Piccola posta, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

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Piccola posta, Res cogitans

Verremo perdonati te lo dico io da un bacio sulla bocca

Cara baciatrice di celerini,

in 1503 ti avranno già ricordato il Pasolini di Valle Giulia, che non ho motivo di pensare tu non conoscessi già, anche prima di stampare il tuo bacio sulla visiera di quel giovane poliziotto.

Saprai quindi come quel tuo gesto – anche in nome di uno straordinario precedente letterario – non possa in alcun modo venir ascritto a nessuna categoria o espressione di quel variegato mondo che è la sinistra. È troppo evidente in quella vicenda come l’anello debole, quello verso cui far scattare la solidarietà naturale non possa essere tu. Dovendosi accomodare “dalla parte del torto”, tanto per scomodare un altro Grande, qualunque progressista sceglierebbe la compagnia di quel ragazzo del sud finito dentro una divisa così come si imbocca una strada forzata. Tuttavia, lungi da me darti della “figlia di papà”: essere più fortunati, “nascere qui anziché lì” non è certo una colpa.

Quello che volevo segnalarti, coraggiosa dispensatrice di baci, è invece il punto dove davvero sbagli, dove il tuo discorso – pescato nelle interviste che hai concesso – non si regge in piedi. Cadi a mio avviso su quel solito epiteto: “pecorella”. Lui, il celerino, ha secondo la tua opinione scelto di sottomettersi, di vivere rasoterra, manovrato dall’alto. E il suo, su questo hai ragione, non è certo un lavoro per creativi e spiriti critici. Ma tu, credi davvero di essere così libera? Io non ne sono così convinto. Credi di scrivere il tuo copione, ma in realtà sei scritta. Rispondi a un cliché, interpreti un personaggio già mille volte sulla scena. Chiunque abbia qualche familiarità con le pagine di un quotidiano potrebbe indovinare come la pensi su un sacco di faccende di questo mondo. Io credo di potercela fare, e te lo dico consapevole di essere pure su molti temi perfettamente d’accordo con te. Perché, visto e considerato che di te conosco solo un piccolo insignificante gesto? So cosa pensi di Obama. So perfettamente cosa potresti rispondere (parolacce comprese) a uno che ti chiede se stai con Cuperlo, Renzi o Civati. Conosco le tue idee sulla crisi e sull’Europa. Ti posso elencare i libri che hai letto. Perché? Il celerino che hai baciato potrebbe avere sul comodino un titolo che mi sorprenderebbe. Tu no, penso. Eppure sei una lettrice vorace. Chi è più pecorella? Tu, che sei convinta che lui i libri non li legga e io lo so.

Sai come avrebbe dovuto finire questa storia?

Con un gesto spiazzante, molto più del tuo.

Quell’uomo in divisa avrebbe dovuto sollevarla, la visiera. Avrebbe dovuto slacciare quello scomodissimo caschetto. Avrebbe dovuto stringerti forte a sé e ricambiare quel tuo gesto un po’ esibizionista con un vero bacio appassionato, con la lingua, forte ma non per questo privo di dolcezza. Un bacio che finisse lì, chiaro, e che facesse ridere tutti i presenti. Anche i militari di grado superiore, soltanto con un po’ più di contegno, sotto i baffi.

Avresti gridato alla violenza, avresti detto “lasciami”. Vedi come sei prevedibile?

Però alla fine avresti capito anche tu e lui, se avessi aspettato che smontasse da quello stressantissimo turno di lavoro, ti avrebbe offerto un caffè.

 

Saluti e baci. Anzi no, soltanto saluti, ché ti ho già abbastanza presa per il culo.

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Vite che non sono la mia

Da qualche tempo prima di andare a dormire clicco su Repubblica.it e dedico le mie penultime energie (le ultime spettano di diritto al libro che ho sul comodino) a Il mondo in un minuto, piccolo compendio quotidiano di fotografie dal pianeta. Gli scatti che mi colpiscono di più finiscono spesso a fare da copertina al mio profilo su Facebook.

