Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Tre anni chiusi in una mano

 

A metà pomeriggio (R) scrive uno status (Solo adesso mi sono accorta che il tempo è passato troppo velocemente! Vorrei tornare indietro! È stato bellissimo…) e tagga amici come li tirasse per la maglia. OOOOOHHHHHH.

È il giorno dopo.

L’esame è finito.

Ventiquattro ore e l’effetto è quello di un portone che si è chiuso alle tue spalle.

Ha fatto SBAM, sbam forte, e tu non hai potuto far niente per fermarlo. Non sei rimasta chiusa dentro, sei rimasta chiusa fuori.

È il giorno dopo e io quella sensazione, provandola ogni anno, la conosco bene. Per (R) probabilmente è la prima volta.

In quel luogo hai riso, ti sei scompisciata, hai pianto, hai sognato, hai aiutato e sei stata aiutata. Hai pronunciato nomi, certi li hai accorciati, altri li hai storpiati, alcuni li hai perfino inventati.

Hai letto hai scritto hai studiato: spesso le cose che hai imparato, però, non erano né dentro al leggere, né dentro allo scrivere, né tantomeno dentro lo studiare.

Hai mangiato e hai bevuto. Hai festeggiato e hai litigato. Hai mandato a fareinculo – sì, anche me – ma più spesso hai fatto la pace. Hai cantato, in quel luogo. Hai ballato. Hai bestemmiato, e a volte serviva pure quello.

Hai abbracciato, ti sei appoggiata sulle spalle degli altri, ti sei fatta portare in groppa. Hai disegnato sul banco e ti hanno disegnato e scritto sulle mani. Hanno inventato i selfie e tu ti sei fatta dei gran selfie.

Ti sei seduta sul banco finché ha cominciato quasi ad andarti stretto. Hai guardato gli altri attorno a te, mentre facevano pressappoco quel che facevi tu, e hai pensato che stessero cambiando, crescendo, “diventando grandi”. Hai pensato che magari stava capitando anche a te, anche se era più difficile da capire.

Oggi sei lì, e nelle orecchie sembra ci sia solo il suono di quel portone sbattuto.

Un rumore fortissimo con un’eco assurda.

Strano, perché in realtà quell’ingresso è minuscolo. L’ingresso minuscolo di una scuola minuscola. Minuscola quanto? Facciamo come la sorpresa di un ovetto Kinder. Ma dentro c’è tutto e da lì non lo sposta nessuno: le risate, i nomi, gli abbracci, le parolacce, le cose scritte sulla lavagna, i panini col salame e le scritte sul banco.

Le tue Medie son tutte lì dentro, e stan nel palmo della mano. La tua.

Stringila forte e vai, perché adesso è ora di andare.   

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Happy a Scuolamagia

 

Il piccolo festival del cinema indipendente di Forni Avoltri continua (e si conclude) con il cortometraggio delle ragazze: Irene, Nicole, Evelyn e Rebby.

Non chiamate “disimpegno” la cifra stilistica della loro opera. Vi assicuro che per raggiungere l’obiettivo di spassarsela al massimo ce l’hanno messa davvero tutta, sottoponendo il paese intero ad una sorta di invasione barbarica a colpi di balli, strilli e risate.

Buona visione.

(Piuttosto agghiacciante scoprire che nelle settimane di lavorazione analoga impresa di abbinare allegre movenze a quella musica così globalmente popolare era tentata anche da un gruppo di giovani adulti di Teheran, con la differenza che i malcapitati – in realtà molto più composti delle quattro tredicenni italiane – hanno scontato con il carcere la colpa di essersi dichiarati nientepopodimeno che felici).

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Se di alpina c’è solo la stella

Siamo d’accordo che ci sono tutta una serie di cause storiche.

Siamo d’accordo che ci sono a latere pure una serie infinita di azioni nobili e meritorie.

Siamo d’accordo che essere eccessivamente polemici nel giorno in cui un gruppo di persone, grande o piccolo, si riunisce per festeggiare se stesso senza recare danno a chicchessia è oltremodo sgarbato.

Siamo d’accordo che le cose capaci di unire in questo paese son talmente poche che forse è meglio tenercele strette.

