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La mission impossible della Canalis

Condannata dalla sua avvenenza ad essere considerata incapace di qualunque altra azione che non sia lo starsene in posa, Elisabetta Canalis ci fa oggi riflettere sul tema della sete.

Lo fa impersonando un cane, rinchiuso da un padrone crudele dentro una macchina parcheggiata al sole. Nel video girato per la Peta, la giovane donna boccheggia, si fa aria con le mani, aderisce col viso all’unico spiffero, scalcia furiosa, rinuncia, muore.

Bisognerebbe approfondirlo, il pregiudizio degli italiani maschilisti – uomini e donne, tant’è – che sanno distinguere in 20 secondi di spot il quid che separa un’attrice “cagna maledetta” da una grande attrice. Chissà chi avrebbero visto bene al posto della soubrette sarda: Anna Magnani, Margherita Buy, Meryl Streep? O forse qualche stella venuta dal teatro: Piera Degli Esposti, Mariangela Melato?

Il problema è che Elisabetta – volente o più probabilmente nolente, ché qui si tratta di tutto tranne che di difendere la Canalis – ci dovrebbe far pensare alla sete. E la sete, non c’è metodo Stanislavskij che tenga, non la sa recitare nessuno. La sete non si finge. Nemmeno quelli con gli Oscar sul comò, ci riescono.

La sete non si raggiunge con l’astrazione, non si tocca nemmeno con la compassione.

La sete non è più roba nostra.

La sete è ormai roba da cani e da altri poveri avanzi dell’umanità.

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Il 5° goal della Spagna

Antonio José Puerta Pérez è morto il 28 agosto 2007, all’età di 22 anni. Non era un calciatore famoso. Era un giovane di belle speranze, un talento delle rappresentative giovanili che però, in un’unica occasione, aveva già assaporato la gioia di indossare la divisa rossa della nazionale maggiore. La sua faccia è rispuntata ieri sera, senza troppa retorica, sulla maglietta di un uomo che sorrideva e saltellava, che abbracciava tutti, che giocava a fare il torero e soprattutto sollevava un trofeo importantissimo.

La memoria dev’essere tenace, se vuol essere tale. È bello che ci si ricordi di una persona di cui ci si era già ricordati. Ampiamente. Gli spagnoli a Puerta avevano già dedicato un mondiale ed un altro europeo. Non era la prima volta che stampavano la sua faccia e il suo nome sulle magliette. Non serviva, si sarebbe tentati di pensare. E invece sì, devono aver pensato gli uomini di Del Bosque.

Nel torneo che passerà alla storia per le magliette levate a favorire plastiche pose da statua, ecco un altro momento che avrebbe dovuto essere celebrato: un uomo che si mette una t-shirt con la faccia di uno sfortunato collega che non c’è più.

Chissà se l’avevano preparata, gli azzurri, la maglietta col ragazzo crollato in campo il 14 aprile 2012 (come dire: ieri)? Anche lui aveva onorato la casacca azzurra. Probabilmente sì, l’avevano preparata. O forse no. Non lo sapremo mai. L’avessero indossata comunque – nonostante la sconfitta, fieri di un inaspettato secondo posto – le Furie Rosse non si sarebbero certo sentite offese.

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La prova INVALSI e la piccola rohingya

Non c’è mai la scuola aperta quando serve. Domani sarebbe servito. Invece la scuola sarà chiusa. Non letteralmente, perché i cancelli e i portoni si apriranno puntualissimi. Nella sostanza, sì. Chiusa, sbarrata, sprangata. “CHIUSA PER PROVA NAZIONALE INVALSI”, potrebbe recitare un cartello. Se ne starà nel suo bozzolo di meritocrazia posticcia, di oggettività un tanto al chilo. Rigorosamente con gli occhi chiusi,  allegramente al buio. Invece, anche se è giugno e fa molto caldo, avremmo dovuto esserci, insegnanti ed alunni, per parlare di una bambina.

Le cronache – quasi esclusivamente in inglese, in italiano ne accenna oggi Adriano Sofri nel suo pezzo da Oslo su Aung San Suu Kyi – dicono abbia un mese e mezzo di vita. È stata ritrovata alla deriva, a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Sembrava vuota, non lo era. Proprio come le scuole medie domani mattina: sembreranno aperte, non lo saranno. È riuscita a superare il muro eretto dalle autorità del Bangladesh al flusso di profughi rohingya (una minoranza musulmana) in fuga dalla Birmania. Centinaia di disperati che tentano da giorni di attraversare il fiume Naf, confine naturale tra i due paesi asiatici.