Mentre compio questo piccolo rito, sono sfiorato da un pensiero ricorrente: l’oriente mi sembra più fotogenico dell’occidente. Mi stupisco dell’ingenuità di questo assunto, che so demolire dialetticamente anche da solo, ma tant’è: mi capita di rimanere incantato davanti ad un mercato popolare di Giacarta più che davanti ad un corteo di operai messicani, davanti ad un panorama di Taiwan prima che dinnanzi allo skyline di Toronto.

La faccio breve e confesso di sentirmi una merda per aver guardato le immagini provenienti dalle Filippine con gli stessi occhi di quando metto in scena il mio “premio fotografico” delle sere qualsiasi. Ho visto la bellezza dove avrei dovuto sentire soltanto la compassione. Ho benedetto il talento ma anche la fortuna di chi ha saputo incastonare una bambina disperata nel mosaico dei fili elettrici ingarbugliati ai rami; ho trovato spettacolare una moto guidata da un padre in fuga, passeggeri due figli piccoli e due enormi orsi di pezza.

Dal poco che so di quell’arcipelago lontano è riemerso poi questo video, che credo domani mostrerò ai miei giovani virgulti, con la storia pazzesca degli abitanti del cimitero di Navotas, a Manila. Un affresco di vita, occhi spalancati, salti e corse a piedi nudi messo in scena direttamente nel teatro della morte.

Ma ci son ricascato, quella è di nuovo la bellezza.

Di vite che non sono la mia*.

 

Above and Below from Stefan Werc on Vimeo.

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Avere gli anni di una carezza, di un pianto leggero

La sera in cui per la prima volta ho visto Federico Tavan ero seduto in quarta fila. Uno scrittore di fama (prima che si riciclasse come sabotatore di cantieri…) e un grande fotografo stavano presentando un volume realizzato a quattro mani”. Spiegavano il perché di quell’impresa, la natura del loro rapporto, le dinamiche di una fruttuosa collaborazione. Spiegavano, ma nessuno poteva ascoltare. Tavan, infatti, camminava inquieto in fondo alla sala. Parlava a voce alta, infervorato, teatrale, imprigionato da una vitalità ingestibile, travolgente. Io non sapevo chi fosse, quell’uomo, e ovviamente mi sembrava strano che nessuno intervenisse censurandolo, invitandolo ad uscire. Gli organizzatori di quell’evento, ad esempio. Niente, tutti zitti con gli occhi rivolti ad uno scrittore muto e gli orecchi ricolmi delle parole incomprensibili di un matto.

Poi ho capito che quell’uomo era un poeta, uno dei più grandi. E che tutte quelle persone, silenziose e rispettose, conoscevano i suoi versi.

 

No stéi domandâme ce tanç ans che ài

 

Ài i ans

de Pasolini e Leopardi

del passero solitario

e de Silvia

dei fugulins

ch’i no clarìs pì

al cjant dei crics.

Ài i ans

de un nin

che la mestra

à trat davour la lavagna

parceche al era

cjatif e brut.

Ài i ans

de un Jesu Crist

ch’a no’l puarta

nissun lare

in paradis

de una carecja

de un vaî sutil

de un acuilon

sbregât dal vint.

Ài i ans

di una riduda

de un gjat

pecjacât

dai compagns de zouc

d’un ospedâl

a catordes ans

e d’una mare

ch’a resist

de un par cui nasce

al éis comunque biel.

 

[Non chiedetemi quanti anni ho. Ho gli anni di Pasolini e di Leopardi, del passero solitario e di Silvia, delle lucciole che non rischiarano più il canto dei grilli. Ho gli anni di un bambino che la maestra ha cacciato dietro la lavagna perché era brutto e cattivo. Ho gli anni di un Gesù Cristo che non porta nessun ladro con sé in paradiso, di una carezza, di un pianto leggero, di un aquilone strappato dal vento. Ho gli anni di un sorriso, di un gatto preso a calci dai compagni di gioco, di un ospedale a quattordici anni e di una madre che resiste, di uno per cui nascere è comunque bello.]

 

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Letteratura leggera

Capita spesso, ormai. Chiudere il librino e riporlo sotto il lume, prima della nanna, pensando “bah, tutto qui? E Einaudi (o Feltrinelli, o Bompiani, o Sellerio…) si è ridotta a pubblicare ‘sti romazetti sciapi? Facevo meglio a leggere qualcosa su internet…”.

