Soletta, Stream of consciousness

Coi più sfrenati voli, con la più austera passione

È domenica mattina e mi prende il panico. Mi compare davanti agli occhi la pagina del giornale con la foto virata seppia. Era nel giornale di martedì, di mercoledì, o di giovedì? Non ricordo. Ricordo soltanto di essermi ripromesso di leggere a sera quell’inedito nelle pagine culturali.

Al panico segue la ricerca spasmodica. Parte dei quotidiani finisce in un cassetto, carta pronta per accendere il fuoco, al mattino presto. Non è lì. Rovisto quindi nel bidone sul terrazzo – sia lodata la differenziata – e trovo la copia di “Repubblica” del 7 marzo. E pagina 43, quella che cerco.

 

Il mio Avatar sui social network aveva una moglie, bellissima.

Ed ecco il suo inedito, un testo scritto dopo 6 anni di vedovanza. Con tante grazie al fascismobuono

 

«Se la vita non mi avesse ridotta a trent’anni così disperatamente vecchia e sola, se nel mio domani ci fosse ancora la possibilità di una speranza o di un sorriso, oggi vorrei fabbricare, per la mia gioia, qualche impossibile sogno. Ho aperto la finestra: il vicolo era pieno d’ombra ma una diritta lama di sole scintillava sui vetri della casa di fronte: fuori dallo stretto intrico delle viuzze nel viale che porta al mare, indovinavo diffusa la calda luce del novembre; forse sulla spiaggia le donne dei pescatori cantavano riaggiustando le reti, certo sciami di bimbi giocando si sorridevano. Ho desiderato uscire, scuotere dalle spalle questo grigio torpore, ancora cercare ansiosamente un brivido nuovo, ancora tendere le mani. Verso che cosa? Queste mie mani che da troppo tempo non hanno carezze, non sanno più stringersi nel gesto sovrano del prendere, non sanno più schiudersi alla soavità del dare. Ho visto nello specchio il mio volto opaco, senza risalto: ho abbassato gli occhi sul vestituccio di cotonina bigia, ho sentito la disadorna povertà del mio corpo: oh, senza imprecare. Ancora una volta ho piegato la fronte.

Poiché non c’era più sole ho richiuso la finestra: mi sono seduta sulla coperta di cotone a scacchetti bianchi e rossi, sul letto gelido e duro. Ho guardato le cose intorno: la catinella di ferro scrostata, le tendine sudicie sui vetri polverosi, il tavolo consunto e roso dai tarli, le sedie impagliate.

Un piccolo ragno si inerpicava lentamente lungo il muro: l’ho lasciato salire e nascondersi in un angolo, sotto la tappezzeria lacera. Senza ribrezzo, senza timore: perché questa è la realtà.

L’ho tanto cercata la mia realtà: coi più sfrenati voli, con la più austera passione. Senza mai appagarmi. E la realtà è questa: vita che non è vita, morte che non è morte. Grigio che dilaga, dilaga, che non ha fine, che resiste, che dura, che sarà ancora oltre il pulsare malato del mio cuore e delle mie vene.

La stanza è quasi buia: e c’è il silenzio intorno. Presto sarà la notte: e torneranno anche gli altri e dovrò alzarmi, sedere al mio posto nella umiliante promiscuità della tavola comune, aprire la bocca, rispondere alle domande, mangiare.

E poi? Non piango: non debbo pensare a nulla. Domani sarà come oggi. E un altro giorno ancora.

Nulla oltre questo, nulla di diverso da questo. Non chiedo perché. Non mi ribello. Mi piego con [……] anche se la ragione mi è ignota. C’è tanta pace in questa disfatta: me ne lascio penetrare, inerte. Accetto il mio destino, con umiltà».

 

Ada Prospero Gobetti

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L’ora buona delle Fate silenzio

 
– Fate piano!
Maestra, esistono davvero?

– Chi?
le Fate piano…

– Secondo voi bambini?
Per me sì: appoggiano le cose adagio, camminano a rallentatore, non hanno mai fretta e se uno va troppo veloce, con la magia lo fermano per un po’, e salvano le persone che potevano morire alla svelta, invece pianino pianino non sbattono contro le cose.

– Io ho conosciuto le Fate silenzio
Cosa fanno?

– Cercano di far star zitti tutti quelli che urlano o non smettono mai di parlare, e alle volte tolgono i rumori della paura.
E voi bambini sapete cosa sono i rumori della paura?
Io lo so: quando nel buio senti qualcosa che dà i brividi, le Fate silenzio ti aiutano e non li senti più, smetti di tremare e torni a dormire.