Raccolta dall’imbarcazione – involontaria ruota degli esposti – la bambina è stata affidata a una generosa famiglia di pescatori, che le ha prestato le prime cure.

Non ci sarebbe stato molto altro da aggiungere, domani a scuola. Le belle favole bastano a se stesse. I ragazzi sarebbero tornati a casa gonfi di pensieri da cullare, e il prof. si sarebbe chiesto – immaginandoli sdraiati su un prato o smarriti davanti a una finesta: “non avrò mica dato troppi compiti?”.

(Vecchie “battaglie” contro l’Invalsi…: qui, qui e qui)

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Il terremoto dietro le sbarre

Il tuo lavoro è nei gesti che fai. Il tuo lavoro è i gesti che fai. Stringi il volante, digiti su una tastiera, spadelli spignatti e brandisci una motosega. Ammonisci con un dito, infili un ago in una vena, spalmi della malta tra un mattone e un mattone. Se sei fortunato fai un fa#- o uno smash, scrivi una poesia o tagli un traguardo a braccia alzate. Sempre gesti sono. Se sei fortunato, soprattutto, li hai potuti scegliere.

Da giorni mi perseguita l’idea di un gesto. Fa parte dei doveri quotidiani di certi lavoratori, in genere appartenenti alla categoria “sfortunati”: gente che non ha scelto.

Non so nemmeno a che ora si compia, quell’azione. Immagino di pomeriggio, ma potrebbe anche non essere così. Forse prima suona una campanella, oppure una sirena come quella di certe fabbriche. Un segnale che tutti conoscono, a dire che è ora. Probabilmente non servono parole, basta osservare le sigarette aspirate in fretta, gli ultimi passi inquieti, gli ultimi tocchi al pallone (anche qui siamo di fronte a questioni di fortuna), gli ultimi sguardi verso l’alto ad abbracciare un ramo, una nuvola, un temporale che arriva.

I prigionieri credo la odino per questo, l’ora d’aria: finisce subito. Poi si tratta di preparare il gesto – semplice e automatico – cercando il ferro che pende dalla cinta, il ferro delle chiavi, lunghe e pesanti. In pochi attimi, il tempo di qualche replica lungo un corridoio, il dovere è compiuto. Le celle sono chiuse. Il rumore è un’abitudine, tripla mandata: 1, 2, 3. Fine. Si torna in ufficio, con la “Gazzetta”, il caffè, le chiacchiere dei colleghi.

Mi perseguita l’idea di un gesto. Mi immedesimo in chi è costretto a compierlo in questi giorni in Emilia, nelle carceri di non so dove. Salvo casi rarissimi, non conosciamo il nome delle nostre prigioni.

Ci sono uomini che chiudono la porta a chiave. La chiave che gran parte degli italiani – come in quella famosa espressione – addirittura “butterebbe via”. C’è tanto, tantissimo da fare per l’Emilia terremotata. Forse dovremmo anche dividere con quelle persone il peso – morale – di quelle mandate.

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Il post è già scritto quando scopro con piacere che probabilmente, nella fattispecie, sono stato troppo pessimista.

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Per questo canto una canzone triste triste triste

Alle otto meno un quarto di sabato 19 maggio, nell’hotel forentino in cui alloggiavo coi miei alunni avrebbe dovuto suonare la sveglia. Non l’ha fatto, almeno per me e per le ragazze della 3ª C. Eravamo infatti già usciti dalle sei, per la corsetta mattutina con cui sono solito far concludere le gite scolastiche, per un saluto alla città – qualunque essa sia – ancora sonnecchiante prima dell’invasione dei turisti.

La stazione, Piazzasantamarianovella, il Lungarno, Pontesantatrinità, Pontevecchio, Piazzaledegliuffizi, Piazzadellasignoria, Viadeicalzaioli, Piazzadelduomo, Viade’cerretani, ecc.

Un sereno tour nella bellezza sempre spiazzante di una città incredibile, mentre altrove, ma sempre in Italia, in quei medesimi istanti, si stava per compiere l’itinerario opposto, la corsa verso un baratro. Anche quella una storia di ragazze, poco più grandi di quelle che hanno corso a fianco a me, sorprese dalla rinuncia a quell’impresa da parte della componente maschile della classe, stremata dalle fatiche notturne alla playstation.