Perché davvero il divario tra ciò che se ne sta inscatolato sotto nobili insegne editoriali, avvolto da altisonanti fascette rigorosamente gialle, prefato da autorevoli padrini letterari e ciò che nasce su un banale foglio di Word per essere copiincollato su una bacheca di WordPress e reso pubblico dopo una mezza rilettura al volo… si sta assottigliando.

L’ho constatato anche stamattina alle 5:30, mezzoretta prima di partire per il lavoro, dopo essermi imbattuto in un nuovo fulminante post di Enrica.

Io Enrica non la conosco. Io mi relaziono soltanto con il personaggio del suo blog, i cui destini ho mille motivi di pensare siano aderentissimi a quelli dell’autrice, ma non è questo il punto, perché le riflessioni che la verità vi spiego sull’amore mi regala, e lo fa spesso, diventano immediatamente mie. Esattamente come quelle scovate dentro ai libri che – al momento di riporli sul comodino – ti fanno dire “apperò” al posto di “bah, tutto qui?”.

Prima o poi l’amore arriva…, recita il sottititolo del blog, e già senti aria di famiglia, e ti viene in mente un vecchio librino di fantasiose poesie, quand’eri un adolescente o poco più. Soltanto che l’amore… ecco… capita sia un filino privo di scrupoli, succede che non ti guardi proprio dritto dritto negli occhi e proceda – mettiamola così – per vie tra(per)verse. Nasce da un dolore grande, il blog con i caratteri più grandi (e siano benedetti dal dio degl’orbi!) del Web. Nasce dalla rabbia, dal rancore e da mille cocci di vita infranta. Ha voglia di rivincita, però, e di aggrapparsi all’inventario infinito delle cose belle: un vecchio film, una canzone, il disegno di un bambino, un gioco di parole, un gioco di parolacce. E ai figli, si aggrappa. E anche qui si potrebbe divagare sulle mamme nella blogosfera, nel giorno in cui mi scopro anch’io gelosissimo del primo amore di un’altra bambina virtuale ma non troppo, l’Alice che porto in classe in fotocopia per la gioia dei miei alunni…

Il blog di Enrica mette nere su bianco, letteralmente, un sacco di faccende terribilmente serie, e diresti che ti fa piangere se contemporaneamente non ti facesse anche molto ridere; quindi ti disorienti e alla fine ti vien da dirle solamente grazie, come diresti a uno di quelli che per strada ti vengono incontro con un cartello di cartone e una scritta senza senso: free hugs.

No, non ho scritto che i blog sono meglio dei libri. Anche perché ho il sospetto di aver pescato i libri sbagliati, ultimamente. Però mi piace chiamare questa piccola miniera di storie reperibili in rete – basta un po’ di fiuto, e tanta santa pazienza: “letteratura leggera”. Proprio come la musica con quell’aggettivo lì.

È tutta letteratura leggera – si potrebbe dire parafrasando quello… – ma come vedi la dobbiamo leggere.  È tutta letteratura leggera ma la dobbiamo imparare.

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A day

Era finito il gomasio, e il gomasio dalle mie parti lo vendono soltanto lì.

Così stamattina sono entrato come faccio sempre e sempre con quell’unico scopo, ma in quel negozio non era un sabato come gli altri. Era l’ultimo. Il foglio appeso al vetro (lunedì non riapriamo) parlava chiaro, ma meno delle facce. Non solo quelle delle lavoratrici, tutte donne, i volti tirati e gli occhi lucidi. Anche quella della signora più affezionata ma anche più ignara di me, passata di lì a fare scorta di farro e yogurt biologici. Le veniva da piangere e chiedeva del domani. La sua interlocutrice era rassicurante e relativizzava in prima persona (“io per fortuna ho mio marito…”), ma lasciava trapelare un salto nel vuoto per colleghe e colleghi.

Con i miei alunni ho scelto di partecipare a Italy in a day. Siamo saliti sul punto panoramico che domina il paese di Scuolamagia e abbiamo fatto – e ripreso – un urlo. Prima avevamo filmato con il tablet una partita di calcio con in mezzo al campo una ragazza che scriveva un tema, con tanto di foglio di protocollo e Zingarelli d’ordinanza. Non ci sceglieranno mai, Salvatores si coprirà gli occhi con la mano, ma è stato divertente.

