Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Once upon a time, Tirunesh Dibaba

l

Tirunesh Dibaba sta sul palmo di una mano.

Il problema, dopo averla raccolta, sulla linea del traguardo, è che ricomincerebbe a correre, risalendo l’avanbraccio e il braccio come fossero altipiani.

Tirunesh Dibaba quello fa, corre. Anche dopo aver trionfato, abbraccia qualche collega – senza trasporto,  di corsa – riceve una bandiera dell’Etiopia e ricomincia a mulinare le gambe. Il volto è impassibile, sta volando sulla prima corsia, ma l’espressione è quella di una bambola antica appoggiata sopra un letto.

Tirunesh ieri sera ha fatto qualcosa di straordinario, ma non se l’è filata nessuno. Solo qualche lancio d’agenzia. Nessuno che raccolga la sua storia. La poesia l’ho vista solo io e confesso di sentirmi solo.

Tirunesh Dibaba forse non esiste, forse è una fata che compare solo a me, come in un sogno, tra uno scampanìo da ultimo giro di pista e un “c’era una volta” con la voce di Franco Bragagna. 

Standard