– Ci sono solo di notte?
No… un giorno durante un terremoto mia sorella ha sentito come un tuono che non finiva mai, sono arrivate le Fate silenzio e tutto è finito subito.
Una volta io ho visto le Fate così.

– E cosa facevano?
Così

– Così come?
Come dicevano loro: se io dovevo scrivere o disegnare, mi aiutavano a fare così, se dovevo mangiare, lo facevo, così loro erano felici anche per me…

– Ma come sono?
Così

– Così come?
Non so…. come della gente che vola quando è felice, e se non vola scende e guarda cosa può fare per far volare anche gli altri che sono a terra

– Bambini cosa vuol dire essere a terra, qualcuno me lo sa dire?
Mio padre aveva una gomma a terra, sgonfia come un pallone.
Mio fratello aveva un pallone sgonfio ma con un calcio lo ha fatto volare.

– A terra vuol dire anche stanco, malato, triste, giù.
Se mia mamma mi aspetta giù io devo essere triste?

– Se lei è giù devi essere giù anche tu!
Io abito in una casa a tre piani e certe volte uno è giù e gli altri sono tutti su, ma tristi…
Io abito a un piano terra e siamo sempre tutti giù: più giù di così moriamo, ci seppelliscono.

– Adesso bambini andate, fate presto.
Le vedo: andiamo con loro, così non saremo mai più in ritardo.

 

Alessandro Bergonzoni, “il Venerdì”…

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Il concerto del passato che parla del futuro

Todo cambia. La realtà sorprende e spiazza. Succedono cose prima d’ora impensabili. Conforta pensare a qualcosa che stia fermo, rimanga lì, perché quando è nato sembrava perfetto così e così perfetto sembra anche oggi. L’ho pensato davanti alle parole di certi pezzi che ha cantato Claudio Lolli, patrono di questo blog, nel suo concerto di venerdì, a Cervignano. Una serata fuori dal tempo, lontana dal presente, uno spettacolo clamorosamente privo di novità, anzi: compiaciuto per il fatto di somigliare più di sempre alla sua vecchia storica versione. Edito e superedito, senza alcun progetto da vendere, senza alcunché da perseguire sulle strade di iTunes. E tutto ciò, tutto questo miracolo, soltanto grazie ad un libro. Quello ingiallito, con la copertina strappata. Quello che il cantautore stringeva tra le mani, lo scrigno di testi da tempo forse dimenticati, o più probabilmente così rispettati da temere qualsiasi scivolone mnemonico.

Da lì si riparte sempre, dalle parole, dalla poesia.

Uscendo da un concerto di 30 anni fa, il primo marzo 2013, mi è fin troppo chiaro che bisogna sempre andare avanti e che “indietro non si torna neanche per prendere la rincorsa”. Canticchiando arie di sax vien da immaginare un futuro di luce: zingari felici che si rincorrono, compagne che volano sulle pozzanghere e che so… un Papa nero, no… meglio… un Papa donna.

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La prospettiva di Ivan

Che bisogna guardare il mondo da prospettive sempre nuove, da ottiche diverse, me l’ha insegnato, tra gli altri, Ivan Scalfarotto.

Anche scrivendo parole come queste.

Quindi, mentre dalle stelle – tutte e cinque – piovono cattivi auspici che si espandono – a macchia di giaguaro – sul futuro del paese, cambio prospettiva e gioisco per un nuovo onorevole come ce ne vorrebbero mille.

[eco fuoricampo: vaffanculoooooooo!!!]

Cinquecento, vabbè.

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Le domande di Alex

Giornalisti, blogger e personalità varie si sono dati da fare, nei giorni scorsi, per far arrivare agli italiani le loro più o meno motivate dichiarazioni di voto.

Io prima delle elezioni, di tutte le elezioni, rispolvero un vecchio file ripescato nel computer di Alex Langer dopo la sua tragica fine. Datato 4 marzo 1990, rimane qualcosa di misterioso: avrebbe dovuto evolvere verso qualche sorta di pubblicazione o era destinato ad una riflessione strettamente personale? Non lo sapremo mai.

Intanto, mi piace da impazzire l’idea che ad aiutarmi ancora una volta non siano delle RISPOSTE ma delle DOMANDE.

 

Cosa ci può realmente motivare?

Cambiare il mondo o salvaguardarlo?

Solidarietà come autocompiacimento?

Abbandonare la radicalità?