La scena giusta per raccontare il paese, però, era senz’altro quella che ho visto entrando in quel negozio, tra gli scaffali semivuoti e quella gente ferita. Prima di recuperare 3 barattoli di gomasio e venire a scrivere questo post.

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Se 14 euro ci sembran pochi

Basta un rapido sguardo alle prime pagine dei giornali di oggi per fare i conti con un’evidenza: 14 euro al mese ci sembran pochi. L’occhiata fugace a un paio di talk politici, ieri sera, regalava la medesima impressione: risatine, sfottò, benaltrismi. Critiche feroci alla legge di stabilità e alle sue magre iniezioni alle buste paga sono arrivate da destra e da sinistra, da leader politici ed economisti, da osservatori stranieri e casalinghedivoghera.

La Pozzanghera è perfettamente consapevole di come molti cittadini italiani fatichino nel quotidiano campare e non ha quindi bisogno di particolari approfondimenti per chiamare “buffetto” quello che avrebbe dovuto essere uno “gancio sinistro” in faccia alla povertà.

Tuttavia, in tanti hanno un filo esagerato nell’ironizzare su quelle 14 monetine messe una sull’altra. 14 dischetti di metallo pur sempre in grado di sfondare una tasca, far traboccare un pugno, sbancare una macchinetta del caffè.

Se quindi quella tintinnante pochezza finisce per offenderci, se risulta inutile ai fini del rilancio dei consumi…

…perché non regalarla alla causa dei migranti che arrivano dal mare?

Con serietà e rigidi controlli, s’intende.

Perché non consegnare quell’obolo irrisorio, anche quello di un mese soltanto, a chi ne ha di gran lunga più bisogno?

Ai bimbi migranti, orfani di padre di madre e di tutto, in prima pagina sui quotidiani di oggi, appena sotto lo scherzetto democristiano delle 14 monetine.

Moltiplichiamo quel niente per… che so… 4 milioni. 56 milioni di euro che potrebbero diventare soccorso più pronto e accoglienza più calda, letti più comodi e mediatori culturali.

Alcuni di quei bambini soli, arrivati rocambolescamente in Italia e spariti nel nulla, potrebbero essere tolti dalla strada su cui ogni giorno mendicano una moneta.

Una al massimo.

Si è mai visto qualcuno che ne depositi 14 in un piccolo palmo?

Una, una, ché son pur sempre 2000 lire…

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Trecento madonne in fondo al mare

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Non c’è il mare nella foto che non riesco a fare a meno di guardare. Il mare è delle balene, il mare è dei delfini, il mare è un contorno, è solo una cornice. I ragazzi a scuola non hanno neanche voglia di colorarlo, nelle cartine sui quaderni. Il mare non si addice certo alla ragazza della foto. È una ragazza di terra, di sabbia, di roccia, di prato. Ma non è nemmeno una creatura da desktop, il (non)luogo dove l’ho piazzata io da luglio, da quando è finita nell’obbiettivo di un reporter di stanza a Malta, inviato a raccontare gli sbarchi di eritrei e somali, e respingimenti ancora più violenti dei nostri. Ho voluto mi facesse da proMemoria, volevo che la mia giornata cominciasse dopo aver consultato i suoi occhi. Ogni tanto mi ha fatto tornare al secolo scorso e al mio  primo pc, un quattroottosei di seconda mano, e al suo sfondo affidato dal precedente proprietario a una seppur castissima Cindy Crawford in bianco e nero. Proprio un bel salto.

Oggi la ragazza ed io ci guardiamo e siamo più muti del solito. Il file con gli esercizi per domani, il logo del browser, l’ultima musica ancora da ascoltare: ho sempre avuto cura di spostare le icone sull’arancione dello sfondo, non violando mai la perfezione delle labbra, il viso disegnato col compasso e lo spazio di quegl’occhi traboccanti di pianto.

L’ho chiamata ragazza, penso che avrei dovuto scrivere donna. Ho scritto donna e mi convinco di poterla chiamare madonna. Una madonna contemporanea, senza bambino. 90 madonne così bruciate o affogate in mare, il mare senza colore dei miei alunni. 250 madonne così ancora disperse: leggi morte, coglione, ché il mare non è mica roba nostra, il mare è delle balene e dei delfini.

