmografia mondiale, d’accordo, ma piccole storie tutte venate da una loro ingenua purezza, tutta roba che oggi non potrebbe esistere e finirebbe inevitabilmente dentro la centrifuga del cinismo. Erano storie di padri magari tutti sbagliati, sbalestrati, perduti, ma che non perdevano la forza di guardare negli occhi, con dolcezza, bambini incapaci di recitare come tutti i bambini dei film, almeno di quelli italiani. 

 

 

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Res cogitans, Soletta

Miss Charity

Stavo subito per commettere uno sbaglio, scrivendo che il nuovo libro di Marie-Aude Murail dovrebbero leggerlo tutte le ragazze dai 10 a 94 anni. In realtà sarebbe molto meglio lo leggessero i maschi, nonostante l’edizione italiana strizzi pesantemente l’occhio a un pubblico di genere, con coniglietti e foglioline color glicine. La coraggiosa emancipazione di Miss Charity nell’Inghilterra di fine ‘800, dove avere successo in una professione, per una donna, equivaleva ad una sorta di crimine e criminali erano per tutti semplici azioni come andare a teatro o imparare a memoria un sonetto di Shakespeare, è un processo lungo quasi 500 pagine, coloratissime e piene zeppe di humour. 

A dare un ritmo da commedia al romanzo, la trascrizione dei dialoghi nelle modalità del testo teatrale, idea originale e soprattutto efficace.

 

KENNETH ASHLEY

Ccc…osa vi è successo?

 

MISS CHARITY

Quello che succederà alle donne.

 

KENNETH ASHLEY

?

 

MISS CHARITY

Mi emancipo.

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Soletta, Stream of consciousness

Il Medioevo prossimo venturo (non è un post su #Calderoli)

 

La bambina se la molli libera in un prato comincia a fare la ruota. Una ruota, due ruote, infinite ruote. Trova energie impensabili e non suda. Poi si siede composta e stringe di nuovo nella manina il suo A4. Quel foglio è la fotocopia di un manoscritto medievale. Sopra ci sono i neumi, per farla semplicissima gli antenati delle note, e quello è un’alleluja del IX secolo. Finita la piccola pausa, si ricomincia a cantare.

Ho incontrato quella bambina e un’altra ventina di ragazze e ragazzi dentro un campeggio estivo decisamente sui generis, a cui sono stato invitato per portare un minuscolo contributo teatrale.

Una meraviglia. L’annuale ritrovo di quel giovanissimo coro, sempre ospitato tra una fresca cornice di monti, prevedeva una full immersion, appunto, nella musica medievale. Quanto di più lontano uno possa pensare dalle menti e dai corpi di bambini e adolescenti. Potenza della musica e di ottime insegnanti, invece, ho visto canti gregoriani sorseggiati come bicchieri d’acqua, con smorfie di fatica, certo, ma mai di noia. Mai.

Ho visto cose che voi umani manco vi immaginate.

Ragazzi che giocano con racchettoni e volano cantando il latino. Ragazze che controllano un po’ furtivamente sul display se è arrivato un sms, ma non smettono nemmeno in quel frangente di produrre suoni celestiali degni un monaco camaldolese. Un bambino con la maglia del Barcellona in grado di eseguire un brano nel francese del 1200 con la stessa disinvoltura con cui palleggiava imitando Neymar.  

Canto colorando coi pennarelli, canto mangiando le carote, canto allacciandosi la felpa. Canto libero, senza imposizioni, ma anche senza scorciatoie. Così come doveva essere in quei tempi là. Che a scuola ci insegnano fossero estremamente bui, ma che io ho visto risplendere di luce come poco altro prima d’ora.

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Soletta, Stream of consciousness

Ho trovato una poesia con dentro Margherita Hack

 

quando il sole si spegnerà

di colpo

impiegheremo 8 minuti ad accorgercene

 

mi ricorda quella volta che mi guardasti in faccia

e mi dicesti

– sappi che non ti amo più

 

impiegai 14 minuti a capire

passarono 13 minuti e 59 secondi

prima che calasse il buio

e il freddo

 

eri già più lontana del sole, allora

 

non è chiaro come sopravvissi

non è chiaro come ti riaccendesti

 

bisognerebbe chiedere a Margherita Hack

ma probabilmente c’ha di meglio da fare

 

 

14 minuti, Guido Catalano

(tratta da Piuttosto che morire, mi ammazzo, Miraggi Edizioni) 

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Il fatto che non piangiamo

Mi schiaffeggio. Verifico di esser sveglio, di esser vero. Il genere letterario che maneggiano le mie pupille sul laptop è proprio quello, non c’è verso. Sto leggendo un’omelia. Maquandomai? E mi convince pure, non c’è santo. Anzi sì, c’è, ed è colui che l’ha pronunciata, oggi, a Lampedusa. Sono ancora ricoperto da una fitta tela di ragno di pregiudizi, mi sembra tutto così assurdo, ma quello che vedo davanti a me è un gigantesco supplente. Nessun leader politico sarebbe andato lì, e in quel modo, nemmeno dopo aver vinto le elezioni col 79%. Questo va lì e dice: è colpa nostra. Questo va lì e dice: cazzo, abbiamo un problema, quelle morti non ci fan piangere. Cioè, cazzo Lui non lo dice, ma non possiamo non dirlo noi che è proprio quello, il fottutissimo problema. Il mio, il vostro, quello di tutti, anche se Lui non dice neanche fottutissimo.

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