Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

7 cose su Il nome del figlio

Ho visto Il nome del figlio. Dopo una settimana ho rivisto Il nome del figlio. Ora, forse, posso mettere a verbale due o tre cose che so di lui e della sua autrice.

  • Per prima cosa Il nome del figlio è (questo verbo ha vinto le primarie sbaragliando la concorrenza di “sembra”, “somiglia a”, “ricorda”) un film di Scola. Scorrono i titoli di coda e in quella casa ti ci muoveresti non dico con disinvoltura, ma quasi. Sapresti andare in bagno, andare a chiedere il curry ai vicini, affacciarti sul lato della ferrovia. Quella casa è un vero e proprio personaggio, probabilmente uno dei più complessi da gestire, davanti alla macchina da presa.
  • Francesca Archibugi ancora una volta dimostra di saper dirigere bambini e ragazzi come nessun altro. Capita che ottimi film facciano naufragio per colpa di adolescenti male ammaestrati. Archibugi sa scovare invece facce bimbesche più vere del vero. Ad esempio: da dove è uscita Scintilla, che porta il nome di una staffetta partigiana e una staffetta partigiana ricorda anche nei tratti del viso? (E a me ha ricordato pure Antonia Pozzi, ma quelle son p.d.r.: “perversioni del redattore”)
  • Ne Il nome del figlio come negli altri film della regista i personaggi cantano. In un modo o nell’altro, o prima o dopo, cantano sempre. Io non ho nulla in contrario e lascio fare. Se serve, do pure una mano. Una voce, pardon. Nelle visioni casalinghe, s’intende.
  • Nelle storie raccontate da Francesca Archibugi ci sono comportamenti mostruosi, modi di essere spigolosi, personalità ferite e traballanti; ognuno soffre la sua ombra e nessuno è privo di macchie d’unto sull’anima, più o meno lavabili. L’autrice, tuttavia, si rivela fortemente innocentista. Condanna le colpe e grazia il colpevole, guardato con indulgenza in quanto essere umano. A parte il personaggio interpretato da Guia Soncini, ça va sans dire, non ci sono veri cattivi. È una lezione, questa, che dal cinema di Francesca Archibugi cerco di trasferire nel mio mestiere di insegnante. Si fanno grosse cretinate, ma non esistono cretini. La realtà confuta ogni giorno la teoria, ma bisognerà pur credere in qualcosa.
  • Francesca Archibugi sorvola Roma da dio. In questo film va oltre, e sorvola anche una zuppa di broccoli.
  • I film della regista de Il nome del figlio traboccano di libri. Citati nei dialoghi dai personaggi, letti dalla voce fuori campo, appoggiati su un divano o dispersi in una borsetta tra un assorbente e un mazzo di chiavi.
  • I film di Francesca Archibugi sono scritti molto meglio di tanti libri. La preghiera di Siddharta ne L’albero delle pere, il discorso sull’amore e sulle lampadine pronunciato da Giovanna Mezzogiorno in Lezioni di Volo. Fino alla telefonata di Valeria Golino alla madre, nella pellicola ora nelle sale.

Ce ne sarebbero altri, di pallini. Ma questa è solo una piccola pozzanghera, mica i “Cahiers du cinéma”.

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Le canzoni son di tutti ma di qualcuno, forse, un po’ di più…

 

Le canzoni son di quelli che sputan sul parabrezza mentre le cantano, e che antepongono il tornare indietro su quel passaggio meraviglioso a una ripartenza col verde dal semaforo.

Le canzoni sono di quelli che hanno il vinile originale, di quelli che hanno il CD con la custodia rotta, di quelli che avevano la cassetta ma o l’hanno persa o c’han registrato sopra della musica più brutta, di quelli che te le passano col telefonino prima di accorgersi che in pugno stringi un Nokia 3310.

Le canzoni sono di quelli che hanno sviscerato il testo e la sanno lunghissima sulla genesi e sui retroscena, sulle citazioni e sugli aneddoti connessi.

Le canzoni sono di quelli che gli sembra sempre già sentita e che dietro c’è sicuramente l’ombra di un plagio (con le due varianti: “lo scriverò a Travaglio!” e “ma in fondo, le note sono solo 7”).

Le canzoni sono di quelli che dopo quel disco non ne ha più fatte di così, valido per tutti gli interpreti e per tutti gli album dopo il primo.

Le canzoni sono di quelli che le sanno a memoria.