Oggi tutti parleranno, tutti diranno qualcosa. Chi regalerà un pensiero, chi scriverà un articolo, chi diramerà una nota, chi si affiderà ad un tweet. La Lega vomiterà la sua pochezza, Grillo dirà di chi è la colpa. Sarà scosso anche Berlusconi: vedrà la sua afflizione nella giusta proporzione, e scaccerà il cagnetto all’altro lato del divano. Telefonerà il Papa, porterà sincero conforto. Penserà anche lui che con trecento madonne morte in fondo al mare il numero da chiamare sarebbe un altro, ma che quel numero selezionato è inesistente.

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Quando eravamo giovinetti

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Prima di tuffarci nei meandri del fiume della Storia, spesso a inizio anno a Scuolamagia ci dedichiamo alla storia minuscola delle pareti e dei pavimenti che ci ospitano. Come piccoli Champollion decifriamo incisioni sul legno di certe finestre, datiamo antichissimi “W Inter”, ci chiediamo il perché di misteriose scritte avvitate alle porte: “App. tecniche maschili”, saranno mica parenti delle app sul display dei nostri cell.? Complici vicende davvero notevoli legate alla nascita dell’edificio oggetto di studio, l’attività capita che appassioni un bel po’, specie nelle sue fasi dinamiche di “caccia all’indizio” storico, su e giù per le scale, chi qua e chi là e che vinca il migliore.

Le ricerche odierne hanno portato al rinvenimento di alcuni interessanti documenti cartacei. Un foglietto volante arancione, perso dentro un vecchio registro, non era altro che il decreto di un’espulsione. Il 29 gennaio 1969 la Prof. Taldeitali presenta a carico del giovinetto (avete letto bene: GIOVINETTO) Tizio Caio il seguente rapporto disciplinare: scarsa applicazione (ancora queste app… n.d.r.) e contegno scorretto. Va da sé: c’era stato il ’68 anche nelle scuolette di montagna. Quella specie di multa, in copia, doveva essere esposta all’albo ed inserita nella cartella personale dell’alunno, che avrebbe avuto la fedina penale sporca alla faccia del garante della privacy.

Altro documento ingiallito, sfogliato in una nuvola di polvere: una raccolta di temi risalenti all’anno scolastico ‘73-’74. Tracce brevi, piuttosto sul vago. Una mi colpisce. Parla di cosa trovi profondamente ingiusto. Da quella e da altre tracce sparse tra i fogli di protocollo deduco un profilo di insegnante sinistrorso, illuminato e forte dei suoi valori. Di altra estrazione l’autore del tema, a occhio. Il suo pensiero, esposto con elementare efficacia, in soldoni: chi ammazza una persona dev’essere condannato all’ergastolo; chi ne ammazza due merita la pena di morte. In proporzione diretta al numero delle vittime, la pena capitale vedrà incrementare l’atrocità della sua esecuzione. Immagino l’inchiostro rosso del collega bollire nella plastica della Bic. Proseguendo, altra grave ingiustizia: la fame nel mondo. E come dare torto al giovinetto? Che continua: mi chiedo perché si siano spesi tutti quei soldi per il referendum; uno solo di quei miliardi sarebbe bastato per aiutare tutti gli uomini affamati ed assetati del pianeta. Spietato, come si evince dall’immagine, il commento dell’insegnante.

Una chiosa in rosso appare anche a margine della chiusa. “I politici inoltre sanno soltanto parlare, ma non agire”. Il Prof., in corsivo nervoso: “da approfondire…”.

Si può star sicuri che hanno approfondito, i politici.

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La fantasia al palo

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Durante le vacanze le loro fantasie mi sono mancate un sacco.

Ed è come se si inaridisse anche la mia, in assenza delle loro.

Sono stato un’ora davanti alla pagina vuota di word, prima di ideare l’ultimo “tema” da svolgere a casa. Ho appallottolato decine di idee prima di ripiegare su un banale giochino suggeritomi direttamente dall’oggetto su cui stavo picchiando le dita.