Qualche ora dopo quel fuoriprogramma estetico-atletico, ho pensato che i miei utenti-adolescenti dovessero sapere quel che continuavo a leggere in maniera convulsa dal display del telefono. Cosa cinguettassero quei tweet. Li ho radunati, quasi al centro di Piazzalemichelangelo, la città sullo sfondo, e ho detto loro quel che sapevo. Il fatto, dove e quando, le prime ipotesi, senza protendere per nessuna, senza sbilanciarmi. Era giusto fossero messi al corrente, anche solo per un attimo prima di rituffarsi nella loro gita spensierata. Era giusto che potessero dire – per prima l’ha fatto una ragazza – “bastardi”. 

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Quel giorno pioveva

C’è il bel racconto lungo di Paola Zannoner, con dentro una ragazzina che finisce quasi per caso in Piazza della Loggia, quel giorno del 1974. Un racconto coraggioso, pubblicato prima da solo e poi raccolto in un volume con altre 3 storie. Non sono davvero sicuro che abbia senso mettere quei fatti nelle mani di un tredicenne. Nemmeno noi adulti li abbiamo capiti. O meglio: li abbiamo capiti benissimo, sappiamo tutto ma non abbiamo le prove e soprattutto non abbiamo messo le pezze dove servivano, abbiamo lasciato gocciolare il rubinetto rotto. E lui, il tredicenne, che idee si può fare? Una specie di minuscolo 11 settembre? Ma chi è il nostro Bin Laden? Chi glielo spiega. Non starò seminando una malsana angoscia, con le mie fotocopie?

Ho saputo poi che l’esplosione si era sentita a diversi chilometri di distanza, che per lo spavento tanta gente aveva smesso di lavorare o aveva interrotto quel che stava facendo.

Ho saputo che erano morte otto persone e che più di cento erano rimaste ferite. E che la bomba era nascosta in un cestino dei rifiuti, sotto il portico. Se fossi rimasta nel punto in cui mi ero fermata a leggere il volantino, forse sarei morta anch’io.

[…]

Perché polizia, carabinieri, vigili del fuoco, tutti erano accorsi nella piazza devastata. E parte delle forze dell’ordine erano già lì, a guardia della manifestazione che si era trasformata in una trappola mortale. Così, mentre le ambulanze arrivavano ululando e la gente accorreva verso la piazza, lasciando i negozi e le auto e le case, io andavo verso la stazione dei pullman senza udire niente intorno a me.

E mentre me ne stavo seduta a fissare lo strappo nel seggiolino, erano arrivati gli idranti dei vigili del fuoco a lavare la piazza bagnata dalla pioggia e a spegnere un incendio che non c’era, cancellando le tracce dell’ordigno, spazzando via i detriti e tutto quello che, nei film americani, i detective chiamano indizi.

Paola Zannoner, Quel giorno pioveva

 

(Nel mio librino scopro anche delle righine sottolineate. Non da me, il meraviglioso vizio l’ho preso in seguito. Però ho sempre lasciato piena libertà – libertà di matita – agli abituè dei miei prestiti. Ricopio e sottolineo:

 

Ma non è mai così, non si può fermare niente, di certo non il tempo e quello che alcuni chiamano il destino. Qui poi non c’entrava il destino, ma l’idea di qualcuno, un’idea capace di diventare azione e devastazione. È pazzesco, ma cose del genere nessuno le ferma, nessuno le può fermare.)

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C’è farfalla di Belen e c’è la farfalla di Tonino Guerra

Io di Tonino Guerra ho letto solo una poesia. Sei versi in tutto. Ma da quel giorno non li ho mai dimenticati.

 

Contento proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando mi hanno liberato
in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.

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E rinasce un fiore sopra un fatto brutto

Pomeriggi facili facili, in cui Scuolamagia riapre i battenti per ripassi assortiti, limatine alla preparazione dei ragazzi, un rabbocco d’olio alla lettura, ordinaria manutenzione dell’ortografia. Per me si tratta di aspettare un’ora, il tempo che gli studenti vadano a casa a fare la pappa prima di rituffarsi nel loro sporco lavoro che qualcuno lo dovrà pur fare.

Negli anni è capitato, qualche volta. Il cucciolo alle 14.00 arriva, bussa, io apro e nelle sue mani c’è qualcosa per me. Forse il primo è stato Paolo, con un gelato all’amarena, direttamente dal frigo del suo bar. Poi ricordo Ilaria con un bignè, deformato dopo la corsetta verso la scuola, il frutto di un esperimento della madre in cucina, al termine di un corso di pasticceria. Martina mi ha consegnato per un bel periodo un mandarino, uno dei due che le servivano alla mensa.