Le canzoni sono di quelli che sanno anche gli accordi.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte ci metton quelle della strofa prima.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte le inventano di sana pianta.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e allora cantano appena fuori sync, giusto quei due secondi, con un improbabile effetto eco da valle dolomitica.

Le canzoni sono di quelli che c’hanno creduto quella volta che De Gregori al 1° Maggio si è chiesto “perché una canzone è una canzone popolare?” e si è risposto – manco fosse da Marzullo – “perché l’abbiamo scritta tutti quanti assieme”.

Le canzoni sono di quelli che le cantano a squarciagola anche se sono trasmesse in sottofondo dentro un negozio di scarpe.

Le canzoni sono di quelli che una volta le ricopiavano a mano sulla carta, altro che “angolotesti” o “testimania”.

Le canzoni sono di quelli che fanno le seconde voci, tra gli occhi sgranati degli astanti.

Le canzoni sono di quelli che “meno male che c’è sempre qualcuno che canta e la tristezza ce la fa passare…”.

Le canzoni sono di quelli “con gli amici cantiamo una nuova canzone”, ma le domande consuete son sempre le stesse.

Le canzoni sono di quelli con la chitarra classica simile a quella del loro idolo, che si filmano e postano su YouTube mentre le eseguono, mentre le stonano, mentre le sbagliano, ma le amano dio se le amano, e alla fine sono i primi a scrivere un commento sotto: «Ragazzi, scusate se sono un po’ impacciato…».

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Quando Marilyn era già abbastanza infelice

Da giorni rifletto sulla carta e sulle parole scritte a mano che sempre meno tendono ad abitarla. Non sono un apocalittico e non costruirò barricate. Sono pure sconvolto dall’efficacia di certi messaggi audio su WhatsApp, che stanno mandando in pensione tastiere, t9 e faccine. Se state imparando ora quel tipo di alfabeto da smartphone, lasciate perdere. Tra qualche mese stringerete tra le mani una simpatica clava.

Però che nostalgia. Le lettere, dentro alle buste, o soltanto piegate in quattro. Una facciata, due, mezza soltanto. I bigliettini scritti a scuola e fatti scivolare sotto i banchi da una fila all’altra, alcuni li conservo ancora (e in classe, da insegnante, li combatto il meno possibile…). Gli appunti dell’università, rigorosamente a matita, pieni di disegni quelli dei Prof. noiosi, o troppo matti. Le bruttecopie, gli elenchi di cose da fare.

Capita quindi di rimanere incantati davanti ad questo foglio fitto fitto, la pagina di un’agenda, riempito nientepopodimeno che da Marilyn Monroe, nel 1955.

60 anni dopo, parla ancora (…nella traduzione de “Il Post”). Sussurra, urla. Sussurla.

Sono i propositi per l’anno nuovo, elencati un po’ confusamente. Con una chiusa drammatica, scritta di traverso, come si fa per non essere costretti a girare pagina, quando si è davvero vicini alla fine.

«Try to enjoy myself when I can – I’ll be miserable enough as it is.»

«Cercare di divertirmi e stare bene quando posso – tanto sarò già abbastanza infelice».

 

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Soletta, Stream of consciousness

Chi ti manda, Chimamanda?

Che i due libri preferiti di questo mio 2014 siano entrambi scritti da donne certo non mi sorprende. Che le due autrici si chiamino Auður Ava Ólafsdóttir e Chimamanda Ngozi Adichie mi fa sorridere e ringraziare il presente dei libri acquistati on line, con un clic, senza dover passare per una libraia od un libraio davanti ai quali incartarsi: “avete mica l’ultimo di… ehm… ecco… l’ho scritto qui, sul bigliettino…”.

Americanah è un romanzo strepitoso. Riempie i giorni, e li cambia. Anche se lui è rimasto buono buono sul comodino, finisce che ti ritrovi a sorvolare la Nigeria con Google Earth mentre sei in un’altra stanza per fare altro. Il fatto è che vuoi vedere le strade polverose di Lagos e le automobili che le percorrono, i grattacieli, e le università. Anche se sei fuori casa e l’Einaudi bianco è a chilometri da te, ti ritrovi su YouTube, col telefono, ad ascoltare la canzone (stupidina) che sentono in macchina i due protagonisti appena si rincontrano dopo molti anni di lontananza.