Prendete 15 lettere dell’alfabeto, in stampatello maiuscolo, e ditemi cosa ci vedete dentro. Anzi, oltre. Partite da lì e tornate il più tardi possibile. Buon lavoro.

E sono andati.

E hanno visto.

Mont(A)gne innevate e farfalle (B) di profilo, posate su un ramo di ciliegio.

Chiavi a pappagallo (F) del papà, mani abbraccianti di mamma (C).

Facce di bambini con il termometro in bocca, indiani con frecce conficcate sulla faccia, topolini con la codina visti da dietro mentre scappano da un gatto: tutto in una semplice (Q).

Ali da angelo (W), fischietti da arbitro (P, ruotata di 90°).

Navi sul pelo dell’acqua (Z).

E altro, molto altro.

Compresa una (I) che – premessa: prof. non è la prima cosa che mi è venuta in mente – diventa un palo da lap dance.

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Bramare di bramire

 

Non il solito sabato sera.

Ce l’avete tutti il concetto di “non il solito sabato sera”, vero?

Il centro del vostro finesettimana quando non somiglia a nessun altro di quelli precedenti, è più unico che raro, irripetibile, grazie ad un incontro, grazie ad un’emozione, grazie a qualcosa che sembra accadere soltanto per regalarvi sorpresa e benessere.

Ecco, non ci siamo. Dovete aggiornarvi. Dovete aggiornare il concetto di “non il solito sabato sera”.

Sabato 21 settembre accadra di più, sabato 21 settembre accadrà di meglio.

I membri di una giovanissima associazione sportiva e naturalistica vi aspettano alle 17.00 in località Pierabech, a Forni Avoltri, per raggiungere in notturna l’oasi di Bordaglia. In notturna e in incognito, perché l’obiettivo è quello di ascoltare – meravigliosamente soltanto ascoltare – i bramiti dei cervi. Un gesto soltanto all’apparenza passivo, in realtà attivissimo, pieno forza e di rispetto. Una piccola innocente intrusione in un altrove riconciliante. Un modo per sentirsi ospiti e non padroni, attori che abbandonano le velleità da registi e si accontentano di recitare la parte più difficile: il silenzio.

 

È il caso di dirlo: accorrete silenziosi!

 

P.s.: l’associazione Trôis richiede un’iscrizione di 10 euro, a sostegno di future iniziative, raccomanda inoltre di dotarsi di una torcia e di eventuale binocolo. 

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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Balene

Cercavo un libro che mi insegnasse cose che non sapevo. Fatti e idee che proprio ignorassi, non le diverse declinazioni di un fenomeno che mi fosse già noto.

Così ho comprato un libro che parla di balene.

Ho quindi scoperto che un tempo solcavano gli oceani creature a dir poco pazzesche. Testimonianze storiche molteplici e circostanziate – purtroppo antecedenti l’evo videofotografico – riportano avvistamenti di animali giganteschi, serpenti marini lunghi cinquanta metri, capaci di spezzare a morsi imbarcazioni poderose.

Ho imparato che in fondo al mare può nuotare ancora oggi, grazie ad una straordinaria longevità, qualche balena coetanea di Moby Dick (data di pubblicazione: 1851).

Ho scoperto che l’ambra grigia – sostanza rarissima pescata in mare e usata dai migliori produttori di profumi per la qualità di inglobare trattenendole le altre essenze – non è che cacca solidificata di immenso cetaceo. Non lo sapevano neanche i produttori di profumi, all’inizio, e posso solo immaginare l’imbarazzo al momento di accogliere la nuova nozione elargita gratuitamente dalla scienza.

Ho imparato che le balene non sono solo natura – cosa più di questo mammifero può essere associato alla vita selvaggia?! – ma sono anche cultura. Per via culturale i cuccioli apprendono comportamenti e tecniche di sopravvivenza. Per via culturale – altro che istinto – imparano a soccorrersi e a rispettarsi. Con lo sterminio sistematico l’uomo cacciatore non ha posto fine soltanto all’esistenza di milioni di individui della specie, ma anche ad elaborazioni collettive che possono essersi estinte in seguito al calo demografico.