Oggi nelle mani di Nicole per me c’era una notizia. “Nelle mani” non è l’espressione più corretta, “sulla mano” va meglio. C’era una cosa che forse non sapevo, lontano da casa e dalla Tv, e probilmente non mi avrebbe lasciato indifferente. Sarebbe stata anzi una di quelle di cui poi magari a scuola si parla pure: per inquadrarla, per approfondirla.

Io sapevo già tutto da certi cinguettii che arrivano veloci, anche troppo, quasi in tempo reale, ma preferisco credere di aver trattenuto il fiato davanti alla voce di Nicole: Prof., sai che è morto – pausa, mano – nome e cognome.

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Maria Solitudine e la Tav

I giornali sono distratti, e non hanno memoria. Divenuti col tempo molto più schematici, tirano una riga nel mezzo e spiegano a sinistra PERCHÉ LA TAV SÌ e a destra PERCHÉ LA TAV NO. Cifre contro cifre, vantaggi contro svantaggi: il giudice unico è il lettore. Confuso, nel mio caso. E se le parole non aiutano a capire, le immagini non prestano un miglior servizio. Prendete il manifestante che insulta il celerino: fa venir voglia di abbonarsi al “Giornale” di Sallusti.

Toccherà leggere ancora, quindi, e ascoltare altre voci. E rimanere a guardare nella speranza di sciogliere il garbuglio.

Non aiuta a chiarire le proprie idee, probabilmente, nemmeno questa storia invecchiata in fretta. Con protagonista uno di quei nomi che mi sono brutalmente imposto di non dimenticare mai, pena l’avere schifo di me stesso.

 

Dal Monferrato, dalle Langhe, dalla Val di Susa, dal Piemonte profondo, partivano, senza aver mai visto il mare prima, alla volta dell’Argentina. Partivano perché erano poveri, o perché salesiani di don Bosco. «Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America ­ solo per cercare sua madre». Comincia così il penultimo «racconto mensile» del libro Cuore, «Dagli Apennini alle Ande» (De Amicis lo scriveva con una p, Apennini). Due anni fa una ragazza porteña di 22 anni, figlia di una famiglia ricca, discendente del Rosas che fu dittatore dell’Argentina dal 1829 al 1852, venne da Buenos Aires in Europa, sola, per cercare qualcosa. Prima o poi, fra qualche giorno, o qualche anno, uno scrittore, o una scrittrice argentina verrà a raccogliere la storia della ragazza, e ne trarrà un racconto. Lo intitolerà così: Dalle Ande agli Apennini. Per facilitare il suo compito, trascrivo le notizie essenziali, come si ricavano dalla stampa.

La ragazza si chiama Maria Soledad Rosas. Ha una sorella, Maria Gabriela. Abitano nel quartiere Palermo, in Calle Beruti 3000. Le calles di Buenos Aires sono lunghissime, infatti. Soledad (vuol dire solitudine; in casa la chiamano Solíta, a Torino la chiameranno Sole) studia in un collegio cattolico, poi alla facoltà di amministrazione dell’università di Belgrano. È una studentessa modello. Ama i cavalli, è vegetariana.

1996. Parte per l’Europa in viaggio premio. Va in Spagna, poi, dal febbraio ‘97, in Italia. Si sposa a Torino con un giovane italiano, per ottenere la cittadinanza. Ma si innamora, nel settembre del 1997, di Edoardo Massari, riparatore di biciclette e anarchico, che ha 37 anni, e si innamora di lei. Lei lo chiama Edo. I suoi compagni lo chiamano Baleno. Si sono incontrati nell’ex manicomio di Collegno, che ora si chiama Casa Okupada sembra un nome argentino, come Casa Rosada.

5 marzo 1998. Soledad, Edo e Silvano Pellissero sono arrestati con l’accusa di banda armata. «Ecoterroristi» scrivono i giornali. A un visitatore, Soledad avrebbe detto: «Qualche cazzata l’abbiamo fatta, ma non quelle che dicono loro».

28 marzo. Edo si impicca con un lenzuolo nella sua cella, al braccio B del carcere delle Vallette, alle 5 di mattina. Sole scrive una lettera ai compagni: «Io ho sempre pensato che ognuno è responsabile di quello che fa, però questa volta ci sono dei colpevoli… Il carcere è un posto di tortura fisica e psichica… Intanto mi castigano e mi mettono in isolamento. Secondo loro lo fanno per “salvaguardarmi”, e così deresponsabilizzarsi se anch’io decido di finire con questa tortura… Protesto, protesto con tanta rabbia e dolore».