Americanah è bellissimo perché ha tante facce come un diamante. Mille temi universali intrecciati ad arte che mai disturbano lo scorrere della storia d’amore, quella della canzone stupidina, al centro delle vicende narrate.

Dentro Americanah ci sono la Storia e la Geografia, il colonialismo e Barack Obama. Leggi Americanah e capisci il clima di Ferguson-Missouri, capisci perché un africano, anche benestante, non può non voler partire per qualche altrove.

E poi c’è l’amore, dentro Americanah, quello che fa rimanere due persone  unite nella distanza, invulnerabili dinanzi allo scorrere del tempo, “allacciate in un cerchio di completezza”.

 

 

«Le sue parole erano come musica, e si sentì respirare in modo sconnesso, inghiottendo l’aria. Non voleva piangere, era ridicolo piangere dopo tanto tempo, ma i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime e sentiva un macigno nel petto e la gola le pungeva. Le lacrime le facevano prudere il viso. Non fece rumore. Lui le prese la mano nella sua, entrambe strette sul tavolo, e tra loro crebbe il silenzio, un antico silenzio che antrambi conoscevano. Lei era dentro quel silenzio e stava al sicuro».

Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah

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Le cose cambiano, e la scuola è gay

Chissà che conclusioni avrebbero raggiunto, gli insegnanti sguinzagliati dalla curia milanese alla scoperta di come e quanto l’immaginario gay abbia invaso le classi, le file di banchi, i corridoi, le file davanti ai distributori di merendine.

Probabilmente al termine della loro “indagine informale” avrebbero tratto un bilancio confortante, dal loro punto di vista, ché i docenti italiani tutto sono fuorché un’avanguardia. In nessun campo, figuriamoci in quello.

Le cose, tuttavia, cambiano. Indipendentemente da chi sieda in cattedra.

“Prof., nel tema posso metterci un gay? In tutte le serie americane ce n’è almeno uno…”.

Rimasi stupito, ed era il 2003. Certo che si poteva.

Poi qualche anno dopo venne un tema cupo e di difficile lettura. Ma era colpa mia, non riuscivo a capacitarmi – aprendo e richiudendo il protocollo – che la protagonista fosse trans. Messa a fuoco la cosa, tutto scorreva liscio nel racconto di un’identità complessa e tormentata. Racconto che io non avrei saputo scrivere, figuriamoci in seconda media.

Molta strada rimane da percorrere, per gli insegnanti, per gli alunni e per gli 007 delle curie curiose.

Ma intanto non posso non pensare agli esami di stato di questo giugno, con una ragazza concentrata sulla brutta del suo tema: dentro c’è il suo futuro, il suo realizzarsi nel mondo della moda, tra collezioni da disegnare, sfilate da allestire, party e jet lag. Un futuro di fama e soldi a palate, ma anche di fatica e di stress. Tanto da rendere indispensabile la presenza costante di un assistente tuttofare. Ma i lettori non si facciano strane idee, tra la stilista e l’efficientissimo Andrew (in mio onore, NdR) non c’è niente. Quello è gay fino al midollo.

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Lezione di didattica incendiaria (2)

Immagino i dialoghi, dalle parti del tinello.

“Che compiti hai? Roba che ci si sbriga o pomeriggio d’inferno?”.

“Ecco, devo immaginare che casa nostra bruci…”.

“Cosa??? Abbiamo ancora 35 anni di mutuo, se va bene la finisci di pagare tu…”.

“Mah, il Prof. dice che c’è un sito molto trendy…”

“Ma come parla quel cialtrone?!?”.

“Dice che la gente ci mette le fotografie delle cose che salverebbe in caso d’incendio, se avesse quei due minutini prima della fuga…”.

“Col casino che c’è in camera tua… un mese ti ci vorrebbe…”.

“…le cose quelle a cui sei più legato, tipo una felpa, l’orsacchiotto di pezza…”.

“Ma lo sa che al giorno d’oggi l’orsacchiotto di pezza lo produce la Sony e costa 80 euro?”.

“Dice che tra le mie cose ci posso mettere anche il gatto…”.

“Sì, bravo, quello ti aspetta sicuro, prima di scappare…”.

Compiti strani, con esiti da guardare e riguardare.

E soprattutto, niente da correggere. Tutto giusto, niente da rifare.

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(L’edizione precedente)

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Il mondo salvato (?) dai ragazzini

Abbiamo rischiato di avere un Ministro degli Esteri trentenne.

Peccato, avrei corso volentieri il rischio.