Ho scoperto – ma lo sapevo già perché me l’aveva raccontato uno scrittore – che le balene lasciano impronte. Sì, sull’acqua. Temporanee, certo, ma nemmeno troppo. L’acqua solcata da una megattera o da un capodoglio non è infatti davvero più la stessa di prima, cambia a livello molecolare, nella forma ma anche nella sostanza.

Ho capito perché da piccolo questo fosse il mio cartone animato preferito, e perché costruissi con i Lego complesse navi baleniere destinate ad attraversare la superficie mossa del parquet, tra la poltrona e la televisione. Per costruire Moby Dick mi mancava il know how. E i mattoncini non sarebbero comunque stati sufficienti. Tuttavia, i miei omini di plastica erano vigili e pronti alla caccia.

 

 

«Una rapida sequenza di stridii. Più che udirli con le orecchie, li sentivo dentro il petto; la mia cassa toracica era diventata una cassa di risonanza. La balena si stava creando un’immagine mentale di me: una scansione dell’intruso in risonanza magnetica nucleare, un profilo dell’alieno invasore.

Sentii il mio corpo rilassarsi e pisciai nell’acqua. Un pensiero ridicolo mi passò per la testa: mi ero presentato senza preavviso, con l’unico risultato di perdere il controllo delle funzioni corporee e orinare sulla soglia di casa del mio anfitrione. Poi, nel momento cruciale, la testa si girò e si chinò impercettibilmente, come mi avesse identificato. Non commestibile. Privo di interesse.

Passai dal puro terrore a qualcosa di diverso. Capii che era una femmina. Una grande madre che fluttuava davanti a me, intensamente viva. Malgrado il suo disinteresse, un invisibile cordone ombelicale sembrava unirci. Da mammifero a mammifero; la sua grigezza senza fine, il mio pallore senza madre. Perso e trovato. Un altro orfano.

Non riuscivo a capacitarmi che qualcosa di così grande fosse così silenzioso. Scansionato dalla carica elettrica del suo sesto senso, mi sentivo insignificante, e tuttavia non del tutto. Ricreato a misura sua e a misura del mare, ero stato assimilato dalla sua alterità, nella sua mente c’era una mia immagine. Mentre la balena mi sfilava davanti, vidi il suo occhio: grigio, velato, senziente, disposto lateralmente, centro della sua coscienza. Dietro, tutto il resto era muscolo, che si muoveva senza sforzo. Quel momento durò per sempre, un’eternità di pochi secondi. Entrambi nella nostra nuda interezza, separati soltanto dall’oceano sconfinato».

 

Philip Hoare, Leviatano ovvero la balena, Einaudi

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

A volte ritornano

A Scuolamagia. Succede. A settembre e a ottobre di più. Che tornino. Appena possono. Quando la scuola nuova non è ancora cominciata o quando è chiusa per un santopatrono. Si guardano intorno. Cercano riferimenti nello spazio, mentre sono travolti da quelli nel tempo. Che riaffiorano, crudeli e taglienti. Vedono i nuovi – alle medie da due giorni – muoversi già padroni di tutto. Anche di ciò che era loro, soltanto ieri. Entrano quando vogliono, a Scuolamagia si può. Se ci sono io entrano anche in classe, si siedono per terra, sulla cattedra. Si appoggiano al muro. Protestano: “Ma ‘sto giochino che si vincon le Fonzies con noi non lo facevi…”. Vero, ma l’ho inventato l’altroieri, giuro. Mi giustifico ma arranco: avrei potuto inventarlo prima. Cala un velo di tristezza sottile mentre suona la ricreazione. “I migliori sono i ricordi brutti” – diceva Gassman in quel vecchio film. Quelli belli li pensi e ti accorgi che parlan di cose che non ci sono più. Come la tua vecchia scuola. Come la tua prima adolescenza, che non ha niente a che vedere con la seconda. Come i tuoi 11, 12, 13, 14 anni. Tornate presto, è mio il congedo per loro. Ma lo voglio davvero? Con tutto il male che fa? 