Tutto ciò premesso, più li guardo sfilare e più penso che quelli sono soprattutto centinaia e centinaia e centinaia e centinaia di maschi.

 

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MicroMega contro la libertà indecente

MicroMega. Quand’ero all’università quella testata incuteva in me una sorta di venerazione. Era la rivista che si occupava di filosofia ancor prima che di politica, e io ero un iscritto a lettere che amava sconfinare dal classico piano di studi infarcendolo il più possibile di esami filosofici.

Era una rivista, ma quando la sfogliavi (e la leggevi) affiorava la consapevolezza di trovarsi dinnanzi ad un vero e proprio libro. La carta ruvida e gli ampi spazi bianchi a margine degli articoli invitavano ad apporre note e commenti a matita. Una goduria.

Poi è venuta la stagione dei numeri settimanali, ai tempi delle guerre di inizio secolo e di tante schifezze berlusconiane. Anche quelli, seppur più agili e decisamente più economici, li classificavo tra le mie carte come fossero tomi.

È trascorsa una manciata d’anni, la rivista ha conservato la sua mission, ma si è dotata di strumenti utili ad affrontare i tempi che cambiano: siti, blog, account e profili d’ordinanza.

L’odierna battaglia online, però, invita nientepopodimeno che a firmare una petizione per la revoca dei servizi sociali al condannato Berlusconi.

Quella rivista lì – le menti che un tempo ho creduto le migliori della generazione precedente alla mia – chiede quindi con forza la contenzione di un vecchio (per carità, il meno raccomandabile vecchio in circolazione). So benissimo che gli arresti domiciliari in una villa che fa provincia non somigliano minimamente alla reclusione in gattabuia del povero spacciatore magrebino, ma chi si diletta di idee non può non sapere che, se “ci sono cittadini meno uguali di altri davanti alla legge”, la libertà è il medesimo valore per chiunque e sempre. Quando un corpo è detenuto è detenuto e basta, i metri quadrati filosoficamente non contano.

Togliere la libertà, di movimento e di espressione, ad un vecchio evasore fiscale. Questo è ciò che insegna e persegue la più blasonata rivista di pensiero del mio paese. Dimenticando ancora una volta come l’Italia necessiti di un cospicuo supplemento di Giustizia, non di manette. Evidentemente i MicroMegalomani se ne fregano del fatto che il nostro pregiudicato non sia visto come tale dalla stragrande maggioranza della nazione, e che in quel dato sia marchiata la sconfitta del sistema educativo, di ogni istituzione pubblica, di ogni famiglia italiana. Berlusconi ha ahinoi commesso in 3D quello che più di metà italiani commette o commetterebbe ogni giorno nel suo piccolo.

Che ‘sto putrido garbuglio etico e culturale si possa sbrogliare con la contenzione fisica di un vecchio, sia pure il peggior vecchio, invocata a suon di firme digitali, la dice lunghissima su come stiamo  messi.

A corredo dell’iniziativa molto poco filosofica (e molto poco di sinistra) della rivista filosofica per eccellenza campeggia una vignetta con la faccia del pregiudicato S. B. copiaincollata ad arte a fianco di un maiale. Un genere che va fortissimo, specie nei post di un famoso blog appena appena un po’ meno avvezzo alle questioni gnoseologiche, epistemologiche, teoretiche. Ma solo un po’, belìn. 

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To Be Continued 2014: anche noi listening point

TBC...2014flyer

Siamo il paese del #jobsact e della #spendingreview e domani la mia scuola, alias Scuolamagia, diventerà un #listeningpoint.