E pure donna, il cerchio del rischio era infuocato.

Nel pomeriggio dei lunghi manganelli ho immaginato un capo delle forze dell’ordine – unificate, con un occhio alla spending – con le medesime caratteristiche: fresco di laurea, con lo smalto sulle unghie.

Anche Paolo Gentiloni dovrà occuparsi di unghie smaltate, quelle che gridano vendetta dentro i dossier dall’Iran.

Nei giorni scorsi girava per Twitter, rimbalzando da un inviato speciale canadese a un politologo statunitense, da un’osservatorio sull’Asia ad un filosofo australiano, una carta tematica sull’età media della popolazione in Africa.

Solo la Tunisia si colloca appena sopra i 30 anni, comunque 14 meno dell’Italia.

In Niger, per dire, la media è 15. In Burkina Faso 17.

Siamo davanti ad un mondo ragazzino, un affare complicato per ministri al massimo trentenni.

Manca una foto, a corredo di questa disamina geopolitica (inutile, in quanto proveniente da un vecchio di quasi quarant’anni).

Eccola, è di oggi, massimo di ieri. Ritrae un giovane burchinabè dentro il suo paese in rivolta.

Chissà se l’ha vista anche il nuovo titolare della Farnesina…

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Il tuffo di Brittany

Brittany ha un appuntamento con la morte. È fissato per sabato. No, non si tratta di un tragico destino pronto a pioverle addosso, a sua insaputa. La data l’ha scelta lei, agenda alla mano, come si fa con la revisione dell’auto o la messa in piega dal parrucchiere.

Il cancro che ha nel cappello è troppo forte e cattivo, non si tratta di un portafortuna e Brittany è lì tranquilla mentre il mondo sta girando pieno di fretta.

Si è trasferita da San Francisco fino nell’Oregon, dove morire, in un caso come il suo, si può. Per me – ceo della Ignoranti Corporation – l’Oregon significa due cose soltanto: la storia di Brittany e lo scrittore Chuck Palahniuk, che a occhio ne saprebbe trarre un travolgente racconto.

In Italia in molti hanno scritto della scelta di Brittany, in maniera preziosa alcune donne (Chiara Lalli, Daria Bignardi e oggi Emanuela Audisio…) e chissà se è soltanto un caso.

Però dubito se ne parli granchè, nei tinelli italiani in questa fine ottobre di gettoni e manganelli. Peccato, perché ci riguarda un bel po’. Metti che un giorno s’arrivi anche noi sulla soglia di quel diritto…

Scrive oggi l’inviata di “Repubblica”:

«Sarebbe bello non giudicare Brittany, non dividersi, non polemizzare. Quanti di noi alle prese con un tuffo difficile da una scogliera, dicono all’amico: guardami. Perché se tu mi vedi io avrò meno paura. E oggi ci si può far tenere la mano anche online».

Assistere al tuffo di Brittany si può. Basta andare su questo sito e spedirle una sorta di “cartolina”. E pazienza per la retorica e la guerra sporca tra le associazioni pro e quelle contro.

Sulla scogliera si sente soltanto un gran rumore di onde e di vento.

Aggiornamento: Brittany sembra abbia deciso di rimandare il suo appuntamento. Un gesto di libertà che si somma a quello di cui ho parlato nel post.

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E improvvisamente produrre il nuovo disco di Giua

Era la primavera del 2007 e stavo guardando svogliatamente un Tg3 del pomeriggio. L’ultimo servizio, in quota cultura, mostrava una cantautrice coi capelli rossi appollaiata sopra uno sgabello. Cantava e suonava, a margine di qualche festival tenuto chissàdove. Dopo meno di dieci minuti una mail di conferma confermava con fermezza l’avvenuto acquisto di un CD.

Ne sono passate di canzoni sotto i ponti delle chitarre, ma quelle di Giua continuo a cantarle a squarciagola. Perché sono oggetti preziosi, perfetti, prismi con tante facce, facce che riflettono sempre qualcosa di nuovo.

Poi Giua ho avuto la fortuna di conoscerla davvero. L’ho ascoltata ai piedi di vari palchi, ma anche nel corso di esibizioni postprandiali improvvise come urgenze, in osservanza al pervasivo demone della musica.

Un giorno la mia alunna Ilaria ha orecchiato una sua canzone nella mia macchina, durante un breve e casuale tragitto. Conseguenze: amore a prima vista e un messaggio spedito dalla Carnia alla Liguria, complice Facebook.