1 aprile. Soledad viene portata in manette all’obitorio. Gli agenti di scorta riferiscono che avrebbe sussurrato: «Arrivederci amore, ci vediamo presto».

2 aprile. Massari è sepolto nel cimitero di Brosso, in Val Chiusella. Suoi compagni aggrediscono dei giornalisti, e ne feriscono seriamente uno.

16 aprile. Soledad, che dal 29 marzo fa lo sciopero della fame, viene assegnata agli arresti, presso una comunità. Don Luigi Ciotti si è fatto garante per lei. L’accusa di banda armata è caduta. Ora è accusata di aver partecipato al lancio di una bottiglia molotov al municipio di Caprie, in Val di Susa. La comunità si chiama Cascina Sotto i Ponti, in località San Grato, nella frazione Podio di Bene Vagienna, nei pressi di Fossano (Cuneo). Soledad chiede di essere rimessa in libertà, di poter lavorare.

6 luglio. I sostituti procuratori competenti chiedono il rinvio a giudizio di Soledad e Pellissero, che sta facendo lo sciopero della fame nel carcere di Novara.

11 luglio. Soledad si impicca con un lenzuolo nella doccia, alle cinque di mattina. La ritrova il giovane marocchino Brahim Daabe. Respira ancora. È morta quando arriva l’ambulanza.

12 luglio. Il sostituto procuratore competente dichiara che Soledad aveva avuto un «ruolo marginale», che contro di lei c’erano «accuse leggere», e che «è arrivata a Torino dopo gli attentati contro l’Alta velocità».

12 luglio. Eseguita l’autopsia nell’obitorio di Mondovì, il corpo di Soledad viene trasportato da un furgone dell’impresa funebre Bottero di Bene Vagienna al cimitero di Torino, per esservi cremato. Le ceneri saranno mandate in Argentina.

12 luglio. La perquisizione in cascina trova un quadernetto di appunti, un paio di libri e alcune riviste: vengono portati in un sacco alla procura di Mondovì.

13 luglio. La madre di Soledad, Marta, al telefono da Buenos Aires dice: «Lo Stato italiano dovrà darmi una spiegazione. Qualcuno dovrà dirmi perché non le era stata concessa la libertà con il semplice obbligo della firma, perché non ha potuto cercarsi un lavoro. Voglio una risposta, voglio capire perché una ragazza accusata di aver lanciato una bottiglia molotov contro un municipio torna a casa sua in una bara». 13 luglio. Alcuni squatter lanciano uova piene di vernice contro la redazione torinese del quotidiano «La Repubblica». Ma si sbagliano, e colpiscono la sede della Corte dei conti. 14 luglio. Un giornale scrive: «Forse qualcuno avrebbe dovuto valutare meglio cosa stava succedendo». Chissà come racconterà questa storia lo scrittore, o la scrittrice, che verrà dall’Argentina. Guardate che il libro Cuore non è affatto sdolcinato, o a lieto fine. Finisce bene il viaggio di Marco, a Tucuman, ma lui sapeva che cosa cercava: cercava sua madre, e l’ha trovata. Chissà che cosa cercava Maria Soledad Rosas. Speriamo che non vogliano immaginarlo, o spiegarlo. I suicidi non si spiegano. Uno li vale tutti. Ognuno ha il diritto alla sua speciale solitudine.

Adriano Sofri, “Panorama”, 23/07/1998

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Nel suo occhio c’è l’azzurro, nel suo braccio acciaio c’è

Non me ne vorrà e sarà d’accordo con me, il giornalista italiano dalla faccia bianca e lo sguardo sempre triste. Avevo solidarizzato con lui, stamattina, ascoltando la radio. Ci vuole coraggio, pensavo, e si trattava soltanto di un uomo in guerra con una Mito. Passa una manciata di ore e quell’eroe è ridimensionato. C’è un’altra faccia sulle homepage, sempre di giornalista, sempre in guerra, ma questa volta da un Mito sembra essere uscita.

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Quando tutto diventa uguale a tutto

C’era qualcosa che non tornava. Un nodo che non veniva al pettine. Perché mi infastidivano così tanto le polemiche che hanno investito la figlia di Elsa Fornero ed il suo posto fisso? Alla fine l’ho capito.