Dalle 8.00 alle 16.30 chiunque passerà per l’aula polifunzionale (no, non la chiamiamo così, siamo soliti dire “giù dai computer”, anche se ho sognato che quel luogo rimanesse impresso nelle menti come “AULA MAFALDA”, dopo aver commissionato ad alcuni alunni la realizzazione di una bimba argentina da appiccicare al legno della porta…) potrà cogliere nell’aria note provenienti da un sacco di altrove. Domani, infatti, si rinnova il piccolo grande miracolo di To Be Continued, 48 concerti incatenati l’uno all’altro, piccoli anelli di mezzora che andranno ad unire la mezzanotte del 23 marzo con quella del 24. Non ci sarà un ascolto “forzato” e in teoria nessuna lezione del lunedì si svolge solitamente in quegli spazi. Tuttavia, capita che ognuno ci passi più di una volta, per recuperare la riga da 60 cm o un barattolo di tempera blu, per stampare una cartina del Congo o per cercare il tappo di un evidenziatore volato giù dal piano superiore. Sarebbe bello che studenti e insegnanti si chiedessero anche solo se i suoni a quell’ora scendono da Mosca o risalgono dalla Nuova Zelanda, se piovono dall’Irlanda o riaffiorano dai cantoni svizzeri, oppure se lo strumento che sta sfornando note è un sitar, una balalaika o un asciugacapelli impiegato in modo strambo.

A fianco del computer ci sarà una stampa della locandina dell’iniziativa, un disegno strepitoso di Cosimo Miorelli. Ci fosse un prezzo del biglietto – ma ovviamente non c’è – la locandina da sola lo varrebbe.

Un punto di domanda: la primavera è cominciata da 3 giorni, i miei alunni vengono da una settimana in cui hanno giocato a calcio durante l’intervallo in canottiera e pantaloni corti e il meteo nella notte prevede nevicate oltre i 500 metri. Con le nuvole gonfie di neve, la banda già non molto larga di Scuolamagia si fa strettissima, un vero collo di bottiglia. Mannaggia.

(Eventualmente ci si stringerà tutti attorno al mio cell., ma non sarà la stessa cosa…)

 

Per ascoltare To Be Continued, nella giornata di lunedì 24:

CLICCA QUI

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CV: Curriculum VitaLe

Sono un insegnante inadeguato davanti ai misteri (per me lo sono) della geografia fisica. Non ho mai capito perché piove, accetto da sempre come un dogma i benefici effetti della Corrente del Golfo, confonderò sempre la tundra con la taiga. Me la cavo un po’ meglio con la geografia antropica, pur rifuggendo il nozionismo capitalista (nel senso: la sai la capitale del Turkmenistan?). Nutro invece una curiosa ignoranza nei confronti della geografia economica, che mi porta a compiere esperimenti ai danni dei miei cuccioli.

Parlo quindi di crescita e sviluppo, PIGS & BRICS, terziarioavanzato e outsourcing davanti a occhi che un po’ rimpiangono gli affluenti del Po e un po’ ci si affogherebbero volentieri.

Qualche giorno fa ho deciso che tutti, dalla prima alla terza, avrebbero dovuto inviarmi il loro CV. Ho creato un bando (5 posti all’interno di un campo scuola per bambini londinesi in Carnia, 4 settimane intensive per 3000 euro, astenersi perditempo) e ho raccolto 17 buste (il quaderno, si sa, è superato) su cui qualcuno ha disegnato la ceralacca e qualcuno ha applicato davvero (!!!!) la ceralacca.

Mi sono quindi seduto alla scrivania e ho vagliato, selezionato e scelto.

Come sempre mi sono sentito surclassato in creatività, e poche sensazioni sono più appaganti di questa.

Evelyn, vai a capire se si trattasse di sbaglio suo, del programma di videoscrittura o di genio purissimo, ha scritto a fianco della sua foto, sotto la sigla CV: “Curriculum VitaLe”. Spieghiamole, se siam capaci, che un documento del genere non debba essere anche impregnato di vitalità.

Marco ha indicato, in una specifica sezione dedicata alle attività sportive, un 3° posto in una gara di “corsa coi sacchi”. Ottime credenziali.

Irene si è detta già cameriera in pizzeria, ma in una pizzeria di Boston: conoscenza dell’inglese pertanto ottima.

Micael ha millantato, paroparo, la laurea in scienze dell’educazione della madre.

Manuel ha raccontato di essere passato dal lavaggio dei piatti al cabaret all’interno dello stesso albergo, grazie a doti comiche innate.

Cristiano ha vinto le Olimpiadi di Torino, Martina ha trionfato a Wimbledon, nel 2011: i bimbi di sua Maestà la Regina apprezzeranno di sicuro.