Un anno e mezzo dopo, Ilaria si “laureava” in terza media con una tesi sulla sua cantautrice preferita, eseguendone un brano dal vivo preparato via Skype, discettando di scuola genovese e di quante cose ci siano in Via del Campo.

Per tutto questo penso a Giua come ad una persona molto, molto generosa.

Oggi, però, è la cantautrice a chiedere a tutti un gesto di generosità e di fiducia, dopo aver lanciato un finanziamento collettivo per la realizzazione del suo terzo album.

Andando qui, tutto è spiegato con chiarezza.

Si tratta si una sorta di patto da stringere, con l’arte e con la bellezza.

Stringiamolo.

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I miei magnifici 11

Raccolgo la sfida lanciatami su Facebook e stilo la mia personale formazione di libri che cambiano la vita. L’espediente calcistico mi permette l’aggiunta di un undicesimo titolo, dopo che fin troppo dolorosa è stata l’esclusione del dodicesmo, del tredicesimo, del quattordicesimo, ecc.

Il numero di maglia corrisponde al ruolo da interpretare sul campo, secondo l’antica scienza numerologica calcistica, per chi la conosca e ne sappia svelare gli arcani.

Pronti, attenti, via.

1. Portiere

Alexander Langer, Il viaggiatore leggero

Perché se anche solo un uomo politico su dieci perseguisse le sue idee, il mondo avrebbe risolto ogni suo problema. Perché Alex aveva irrimediabilmente sempre ragione.

2. Terzino destro

Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso

Perché il primo giorno che sono entrato in classe mi sono comportato come sta scritto lì dentro, e forse anche nei giorni successivi…

3. Terzino sinistro

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia

La storia di una donna, che tutte le donne dovrebbero aver letto…

4. Mediano di spinta

Luigi Meneghello, Libera nos a malo

Il libro meno provinciale che ci sia, scritto in provincia della provincia della provincia che sta più in provincia.

5. Stopper

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto

La scrittura più limpida, rotonda, perfetta. Un punto fermo.

 

6. Libero

Adriano Sofri, Piccola Posta

Perché di uomini più liberi di lui non ne conosco.

 

7. Ala destra

Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo

Mi ha fatto capire qual è LA questione del tempo in cui mi è capitato di vivere. Non solo, mi ha fatto capire anche di aver avuto un amico che si chiamava Anpalagan Ganeshu.

 

8. Mezzala destra

Elsa Morante, La Storia

Perché il bambino Useppe da solo meriterebbe la maglia da titolare. Poi ci sono tutti gli altri personaggi.

 

9. Centravanti

Antonia Pozzi, Parole

La poesia segna più della prosa. Antonia è anche il capitano della squadra.

 

10. Mezzala sinistra (regista)

Andrea Pazienza, Perché Pippo sembra uno sballato

In quel ruolo ci vuole per forza un genio.

 

11. Ala sinistra

Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose

Perché l’autrice, tra le mille invenzioni, s’inventa il plurale di pelle d’oca (“6 pelledoche”). E poi ti porta in India, e ti ci fa accomodare.

 

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Buona scuola a tutti

 

Che cosa c’è dentro le vostre teste, bambini?

Che cosa c’era dentro la mia?

Il sandalo sporcato nella polvere,

il passo leggero del lupo

il sasso che spacca la bottiglia

l’aria pulita nel cerchio delle pupille

nel declinare del sole

la figura di un biplano rampante,

che cosa c’era dentro la mia?

 

Sono qui, con voi, perché sia voce

la mia dentro le vostre

voce dimenticata

e l’assolata fantasia dei vostri anni

la forza che reclama da ogni radice il frutto

salvata intatta nel vostro guardare di uomini,

che cosa posso perché voi possiate,

che cosa posso io, a voi che tutto potete

a voi che guardate le cose che vi daranno lo sguardo

che cosa posso, bambini?

 

Pierluigi Cappello

 

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Italy in a day (è un giorno in Italia, anche questo, in un parcheggio in cima al mondo…)

 

Cara 3ª C,

ormai ex 3ª C, ed è già quasi ora di farvi l’inboccaallupo per quando diventerete 1ª qualcheccosa, sparsi qua e là tra le scuole superiori. Ma non oggi, oggi guardo indietro e vi chiedo se vi ricordate di quel giorno, era il 26 ottobre 2013, in cui siamo usciti dall’aula per girare quei due piccoli video. Vi ricordate?