Silvia Deaglio, che ha un anno più di me, è prima di tutto un medico. Silvia Deaglio è prima di tutto un’oncologa. Silvia Deaglio è una che nel curriculum ha pubblicazioni che si chiamano Rapid and sensitive detection of recombinant soluble proteins in the supernatant of transfected mammalian cells. Oppure articoli che suonan così: Role of CD31/platelet endothelial cell adhesion molecule1 expression in in vitro and in vivo growth and differentiation of human breast cancer cells. Ecco: si può davvero pensare che qualcuno si occupi di quelle cose prescindendo da una scelta di vita, da una scelta etica, da una mission, da un sogno chiamatelo come volete voi? Si può essere parcheggiati a vita, indebitamente e a spese dei contribuenti, dentro un incarico così? Si può estendere il concetto di paraculaggine fino allo scienziato che scruta cellule tumorali al microscopio? Ahimè si può, succede quando tutto diventa uguale a tutto. Quando si perdono di vista le differenze, piccole e grandi, quando il nero non è mai grigio e figuriamoci se esiste ancora il bianco. La persona in questione non insegna “storia del teatro piemontese contemporaneo”, non presiede una municipalizzata inutile, non siede in un consiglio regionale in quanto figlia di storico leader politico. La persona in questione si occupa di growth and differentiation of human breast cancer cells.

La società è percorsa da una nuova faglia. Da una parte gli ingenui, quelli che come me immaginano Silvia al microscopio e in cattedra, a dar lezioni di microscopio e ad abbassare sensibilmente l’età media dei professori (una volta lo auspicavamo tutti, no?). Dall’altra, quelli che preferiscono pensarla come una parassita tra i tanti, la persona sbagliata nel posto (fisso) giusto, degno di giovani più dotati e soprattutto più onesti.

Poi c’è il tema della scarsa mobilità sociale, e dei figli dei poveri che devono poter accedere agli stessi posti dei figli dei ricchi. Un tema vero e complesso; difficile, per chi sia pieno di buone intenzioni, anche soltanto capire da dove cominciare a risolverlo. Ma rimane lì, il tema. Intatto, inscalfibile. Decisamente più facile abdicare al compito, gettando un po’ di sabbia in faccia al nemico (???), ma anche a se stessi, per vedere l’effetto che fa.

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Mucche alla riscossa

C’è un qualunquismo ingenuo e quotidiano da cui nessuno può dichiararsi immune. Alzi la mano chi non abbia almeno una volta nella vita voluto cancellare una Comunità Montana, preferibilmente una di quelle a 39 metri d’altitudine sul livello del – e a due passi dal – mare.

Finisce poi che si perda il senso delle parole, però. Perché “comunità” è un termine stupendo, e “montana” è un aggettivo prezioso.

Sarebbe piaciuta un sacco ad Alex Langer, la storia raccontata oggi su “Repubblica” da Carlo Petrini.

Protagoniste sono 3 comunità montane, due in Italia e una in Bosnia. Le due italiane offrono in regalo rispettivamente un uomo di gran cuore e 48 vacche. Quella bosniaca riceve commossa gli animali e l’uomo, Gianni Rigoni Stern, figlio di Mario. Accogliendo quest’ultimo come un indispensabile “libretto delle istruzioni”. Perché a Sucéska, comunità montana della Bosnia Erzegovina, dal 1995 gli uomini che accudivano il bestiame e guidavano l’agricoltura non ci sono più, spazzati via dal più grande crimine commesso in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli anziani, le donne e i bambini che sono rimasti a vivere in quella terra di per sé difficile avevano bisogno di ricominciare, di ripartire. E da soli facevano fatica.

L’idea di aiutarli, e di farlo anche così, è venuta ad un’attrice di teatro, Roberta Biagiarelli, che da tutta questa storia ha tratto anche un film. Che io voglio assolutamente vedere e adesso metto a soqquadro Google finchè non scopro come procurarmelo.

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La chiave di Sara ma anche la vasca di R.

R. è risoluta di natura. Giovedì mattina, venuta a conoscenza dei miei programmi per la Giornata della Memoria, mi ha raccontato a brutto muso un passato, negli anni della scuola primaria, fatto di filmoni pieni di immagini agghiaccianti che le sono stati sbattuti in faccia così, a tradimento, in una mattina di gennaio che per lei era soltanto una delle tante. Non si fa così, pensa R., perché c’è chi ce la fa, a sopportare la vista di quei corpi ammucchiati come stracci, e chi non ce la fa, come lei, che poi deve vedersela con certi incubi che neanche me li immagino. Perché io, continua R., non verso la lacrimuccia perché mi commuovo… Io riempio la vasca da bagno. E quasi comincia, R, a piangere. Ed è solo giovedì 26, e io non ho mostrato proprio nulla. Non ho nemmeno ancora detto nulla.