Oleg ha redatto il suo CV a mano su un foglio a quadretti, ma Oleg è uno che “giustifica” meglio di Word.

Francesca ha in saccoccia un Master, e la passione sfrenata per il canto.

Thomas dichiara di amare la storia antica e la chitarra elettrica.

Carlotta è stata l’unica a dichiararsi patentata; nel suo passato anche un periodo da “ragazza alla pari” presso i “signori Smith”, a Londra.

Yuma ha infilato nel suo curriculum la sua (vera) passione per i cavalli, e forse non le sarà troppo d’aiuto la conoscenza dell’argentino.

Nicole ha fatto la gelataia a Riccione e la baby sitter a Reggio Emilia; in seguito ha scoperto il mondo della grafica.

Davide conosce poco l’inglese (dice proprio così: “poca conoscenza”), ma ha fatto il bagnino in quel di Bari.

Rebecca ha lavorato in un circo (mansione: “gonfiatrice di palloncini”) e rimanda al suo sito http://barbonimangiatidaunlama.com. A distanza di settimane continua a vantarsi per la sua “innata capacità di usare Paint”. Pensa se ci si fosse pure applicata, quel palloncino gonfiato.

Gabriele è l’unico ad aver contemplato l’esistenza di una moglie e di un figlio a carico, sperando che i campeggiatori britannici si mettano one hand on the heart.

Quello di Marcello più che un curriculum è una confessione: “mi piace mangiare, mi piacciono i film d’azione, ho un cane Labrador”. Dice anche, però: “Aiuto le persone che hanno bisogno in qualsiasi momento”. Non posso che confermare, il ragazzo non mente.

 

(Tocca pure raccontare – dovere di cronaca – della personcina che, svolte brillantemente le proprie consegne domestiche, ha dedicato un pensiero al suo prof., chiedendogli se avesse avuto altre esperienze d’insegnamento, al di fuori di quelle pluriennali a Scuolamagia… Incassato il no un po’ imbarazzato del suo insegnante, ha commentato, con un occhio da angioletto e uno da creatura del demonio: “ma quindi… il tuo CV sta tutto in un post-it…”)

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Il neo di Michela Murgia sul volto della Sardegna

«Il volto della Sardegna l’abbiamo già cambiato».

Lo scriveva su Twitter Michela Murgia, il 15 febbraio 2014, a poche ore dalle elezioni regionali.

Sarebbe bello oggi dicesse che non era vero, che quella frase era frutto di un calcolo, la mossa scontata di chi sa di non aver fatto breccia nel cuore degli elettori – ultimi sondaggi alla mano – ma prova comunque a soffiare sulle tiepide braci di un sogno già svanito.

Non era vero, il volto della Sardegna nella migliore delle ipotesi si darà una sciacquata con l’acqua di mare e una grossolana soffiata di naso, si toglierà un po’ di quelle cacchette dagli occhi, come al risveglio da un sonno pesante, ma sarà più o meno lo stesso.

Il 10% (salvo sorprese ormai poco probabili, scrivo alle 15.00) è troppo poco, soprattutto se calcolato su un elettorato già fortemente mutilato dall’astensionismo e in presenza di una potenziale fettona di popolazione di area grillina orfana di candidature pentastellate.

La candidatura della scrittrice di per sé era legittima e benvenuta, il rischio di far vincere la destra nell’ansia di smarcarsi a sinistra faceva parte del gioco democratico, a patto di assumersene pienamente la responsabilità politica e di riuscire ad enunciare senza remore davanti al mondo l’equivalenza (cara a Grillo) di Pd e Forza Italia.

L’importante è non pronunciare la bestemmia del volto cambiato all’isola, soltanto perché una minoranza ha rimirato compiaciuta se stessa dentro un piccolo, piccolissimo specchio. Sopravvive nel paese un estremismo di retroguardia, irrimediabilmente senza popolo, che non smette di piacersi e di guardare la realtà dall’alto di torri d’avorio finissimo.