Etica della rivoluzione?

Navigare a vista?

Esiste da qualche parte una linea di demarcazione tra amici e nemici?

A chi ci si può affidare?

Cosa ti dice il sud del mondo? Solo cattiva coscienza?

Perché cercare la salvezza altrove (perché poi dover andare lontano…)?

Vivresti effettivamente come sostiene si dovrebbe vivere?

Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?

Professionalità. Potresti vivere anche senza politica? Ti sei davvero domandato cosa ti procura e ti ha procurato?

Altruismo/egoismo?

Quali costanti?

Quali sintesi (p. es. giustizia, pace, salvaguardia del creato)?

Cosa faresti diversamente?

Alex Langer

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Allora come spieghi questa maledetta nostalgia

 

 

C’era una volta una giovane donna che ritagliava sagome umane dalle foglie. Era un’artista, quella donna, e perseguiva il vecchio grande sogno di fare della propria vita un’opera d’arte. Compiendo gesti come mettersi in cammino e raggiungere Gerusalemme in autostop, vestita da sposa. Milano, Venezia, Gorizia, Lubiana, Banja Luka, Sarajevo, Belgrado, Sofia e avanti, mettendo in campo la sua fiducia negli umani come fanno ogni giorno gli autostoppisti e quelli che li raccolgono.

C’era una volta questa giovane donna che fu vittima della sua opera d’arte, di quel gioco di fiducia e speranza infrantosi sullo scoglio di un maschio feroce, violentatore e assassino, in terra turca. Ho un vago ricordo di quelle cronache e di quegli imbarazzi. Certo che… una donna… da sola e vestita da sposa… In quelle lande, poi… Voce del verbo “andarsela a cercare”, coniugato fino quasi a convincermi. D’altra parte non conoscevamo ancora la parola “femminicidio”, non avevamo ancora ascoltato le omelie dei parroci fustigatori di minigonne, e le donne non ballavano tutte assieme la danza che Pippa Bacca eseguiva già benissimo da sola, e correva l’anno 2008.

Il nuovo video di Malika Ayane, reduce da Sanremo, sembra celebrare in maniera discreta, davvero sottovoce, l’ultimo progetto di quella donna che ritagliava uomini dalle foglie e si fidava ciecamente del suo prossimo.

 

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Se ne fa un altro

 

Ci voleva proprio un grande teologo, su quel soglio. Era ora!

 

Don Ciotti, Don Gallo: due fuoriclasse! Ma come in ogni grande squadra, il merito è tutto di chi li allena e coordina così bene.

 

Basta con la lingua italiana, ha ragione lui: torniamo alla messa in latino. Lo abbiamo studiato tutti, un po’ di latino, no?

 

Mi ha stregato il suo ultimo libro, soprattutto quando spiega che nella natività quella vera non c’erano né il bue, né l’asinello. Mi è sembrato un ottimo modo per avvicinare simpaticamente a quell’evento i più piccoli.

 

Ha proprio ragione: gli omosessuali non vanno lasciati soli ma sostenuti mentre affrontano la loro malattia.

 

Sono fermamente d’accordo con la sua dura condanna dell’aborto, definito una ferita inferta alla pace tra gli uomini.

 

Ho apprezzato la sua proposta di eliminare l’esenzione dall’Imu di tutti gli edifici non adibiti al culto.

 

Mi fanno impazzire i suoi Tweet, che hanno davvero dato nuova linfa a quel social network.

 

 

Anch’io non le ho mai sentite pronunciare da nessuno quelle frasi, tranquilli.

E quasi mi spiace scrivere una cosa polemica nel giorno in cui è palese l’umanità di quel gesto: non farcela più e dire basta. Non ce l’ho con lui, oggi. È tutto questo parlarne, è tutta questa sorpresa (davanti all’addio di chi non sorprendeva mai). Sono quelli che si dicono folgorati. Non c’è quell’uomo vecchio, al centro di tutto. C’è quel suo potere. Un po’ svuotato, certo. Privo di un grande avvenire davanti, possibile. Ma trattasi comunque di uno dei più riconoscibili ruoli – nella forma, se non sempre nella sostanza – in cui si incarna il potere degli uomini sugli uomini.

Quello ci tocca, ci colpisce, ci folgora. Quel vecchio è solo un vecchio come ce ne sono tanti.

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Guarda e impala

 

C’è chi sbrana occasionalmente, quando ad esempio finisce nel vortice di uno scandalo bancario, e c’è chi sbrana per mestiere.