Io NON SONO D’ACCORDO con quanto scrive Carla Melazzini nel suo interessantissimo Insegnare al principe di Danimarca. No, non del tutto. Però alcune sue considerazioni mettono il dito nella piaga di una leggerezza con cui, anno dopo anno, si sono cominciati a celebrare certi riti, e a ripetere certe parole. Come se fossero scontati contenuti e modi, stili e approcci, tanto urgente pare essere l’imperativo morale di (FAR) RICORDARE.

Io NON SONO D’ACCORDO con Carla Melazzini, non del tutto almeno, e oggi ho parlato a R. e le ho mostrato immagini scelte con cura maniacale, ma ancora una volta mi sono trovato davanti ad una giornata che è in tutti i sensi un salto mortale, carpiato e all’indietro. Per atterrare su un filo.

 

La parola magica epidemica di questi tempi è senza dubbio “memoria storica”. La sua frequenza settimanale è impressionante, sulla bocca degli illustri pensatori come dei più umili professori. Suo obiettivo prevalente è di incolpare la gioventù – oltre che di tutto il resto – anche della svolta conservatrice in atto nel paese, in quanto priva della medesima (memoria storica).

Non mi capacito come gente così istruita possa dimenticare a un tratto (a proposito di memoria) ciò che la scienza e l’arte ci hanno insegnato sull’essere umano; e far finta di credere che esso sia non un labirinto ma una tavola di cera su cui basti incidere qualche buona parola, o un paio di capitoli del programma di storia, per esorcizzare il male.

Una risposta adulta tendente a schiacciare il giovane sotto la incontrovertibile verità dei fatti (la memoria storica) non può che ottenere l’effetto contrario: aumentare l’angoscia e la conseguente negazione.

Si aprirebbe qui un discorso sull’uomo, le sue angosce, le sue difese che, per quanto difficile e doloroso, avrebbe un duplice vantaggio: di attribuire ai sentimenti dell’adolescente – invece che una condanna sommaria – la drammatica dignità di un problema umano universale; e di offrire qualche spiraglio per una effettiva “assimilazione della tragedia” che è ben altra cosa da quella operazione intellettualistica, per non dire scolastica, che viene predicata sotto il titolo di “memoria storica”.

Trovo ingiusto caricare gli orrori del mondo sulle spalle fragili di una gioventù che non ha la responsabilità e non è tenuta a pagare i sensi di colpa degli adulti.

Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca

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Pozzanghera trasloca. Qui.

(comparso, per l’ultima volta, sulla vecchia gloriosa Pozzanghera)

Lo scotch, quello marrone, passa sopra le scatole di cartone e le sigilla. Sulla parete c’è il segno di un quadro staccato, sul muro quel che resta di un altro tipo di nastro adesivo, quello che sosteneva un poster. Dal soffitto penzola solo una lampadina con il suo filo. Dal pavimento è sparito il tappeto. Come una vecchia casa condannata da un trasloco è la mia Pozzanghera.

Splinder, nobile e antico gestore di blog, il 31 gennaio chiude per sempre i battenti e con lui molte migliaia di diari personali come il mio.

Da qualche giorno i miei post sono tutti consultabili ad un nuovo indirizzo (www.unapozzanghera.it), un (con)dominio più moderno che mi chiede un affitto di 50 euro all’anno. Lo sento ancora freddo ed inospitale, questo mio spazio, mi perdo ancora tra le sue stanze molto più grandi e attrezzate. Lascerò per molti giorni gli scatoloni chiusi, li aprirò un po’ per volta, quasi controvoglia. (Ci si affeziona ad un paio di calzini bucati, figuriamoci al proprio blog.) Riappenderò il vecchio poster con i segni dell’antico scotch. E (ri)comincerò, come ho scritto la mia prima volta sul web, il 31 dicembre 2004.

L’unica gioia al mondo
è cominciare. È bello vivere
perché vivere è cominciare, 
sempre, ad ogni istante.