Nel primo, uno di voi se ne stava seduto sul banco per scrivere un tema, con penna, astuccio e vocabolario. Soltanto che il banco l’avevamo piazzato in mezzo al cortile, e subito cominciava una partita di calcio che di quell’oggetto se ne fregava, faceva finta che non ci fosse. Chi scriveva guardava nel vuoto, come chi pensa profondo, e mordeva il tappo. Gli altri stoppavano e crossavano, passavano, tiravano e paravano. Contemporaneamente.

Per girare il secondo ci eravamo spostati sulla Gomba, il punto panoramico di Forni Avoltri, da dove la scuola diventa piccola piccola, come tutto il resto, e soltanto il fiume sembra paradossalmente diventare più grande, mostrando con chiarezza il suo fare a fette il paese. Lassù prima guardavate in camera, sorridenti e un po’ misteriosi, poi facevate un urlo potente affacciati sul vuoto, in direzione delle case. Una parola sola dicevate al mondo, e non era nemmeno importante che fosse quella, la parola, il bello stava tutto nel fatto di dirla. Il bello stava negli altri paesani che lì sotto l’avrebbero sentita, chiedendosi a quale nuovo gioco stessimo giocando in quella mattina di ottobre.

Oggi a Venezia il regista Gabriele Salvatores, quello che doveva mettere insieme i pezzi, ha presentato il suo lavoro. Pezzi ne ha raccolti 44.000.

Voi non ci siete, ve lo posso assicurare anche se non ho visto il film. Siete minorenni, e se avessero scelto le vostre facce mi avrebbero chiesto le autorizzazioni delle famiglie, quelle che si chiamano “liberatorie”. Non l’hanno fatto, anche se per tutta l’estate ho sognato di rispondere al telefonino e dire “Ah, ciao Gabriele, certo, ok, vedrò cosa posso fare…”.

Non credo non siate piaciuti a Salvatores, nel trailer ci sono scene nemmeno troppo diverse e vi confesso che nelle “situazioni” che abbiamo rappresentato c’avevo infilato qualche piccola citazione dei suoi film… (per esempio, lui una volta s’è inventato una partita a pallone nel deserto che un po’ somigliava al nostro tema calcistico…).

Piuttosto la qualità delle immagini non era all’altezza, i nostri mezzi erano quello che erano e il sottoscritto valeva come mezzo cameraman.

È andata così, però io di quel giorno ho un bellissimo ricordo e quei due “filmati” li guarderò quando mi mancherete un bel po’, forse ma forse.

 

Il 27 settembre Italy in a day andrà in onda su Rai3. Io sarò davanti alla Tv, non si sa mai. Magari un frammentino senza facce, un fotogramma del paese visto dall’alto, il sonoro del vostro urlo… Insomma, e se…

 

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Il piccolo fiume incontra il Grande Fiume

 

Il piccolo fiume si forma a poco a poco, da tanti piccoli affluenti silenziosi.

Eccolo radunarsi nei pressi del lungo ponte e delle quattro strade che vi convergono, due di qua, due di là.

Il piccolo fiume è fatto di persone, alcune scese da macchine in transito, altre accorse dopo aver abbandonato il piatto della cena in corso, nelle case vicine.

Ad attirare il piccolo fiume è il boato del Grande Fiume, impetuoso come non accadeva da anni, prepotente nel suo folle correre verso il mare. Ad accelerare il cammino di quei piedi sono le sirene di soccorsi prestati non lontano da quel luogo, in un punto da cui provengono anche luci lampeggianti.

La processione si sparge lungo il ponte e sulle sponde, raramente così vicine al flusso dell’acqua. Capto le poche parole che sfuggono al fragore di quell’onda sporca e spietata con i timidi arbusti cresciuti a riva: “…ti ricordi la piena del ’78, o era il ’79?”, “E quella volta, sarà stato l’85?”. Discorsi di vecchi, quasi felici di ricordare, e di quel potere di confronto concesso loro dagli anni. Intanto, papà stringono forte – con le destre – manine sinistre di bambine attonite e senza domande. Una donna forse prega, e forse è straniera. Ragazzi scesi dagli scooter ridono forte di qualcosa.

La scena si ripete uguale a se stessa. Acqua che rincorre altra acqua. Il film durerà a lungo, e il cielo è gonfio di nuova pioggia.