Ieri sono stato sul punto di gettare nella Pozzanghera una delle foto scattate da un fotografo olandese e pubblicate dai giornali online. Mi avevano colpito. Una leonessa coccolava un cucciolo di impala, spuntato all’improvviso nella savana pochi attimi dopo l’uccisione, per zampa leonina, della madre.

Erano l’apoteosi dell’istinto materno, quegli scatti. Erano il granello di sabbia andato ad inceppare i meccanismi severi ed implacabili del mondo naturale e le ciniche leggi che sovrintendono alla sopravvivenza delle specie.

Non ci sono cascato. Tutto troppo bello per essere vero e troppo poco vero per essere bello.

Questa mattina le ho mostrate alla mia amica Magie, quelle foto. Dall’alto dei suoi 15 anni che la portano a trasalire per ogni immagine di animaletto cicciopuccioso, ha sentenziato: “non può essere”.

Aveva ragione.

 

According to Packer (un etologo del Lion Research Center at the University of Minnesota, n.d.r.), the scene depicted in the photos is familiar to anyone who has studied lions, and to anyone who has ever watched their cat catch a mouse. “These are just variations on the theme of cat-and-mouse, where cats capture their prey and play with it until they either get bored and leave it or get hungry and eat it”.  

(L’intervista completa)

 

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The question

La ragazza chiede se può andare in bagno. Nell’aula i banchi sono disposti a ferro di cavallo e lei sta all’angolo, quello opposto alla porta d’ingresso. Può, certo che può.

L’insegnante, momentaneamente chinato sul banco di un assente, scartabella cercando una fotocopia colorata smarrita e la sente tagliare la classe, tracciandone di buon passo la diagonale. Cinque secondi al massimo, percepiti come un piccolo fruscio.

Il ragazzo, dal suo banco, è soltanto una voce – curiosa, da scienziato.

«Prof., ma perché le donne sculettano?»

 

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Disegnare insieme

Un noto mensile ha chiesto a due disegnatori, diversi ma neppure troppo, di sedersi allo stesso tavolo e di condividere lo stesso foglio bianco. Ne è nata una jam session d’inchiostro nero che mi ha ricordato la bellezza di un gesto che in fondo frequento da sempre e che continuo a praticare nel mio lavoro quotidiano.

Disegnare insieme a qualcun altro.

Ma non ognuno per sé: insieme sullo stesso foglio. Gomito a gomito. Un atto di condivisione profondissima. Riunire due strumenti musicali non regala a parer mio lo stesso tipo d’incanto: bellissimo, ma rimane una somma, un unopiùuno. Disegnare sullo stesso foglio è invece un intero. È dare un morso alla stessa mela. Mi piacerebbe riuscire a farlo capire, ai cuccioli che mi chiamano per segnalarmi che la riga che han tracciato è storta, che il cerchio è tutto fuorchè tondo, che “gli occhi proprio non mi vengono”; far loro capire che sedermi al loro posto, o al loro fianco, stringere tra le dita la loro matita mangiucchiata, il loro pennarello da due lire è per me un onore e un’emozione grande, capace di riportarmi con la memoria a tutta la carta che ho riempito di segni con l’aiuto di altre mani.

Sarà per quello che poi la riga rimane storta, il cerchio rimane sghembo, gli occhi non ne parliamo.

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La fuga di Guia

 

Qualcosa mi dice che nessun brano di Guia Soncini sia stato ancora “antologizzato” nei ponderosi tomi in uso nelle scuole secondarie di primo grado, strizzato tra Calvino e Buzzati, tra Piumini e Omero.

Qualcuno dovrà pur cominciare, no? Almeno a leggerla, almeno in fotocopia,  ‘sta benedetta autrice contemporanea.

Io comincio la prossima settimana.

 

La prima volta che scappai di casa ero in quinta elementare. Su Canale 5 facevano un ciclo di telefilm intitolato I simpamici (i traumi inferti da certi titolisti non sono stati abbastanza indagati): un giorno mandavano Il mio amico Arnold, un giorno L’albero delle mele – cinque baluardi degli anni Ottanta a settimana.

Litigai con mia madre per ragioni che non ricordo (e che probabilmente non ricordavo già due ore dopo), e uscii di casa determinata a non tornarci. Ero sicura della mia scelta senza ritorno almeno quanto mio padre era convinto di non poter vivere senza quel qualcosa di biondo con cui si accoppiava da anni (illudendosi probabilmente da altrettanti anni che lei lo volesse tutto per sé).