Cesare Pavese

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Adriano Sofri e le tasche di Tom Sawyer

 

Niente male come prima azione da uomo libero. Interrogare un bambino molto sveglio, che a scuola dice di aver letto Tom Sawyer. Sì, ma cosa c’era nella tasca di Tom Sawyer? Una pallina, un topo morto legato col filo, un pezzo di gomma, una scatola di petardi e una piccola pulce. Risposta esatta: bravo il bambino e bravo Adriano Sofri, autore del quiz. Bocciato io, che quella lettura a suo tempo l’ho affrontata ma senza serbare il ricordo di un particolare decisamente non secondario.
Ho percorso il tragitto del mio ritorno in macchina da scuola facendo un gioco: cosa mi ha insegnato Adriano Sofri? Via, si comincia. Che le balene comunicano da distanze infinite, anche da un oceano all’altro, e che la globalizzazione le disturba. Che bisogna stare dalla parte delle ragazzine che salgono sugli alberi perché non vengano abbattuti. Che il futuro è appeso ai destini delle donne, specie delle donne iraniane. Che Sarajevo era uno specchio e che non si può non amare Israele, anche se si disprezzano le azioni dei suoi governi. Che la faccia di Alex Langer va stampata sulle magliette. Poi la strada è finita, mentre le cose imparate (e quelle capite) no. Sarebbero serviti altri chilometri, tanti chilometri.
Rincasato, poi, ho incontrato il suo nome tra i temi più dibattuti su Twitter. Molti si felicitavano, ma senza troppa fantasia: “Sofri è libero ma in fondo lo è sempre stato”. Suona bene, sicuro, ma a cosa sono servite tutte le sue parole sul carcere e sulla vita dei detenuti? Io mi sarò dimenticato del topo morto e della pallina di Tom Sawyer, ma c’è chi ha problemi di memoria molto più gravi.
Molti, moltissimi, esprimevano riprovazione e odio, e le solite parole d’ordine di una storia infinita. “Sofri è finalmente libero, ma quel commissario è ancora morto”. Come se scontare e non scontare una pena fossero la stessa cosa.
La scelta migliore, ancora una volta, quella dello stesso Sofri. Niente da dichiarare, proprio niente, con tante scuse. È proprio che non c’è, qualcosa da aggiungere. C’è altro da fare. Il mondo è pieno di bambini da interrogare. Chissà cosa nascondono nelle tasche.

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La figlioletta

Specificare l’etnia dei protagonisti di vicende individuali è qualcosa di davvero disgustoso. Quello che nel bene o nel male potrebbe capitare a chiunque, dovunque e sempre non ha mai bisogno di specificazioni di quel genere. Se la stampa italiana deve applicare questa schifosa prassi, però, almeno la applichi sempre. Se nei titoli la vittima è stuprata da un algerino, borseggiata da un bosniaco, rapita da un moldavo, picchiata a sangue da un serbo, aggredita da una banda di uruguagi, allora è giusto che oggi si scriva forte, in grassetto, che la bimba uccisa da una pallottola in testa in un quartiere della capitale era CINESE. Nel titolo, intendo, nell’occhiello e nel testo dell’articolo son capaci tutti. Nel titolo quello che ti prende a schiaffi, quello che richiama la tua attenzione, quello che sta in alto. In attesa di scoprire l’identità degli assassini – se saranno stranieri ce lo urleranno fortissimo – pensiamo che quel cadaverino era un nostro piccolo, piccolissimo ospite. 

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MORMODOU

Samuele, Tommaso, Meredith, Melania. I nomi delle vittime li sappiamo memorizzare. È così che funziona, camminiamo a tentoni e quel poco che impariamo lo impariamo grazie a quegli appigli: i nomi. Che si tratti di un accessorio del computer o di un morto ammazzato cambia poco: il procedimento non può che essere quello.

Da tempo, però, noto come ci siano nomi più ostici che tendiamo a scansare.

Non si tratta di una questione linguistica. Abbiamo imparato a dire Breivik, sterminatore venuto dal freddo. Non era facile.

Fatichiamo con i nomi africani, guarda un po’, e se dobbiamo fare un esempio diciamo “Mohammed” e non ci pensiamo più.

Oppure diciamo “due senegalesi”. Punto.

Ma se ci chiedessero di inventare una storia dove si muovano allegramente 10 personaggi subsahariani?

Lo so, nessuno ferma le persone per strada chiedendo di inventare storie africane. Possiamo dormire sonni tranquilli.

Mor.

Modou.

Eccoli.

Insieme: MORMODOU. Una parola bellissima.

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