Il volto del popolo, intanto, si nasconde altrove, refrattario al cambiamento. Più della giovane scrittrice, impressionano i tanti continentali – politici, giornalisti, intellettuali – saliti sul carro sgangherato della Murgia soltanto per averci visto il sassolino che può inceppare gli ingranaggi del nemico, salvo infischiarsene delle battaglie per l’indipendentismo e delle altre paturnie identitarie dei Sardi. I loro preziosi endorsement scenderanno presto a posarsi su qualche nuovo cavaliere senza macchia, pronto a cambiare il volto di un’altra città, di un’altra regione, di un’altra isola. Con un piccolo neo, ma volete mettere il fascino di un neo?

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Enrico e Matteo come Tina e Dominique

 

Voglio dimenticarmi per qualche istante di essere quel fine politologo che sono. Voglio mettere tra parentesi il mio lucido sguardo sulla situazione economica, le mie idee sul futuro del paese, financo il mio bagaglio pesantissimo di studi sulle dottrine politiche e sulle forme di governo.

Voglio ragionare con il candore di un bambino.

Voglio alzare il ditino e suggerire a Renzi & Letta, a Letta & Renzi, di trarre ispirazione da un fatto accaduto oggi alle Olimpiadi di Sochi.

E se la risolvessero così anche loro?

Facile, no?

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Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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Risolvere la questione Kyenge, così

When in trouble, go big. Lo dicono gli Americani. Io l’ho imparato dal giornalista Francesco Costa, ed è pure il sottottitolo del suo blog.

Sei nei pasticci, non ti difendere: attacca. Come un tennista che va a rete, come un ciclista che prova il tutto per tutto su una salita. Prenditi dei rischi, ma spariglia, osa, fai una mossa che smuova davvero le cose.

In trouble lo siamo oltre ogni più ragionevole dubbio. Ci sono italiani razzisti che dettano la tabella di marcia ad altri italiani razzisti affinché vadano a scagliarsi, lungo tutto lo stivale, contro il primo e unico Ministro della Repubblica colpevole di essere di colore, con l’aggravante di essere donna. Alla luce dell’attuale situazione politica, una Ministra tra l’altro talmente lontana dal poter attuare qualsivoglia proposito riformatore da mettere ancor più in luce i rigurgiti della Lega, comprensibili solo e soltanto scomodando la categoria del razzismo.

Se non è trouble questo…

Quindi che fare?

Una cosa ci sarebbe. Strana, sorprendente, e si presta a tutta una serie di obiezioni che mi sono già rivolto da solo. Però è BIG. Proprio quello che servirebbe ora che siamo in trouble.

Napolitano domani si alza, si siede allo scrittoio e nomina Cécile Kyenge Senatrice a Vita.

La motivazione? Le vogliamo bene e ce la vogliamo tenere stretta, punto. Vogliono farla dimettere lanciandole le banane? E noi la promuoviamo e le chiediamo di servirci, con lauto stipendio e onori annessi, per un numero più lungo possibile di anni.

Le forze politiche di tutto l’arco costituzionale plaudono con forza (tutte, anche quella di Peppe, ché glielo chiede la rete…).

La Lega muore.

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Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

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Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

Blu, una poesia…

 

BLU

 

A sbrissin i vistîts lizêrs

sbregâts, dismembrâts

de aghe sglonfe di otubar

    La tô ultime cjase:

    ramaçs secs

    e alighis di roie

e un cûr sul cuel

e un e cuarde ator dal cuel

e vergulis blu

i toi ultins vistîts lizêrs

    Un cuarp pûr

    sporcjât dal flât di chei oms

    che no domandavin nancje il to non

    La ultime olme

    des lôr scarpis pesantis

    sul to cûr

                 e vergulis blu

                        e lavris blu

                 e muse cence voi

                 e aghe, aghe

                 i toi ultins vistîts lizêrs.

 

Lucia Gazzino, Babel. Oms, feminis e cantonîrs, La Vita Felice.