La prima tappa della mia grande fuga era casa della mia migliore amica. Non ricordo se il piano prevedesse di fermarsi lì o poi fare il giro del mondo: non sono mai stata una bambina avventurosa e l’amica abitava, secondo misurazione fornita oggi da Google Maps, a 140 metri di distanza. Ma non importava, perché il silenzio e l’inconsapevolezza di dove mi trovassi avrebbero gettato i miei nella più cupa angoscia – no?

Dalla mia amica c’era il televisore rotto. Era l’ora di pranzo. Chiamai mia madre e feci l’annuncio con tutta la pomposità richiesta dalle circostanze: «Sono scappata di casa. Torno alle cinque per i Simpamici».

Guia Soncini, I mariti delle altre, Rizzoli

 

 

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Ho un problema con la Memoria, quella Memoria

Li guardo dal basso verso l’alto, come la posizione che ho occupato nel teatro mi consente di fare. Lo spettacolo è appena iniziato. L’attrice esperta li ha fatti entrare ed accomodare su una lunga fila di sedie. Racconteranno – benissimo – la storia di quelle donne friulane che aspettavano i convogli ferroviari diretti verso i campi e intercettavano i bigliettini dei prigionieri, scritti in fretta e furia prima che la deportazione fosse compiuta e prima che fosse troppo tardi. Gli attori sono ragazzi delle medie, come i miei, e io riesco a guardare solo le loro scarpe.

Ci sono le Nike marroni, le Asics da corsa, le Adidas blu. Ci sono le Puma basse e affusolate e quelle alte da basket, slacciate, bianche. Una ragazza indossa due ballerine nere e muove velocemente i piedini che le abitano: ha freddo. Una indossa degli stivaletti che arrivano a metà polpaccio, il suo vicino un paio di scarpette eleganti con il bordino argentato.

Da qualche anno la Giornata della Memoria mi mette in crisi, mi fa traballare. La scossa più forte me l’ha data un libro fondamentale, e ne ho già scritto, ma forse tutto è cominciato prima, quando ho smesso di essere sicuro e di entrare in classe il 27 gennaio più motivato che in un giorno qualsiasi.

Che diritto ho di far vedere loro tutto questo? A quell’età, dico. Non dovrebbero scoprirlo più tardi, già grandi, dentro lezioni e discussioni (e film, e libri, e spettacoli teatrali) da adulti? Sono sicuro che sia giusto mostrare uomini orribili e terrificanti a ragazzini e ragazzine che forse non hanno ancora preso davvero le misure di un uomo buono e di un uomo cattivo? No, non ne sono più sicuro. È una questione di memoria. La Memoria con la maiuscola, certo, tutta la vita. Ma non in quel momento, non con l’intensità che c’ho messo in certe occasioni.

Lo spettacolo era calibratissimo e dolce. Luminoso. C’erano i bigliettini, al centro. E dentro i bigliettini parole d’amore. I ragazzini hanno ancora dimestichezza coi bigliettini, nonostante il cellulare; a scuola i Prof. lo sanno e fanno finta di non vedere la carta che transita clandestinamente tra le ginocchia e il ripiano dei banchi. Era calibratissimo, dolce, luminoso, lo spettacolo. Ma giocava col fuoco. Un fuoco che mi sono illuso di domare tante volte, e da cui oggi – forse, però – difenderei quelle scarpe pulite, ancora così povere e ignare di cammino.

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Una domenica da leoni

I giornali, questa mattina, pullulavano di leoni.

C’erano vecchi leoni spelacchiati che credevo quasi estinti. Invece ruggivano piangendo un compagno morto. Ripensavano alle battaglie vinte e perse con gli altri animali della savana, gridavano che la guerra non è finita, perché la guerra non può finire. Erano ciechi, quei vecchi leoni, in fondo lo sono sempre stati. Erano tre, erano quattro, erano più di 24, purtroppo.

Scrocchiano un paio di pagine e riecco altri leoni. Fuor di metafora: leoni d’Africa più veri del vero. Erano 100.000, 50 anni fa. Sono rimasti in 15.000, nelle stime dei pessimisti, oggi. Quindicimila, un po’ meno dei miei concittadini in questa piccola landa friulana. Chissà cos’avrei risposto, m’avessero chiesto “quanti sono in tutto i leoni?”. Pur privo di qualsivoglia strumento, avrei risposto 900.000, massimo 1.200.000. Mi sarei sentito realista, e senza l’aria di chi spara a caso.

Corro a preparare la lezione, domani in classe si parla di leoni.

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