Il piccolo fiume si dissolverà molto prima del Grande Fiume. 

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Para la memoria

La notizia ha un paio di giorni e l’hanno sentita tutti.

Succede ancora, fino al momento in cui non succederà più.

Un altro nipote riabbracciato dalla legittima nonna.

Un bambino rubato al corpo ammazzato di una giovane madre. Il figlio di una “sovversiva” riciclato impunemente dai carnefici dei genitori naturali, nella notte buia dell’Argentina.

Un incubo lungo una mezza vita, una vita da Ignacio, riscattato da un esercito di nonne coraggio che mettono il tuo passato in una centrifuga e te lo restituiscono con un’etichetta diversa, che se la leggi dice Guido, non Ignacio, Guido Carlotto, origini italiane, figlio di Laura, imprigionata, colpevole di aver partecipato alla vita politica del proprio paese, uccisa a 23 anni poco dopo il parto. Desaparecida no, le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia. Quel bimbo sì, scomparso, come molti altri.

E la notizia, quel piccolo capolavoro di giustizia, l’han sentita già tutti.

Non hanno sentito tutti – invece, forse – la canzone “Para la memoria”, che Ignacio/Guido, musicista cantautore, ha scritto, interpretato (fisarmonica e voce) e dedicato a questa storia. Proprio lui, il bimbo rubato, quell’esistenza uscita come un maglione rovesciato dalla lavatrice della Storia.

Si sa che i cantautori spesso raccontano di sé nelle canzoni. A differenza dei semplici interpreti, capita che si emozionino in maniera particolare, rivivendo spesso all’infinito, nel corso della carriera, i sentimenti fissati nei versi e nelle note.

Ecco, se tale luogo comune corrisponde al vero, da quale tornado sarà percorsa la pelle di Guido Carlotto mentre esegue “Para la memoria”?

 

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Zeza e Giorgia

Mica per buttarla in politica, ché non ha senso.

Svegliarmi ieri mattina, però, e scoprire da Facebook come due vecchi frequentatori delle mie classi (“diplomati” a Scuolamagia tra il 2007 e il 2008) hanno percorso le strade del loro paese nel giorno topico della sagra – storia e radici, tradizioni e gastronomia – mi ha messo proprio di buonumore.

L’ironia è sicuramente un tratto distintivo nella personalità dei due giovini, che già ai tempi delle Medie nelle ore di teatro gigioneggiavano spavaldi, ma non posso non pensare come il loro rimanga un piccolo paese di provincia, dentro una nazione che si spaventa e traballa perché qualcuno mette un tanga e un boa di struzzo attorno alle sue statue più mascoline e virili.

Ignoro se si trattasse per loro di saldare il debito di una scommessa, se fosse stato indetto (dubito) qualche concorso per maschere o gara di camuffamento, se abbiano semplicemente voluto giocare un gioco nuovo. Non importa, quello che importa è che: belli, belli, belli!

 

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Ho scritto a Scarlett Johansson

 

Cara Scarlett Johansson,

qualche giorno fa ho finito il romanzo di Grégoire Delacourt che ti ha fatta molto arrabbiare, o forse ha fatto molto arrabbiare i tuoi avvocati e coloro che si occupano della tua immagine.

La causa intentata verso l’editore francese del libro si è conclusa in tuo favore, nonostante la cifra del risarcimento che ti verrà corrisposto sia decisamente ridicola: 2.500 euro. Non ti accuso certo di aver voluto monetizzare la faccenda, lungi da me, e ti credo invece affezionata alla sottostante controversa questione di principio. Uno scrittore ha preso la tua vita, non la mia, e l’ha fatta diventare protagonista di una storia che poi prende certe sue affascinanti e autonome strade.

Io non ti conosco particolarmente bene, e i film in cui ti ho vista recitare si contano su una zampa di gallina. In Lost in Translation mi avevi colpito moltissimo, ma senza nulla voler togliere al tuo talento me l’ero spiegato più con la magia soffusa messa in piedi dalla regista e dal direttore della fotografia, con lo zampino della stessa Tokyo. A volte sei spuntata nelle chiacchiere serie e meno serie che si fanno a scuola. Mi è capitato di citarti in quanto donna ebrea, per allontanare dalle menti degli alunni qualche immagine datata e soprattutto stereotipata.

Per i ragazzini di oggi sei soprattutto l’emblema della bellezza, il paradigma della “diva”. Mica per niente l’autore di La prima cosa che guardo ha scelto te e non un’altra per il suo esperimento letterario.