 

 

BLU*

Scivolano gli abiti leggeri / strappati, smembrati / dall’acqua gonfia di ottobre / Rami secchi /alghe di torrente / la tua ultima casa / un cuore al collo un laccio al collo / e lividi blu i tuoi ultimi / vestiti leggeri / un corpo puro/ lordato da uomini /che non chiedevano / neppure un nome / L’ultima impronta / delle loro scarpe pesanti / sul tuo cuore / e lividi blu / e labbra blu / e viso senz’occhi / e acqua, acqua / i tuoi ultimi vestiti leggeri

 

 

Udine, 11 Ottobre 2004. Una prostituta è trovata strangolata ed affogata nella roggia fuori città

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Sindaci in metropolitana

Faceva freddo, ieri a New York. No, nessun superviaggio natalizio: la Pozzanghera non si è mossa dal suo solito asfalto. Faceva freddo attorno al cappotto del nuovo sindaco e nel vapore che usciva dalla sua bocca, in streaming sul sito del “New York Times”. Erano calde le parole di quel gigante buono, quelle sì, ed erano semplici e dirette come solo in quella parte di mondo. Un discorso perfetto, la megalopoli come il divano di una grande famiglia e quelle “etichette” pronunciate quasi alla rinfusa, senza gerarchie di sorta e quindi a un passo dall’essere abolite dal linguaggio: asiatici, gay, ricchi, vecchi, neri, giovani, poveri, americani… Viene quasi da invidiarla, la bella ingenuità americana, badando bene di non abboccare del tutto alle sue comode esche. Come ricorda Sofri nel suo librino dedicato all’autore del Principe, negli Usa vanno forti letture come Machiavelli & Modern Business, Machiavelli on Managerial Leadership, The New Machiavelli: The Art of Politics in Business. Lo prendono sul serio, il nostro Segretario, e non lo confinano nei ricordi della quarta liceo.

Tutta quell’enfasi democratica, tutto quel “crederci”, non possono che impressionare soprattutto noi italiani, che guardiamo le nostre istituzioni sempre con sospetto e distacco, quando non gli facciamo il verso in camicia di flanella e un fantoccio (di noi stessi) al fianco.

E poi ci sono i giornali, i nostri.

Sussultano: evviva il sindaco che va a giurare in metropolitana! Da noi non s’è mai visto! Seguono autorevoli commenti, dalla cattedra o dall’amaca.

Peccato che il sindaco uscente – data per scontata l’abilità statunitense nella rappresentazione fotografica (e spesso demagogica) del potere – usufruisse altrettanto – e da milionario – di quel mezzo pubblico. Anzi, sulla metro buttava già l’occhio su qualche scartoffia, prima di arrivare in ufficio.

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Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Vite che non sono la mia

Da qualche tempo prima di andare a dormire clicco su Repubblica.it e dedico le mie penultime energie (le ultime spettano di diritto al libro che ho sul comodino) a Il mondo in un minuto, piccolo compendio quotidiano di fotografie dal pianeta. Gli scatti che mi colpiscono di più finiscono spesso a fare da copertina al mio profilo su Facebook.

Mentre compio questo piccolo rito, sono sfiorato da un pensiero ricorrente: l’oriente mi sembra più fotogenico dell’occidente. Mi stupisco dell’ingenuità di questo assunto, che so demolire dialetticamente anche da solo, ma tant’è: mi capita di rimanere incantato davanti ad un mercato popolare di Giacarta più che davanti ad un corteo di operai messicani, davanti ad un panorama di Taiwan prima che dinnanzi allo skyline di Toronto.

La faccio breve e confesso di sentirmi una merda per aver guardato le immagini provenienti dalle Filippine con gli stessi occhi di quando metto in scena il mio “premio fotografico” delle sere qualsiasi. Ho visto la bellezza dove avrei dovuto sentire soltanto la compassione. Ho benedetto il talento ma anche la fortuna di chi ha saputo incastonare una bambina disperata nel mosaico dei fili elettrici ingarbugliati ai rami; ho trovato spettacolare una moto guidata da un padre in fuga, passeggeri due figli piccoli e due enormi orsi di pezza.

Dal poco che so di quell’arcipelago lontano è riemerso poi questo video, che credo domani mostrerò ai miei giovani virgulti, con la storia pazzesca degli abitanti del cimitero di Navotas, a Manila. Un affresco di vita, occhi spalancati, salti e corse a piedi nudi messo in scena direttamente nel teatro della morte.

Ma ci son ricascato, quella è di nuovo la bellezza.

Di vite che non sono la mia*.

 

Above and Below from Stefan Werc on Vimeo.

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