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Res cogitans, Stream of consciousness

Le mie 48 ore da Obama

Sono stato Obama per 48 ore. Ho vissuto la mia piccola crisi siriana standomene comodamente in terrazza. Sono stato combattuto tra l’interventismo e la non ingerenza: due istanze opposte che si sono scannate al ritmo dei passi delle mie vecchie ciabatte. Ero in possesso di prove evidenti: l’individuo sospetto era troppo nervoso, decisamente inquieto. E poi era palese la sua intenzione di spiare un orizzonte senza da quell’orizzonte poter essere spiato. Guardava guardingo alla sua destra, ignorando me che dall’alto lo guardavo guardare. Cosa calamitasse i suoi occhi, nel corso di quasi ogni sera nelle ultime due settimane, mi era più difficile stabilirlo. Il supermercato, certo, ma chi? Ma cosa? Ma perché? Il punto, tuttavia, era quell’ansia che lo divorava, quel continuo salire e scendere dalla macchina, il sistemare il berretto sul capo, calando il frontino in direzione degli occhi. Fino a quell’ultima mossa intravista dalla mia postazione di guardia: indossare e togliere un paio di guanti in lattice. La prova regina, anche per uno come me che non frequenta alcun tipo di letteratura gialla e noir. Che fare? Confidare nella favoletta della cittadina tranquilla in cui certe cose non succedono o lasciarsi trasportare dal fiume in piena del sospetto? Mi sono tornate alla mente le tante cronache incrociate sui giornali, inzuppate di sennodipoi, e le tante tragedie che forse “pensando male” si sarebbero potute impedire.

E allora ho preso il telefono e ho sentito dall’altro capo il peso della mia stessa preoccupazione. Solo che era una delle tante, in un mestiere in cui da un pensiero è automatico si scateni un’azione concreta e decisa. Ho sentito quindi  spronare una volante, a cui venivano fornite precise indicazioni logistiche, mentre ancora stavo descrivendo all’operatore quel berretto calato sugli occhi.

Nulla di cruento è seguito. Un goffo tentativo di fuga, un’identificazione, la raccomandazione di tornarsene a casa.

Non sono convinto di aver commesso un errore. Credo che si comporti davvero in quel modo sospetto chi fa la posta ad una ex colpevole di abbandono, un potenziale femminicida. Ma non era questo il caso. Ad altro serviva quell’attesa, ad altro era mirata la protezione di quei guanti. A una balla d’insalata mezza andata. A un pomodoro ammaccato, a quel che resta di una pesca sotto il superficiale strato ammuffito. Ho ostacolato il terribile reato di raspare in un cassonetto, ho impedito l’intercettazione di qualche alimento troppo imperfetto per finire nella sporta di una massaia ma ancora in grado di colmare il vuoto di una fame.

Non riesco a non pensarci, impotente, nel giorno in cui un sacco di persone di buona volontà giocano al digiuno.

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

“Per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse”

Aveva ragione Samuele Bersani, nella canzone che ha dedicato a Enzo Baldoni. Una cosa che penso ogni anno, ad ogni scoccare di anniversario, riascoltandola nei giorni d’agosto in cui molti ricordano questa particolarissima figura di italiano: uno dei nostri, ma anche uno anni luce più avanti. Uno che aveva capito prima un sacco di cose, ma che sicuramente si sarebbe fermato in fondo alla strada per aspettarci e raccontarci tutto.

Aveva ragione a scegliere una sineddoche, Bersani. Una parte per dire il tutto. Gli occhiali al posto del loro proprietario. Due lenti e una montatura al posto di un omone e del suo nomeecognome.

Come quell’oggetto di uso così comune, anche Enzo Baldoni era estremamente delicato, fragile, sempre a rischio di smarrimento o rottura. Ma come gli occhiali vedeva, metteva a fuoco, scrutava dentro e guardava oltre.

Celebri aihimè sono soprattutto i suoi reportage dai luoghi di guerra, la cui fama – doppio ahimè – è stata purtroppo un frutto postumo.

Baldoni, però, vedeva lungo in un sacco di altre direzioni.

Oggi ho riletto questo pezzo sulla pedofilia. Una testimonianza diretta, intima e vera, senza reticenze, lucida. Niente di specialistico – Baldoni ne sapeva quanto ciascuno di noi che poco abbia studiato e approfondito – piuttosto un mattone concreto messo lì per tutti, generosamente, gratuitamente, perché era giusto e naturale fare così, perché non si sa mai possa servire, nella costruzione di una società migliore.

 

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