Il fatto è che il romanzo gli è uscito davvero carino. Dentro ci sei tu, ma ci sono anche alcuni snodi di una dolcezza sfacciata, ci sono un sacco di dolori taglienti che si spingono molto oltre la problematica dell’ “essere/somigliare a Scarlett Johansonn”. Ci sono tematiche, nel libro, davanti alle quali anche tu, che sei tu, passi in secondo piano. C’è anche molta ironia e c’è tra i capitoli, a cucirli insieme, un’aria fresca e leggera. Leggera come l’allusione del titolo, chiaramente riferito ad una dote tua diciamo… non proprio spirituale. Una lunga scena di sesso accompagna il lettore per molte pagine verso il finale, ma sembra uscita dal genio di Jean Luc Godard: accadono molte cose su quel talamo, ma hanno più a che fare con la storia dell’arte, della letteratura e del cinema.

Ecco, arrivo al motivo di questa lettera.

Incassa i 2.500 euro. La legge è legge. Voi Star in genere devolvete in beneficienza i guadagni delle cause vinte e tu sarai impeccabile anche in questo. Poi, però: telefona a Delacourt e chiedigli di trasformare il suo romanzo nella sceneggiatura di un film. Una pellicola che altrimenti sarebbe irrealizzabile: dove la trovi un’attrice che impersoni Scarlett Johansson senza esserlo? Impossibile, finirebbe come coi i film sul ciclismo, con attori che nonostante le diete mai e poi mai avranno il fisico asciutto e spigoloso degli assi delle due ruote a pedali.

Tu, invece, saresti perfetta. Il lungometraggio risulterebbe raffinato, ma nel contempo sufficientemente pop.

Insomma, un trionfo al botteghino.

Senza contare – scusami se è poco – che ti leveresti di torno quella fastidiosa patina d’antipatia che unge le celebrità troppo permalose, trasformandola nel suo esatto contrario.

 

«Mia madre diceva che ero una neonata splendida. Poi una bambina incantevole. Il sindaco voleva creare un concorso di Miss solo per me. Una bambina incantevole. La cosa ha causato dei fastidi con il mio patrigno. Faccende sgradevoli. Che ti fanno venir voglia di andartene. Come Jean Seberg nella sua automobile. Poi mia madre ha smesso di trovarmi bella. Ha smesso di parlarmi. Non so che cosa ne sia stato di lei. Ho vissuto con mia zia. Setta anni fa il mondo ha scoperto il mio viso in Lost in Translation. Dal giorno in cui è uscito, il 29 agosto 2003, odio la mia faccia. La odio ogni minuto, ogni secondo. Tutte le volte che una ragazza mi guarda chiedendosi cos’ho io più di lei. Ogni volta che un tizio mi fissa e io mi domando se mi abborderà, mi toccherà, tirerà fuori un coltello, un taglierino, pretenderà un pompino o somplicemente mi chiederà un autografo. Forse solo un caffè. Soltanto un caffè. Ma non succede mai. Non è me che guarda. Non è me che reputa bella. Non sono io.

Il mio corpo è la mia prigione. Non ne uscirò mai da viva.»

 

Cara Scarlett,

nella speranza che tu non faccia causa anche a me (per così poco…), ti saluto e ti auguro tutto il bene possibile.

 

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Imago, Soletta, Stream of consciousness

La domenica dei papà (che puzzano)

Il fine settimana sportivo va in archivio con le sue belle imprese frutto di talento e tenacia, classe e coraggio, ma può essere guardato anche sotto la lente della paternità.

C’erano le gemelline di Federer ad assistere alla rimonta del papà nella finale di Wimbledon, sconfitto da un Djokovic pronto a dedicare la vittoria alla compagna e al frugoletto che porta in grembo.

C’era Vincenzo Nibali in maglia gialla con una frase bellissima sulla sua nuova condizione di padre oltre che di campione: «…non è cambiato niente, sono sempre quello. Sono solo più felice…».

E c’era una bimba riccia in braccio al suo eroe arancione (il centravanti olandese Robin Van Persie), appena sbarcato in semifinale nel mondiale brasiliano.

Lui rispondeva ai giornalisti, ancora con il fiatone. Lei, Dina, si inseriva nell’intervista con un meraviglioso:

«Ma quanto puzzi, papà!»

 

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